giovedì 22 gennaio 2015

Lavoratori pubblici: come evitare i licenziamenti a pioggia


Innanzitutto bisogna assicurarsi di avere a portata di mano:

certificazione necessaria al fine di impugnare il licenziamento;

consulenza legale (facoltativa);

modulistica per i ricorsi.

Nel caso in cui un lavoratore dipendente ritenga di aver subito un ingiusto licenziamento deve rivolgersi ad un Avvocato del Lavoro per esercitare il diritto al ricorso e veder riconosciute le proprie ragioni.

La prima fase viene svolta davanti ad una commissione di conciliazione presso la direzione provinciale del lavoro a cui il licenziamento deve comunque essere comunicato in breve tempo dal datore di lavoro. In tale fase il lavoratore può farsi assistere da un legale, essa è di preparazione alla seconda fase, eventuale, davanti al giudice del lavoro e tende ad evitare l’ingorgo giudiziale e allo stesso tempo a fornire una tutela adeguata al lavoratore. Solo dopo aver esperito questa fase, se le parti non accettano la proposta del conciliatore, si può passare alla fase giudiziale vera e propria.

Se il licenziamento resta il grande svantaggio per i neoassunti del settore privato con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act, poiché sarà più facile rispetto al vecchio contratto a tempo indeterminato, nel settore pubblico gli statali attendono per capire quali saranno le loro regole a riguardo.

Il Ministro Madia ha già rassicurato gli animi di molti: gli statali godranno sempre e comunque del reintegro nei casi di licenziamento illegittimo, perché "si licenzia con i soldi di tutti".

La Madia ha dichiarato che tra il settore pubblico e privato esistono delle differenze oggettive, ma è giusto scavare un solco così profondo tra le due categorie di dipendenti?

Un altro esempio: per il dipendente pubblico, a differenza del privato, non può essere previsto il licenziamento individuale per motivi economici, al massimo possono configurarsi modalità di esubero collettive, come il caso delle Province.

La spina nel fianco dei dipendenti pubblici sarà invece il licenziamento per scarso rendimento.

Il licenziamento per i cosiddetti «fannulloni» esiste già dal 2009, in base a quanto disposto dalla Riforma Brunetta, per cui un dipendente pubblico può essere licenziato, tra le altre cose, per:

assenza ingiustificata per oltre 3 giorni nell'arco di 2 anni o per una settimana negli ultimi 10 anni;

presentazione di un certificato medico falso;

scarso rendimento, secondo i criteri stabiliti dalla legge;

falsa attestazione della presenza in servizio.

Quanto vengono applicate queste regole? Quasi per niente, poiché nel caso di un licenziamento illegittimo di un dipendente pubblico, sarebbe il dirigente il responsabile del danno erariale, dunque la persona su cui graverebbe l’onere del risarcimento.

E’ difficile che un dirigente sia disposto a rischiare i risparmi di famiglia per licenziare un dipendente: meglio il consueto patto di reciproco riconoscimento del diritto all’inefficienza, per cui il dirigente non mette sotto stress i dipendenti e questi non mettono sotto stress lui.

La prassi è dimostrata dai numeri riportati: ogni anno vengono licenziati poco più di 100 dipendenti pubblici l’anno, su 3,5 milioni, contro i 40.000 dipendenti privati, su 11.000, sulla questione tecnica è intervenuto Ichino, da giuslavorista d’esperienza, è entrato nei dettagli:

«Il testo unico dell’impiego pubblico stabilisce che, salve le materie delle assunzioni e delle promozioni, che sono soggette al principio costituzionale del concorso, per ogni altro aspetto il rapporto di impiego pubblico è soggetto alle stesse regole che si applicano nel settore privato».

Ma c’è chi, come il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia sostiene che gli statali sono esclusi, perché entrano per concorso e quindi seguono regole diverse: «Qualche volta anche i ministri sbagliano, concorso non significa inamovibilità. E sbaglia chi voleva l’espressa esclusione dei dipendenti pubblici. Non si rendono conto che il contratto a tutele crescenti costituisce l’unica soluzione possibile per il problema del precariato, anche nel settore pubblico.

Il dipendente statale è uguale al dipendente privato. In realtà in Italia non è così,dipendente privato e dipendente pubblico non hanno le stesse difese, quest’ultimo può essere licenziato solo in casi eccezionali, estremi direi: omicidio del capoufficio e successivo stupro della di lui moglie così, per ulteriore sfregio.

Nel pubblico c’è una clamorosa zona grigia che nessun governo negli anni è riuscito a rischiarare (solo la Fornero all’epoca disse qualcosa di impegnativo sull’argomento). Il punto è questo: una delle ragioni più diffuse per cui l’imprenditore privato lascia a casa un dipendente, sono i conti dell’azienda che non vanno bene. Qui s’impone una prima riflessione, che riguarda le responsabilità dello stato (inteso come struttura sociale che comprende politica e magistratura).

Compito dello stato è vigilare perché gli imprenditori non licenzino ingiustificato, con la scusa di conti in disordine che in realtà nascondono ben altro. E questo compito non è affatto semplice, non è facile trovare un punto di sintesi virtuosa tra esigenze così diverse, se non opposte. (È del tutto inutile sottolineare che gli imprenditori seri non si privano dei dipendenti che lavorano seriamente).

Adesso ribaltiamo la prospettiva e trasferiamo la ragione principale di licenziamento nel campo privato all'interno del campo statale. La domanda che ne sorge è una sola: come si fa stabilire che “i conti sono in disordine” se un ministero, un ente parco, insomma queste robe mesozoiche qui, non producono una mazza, non vendono nulla, non esportano alcunché?

Come si fa a stabilire che un ministero dovrebbe dimagrire in termini di personale? È necessario trovare una chiave diversa, quindi, che non sia la produttività privata, decisamente più facile da riconoscere. E la chiave è compresa nella storia italiana, in quella storia che ci racconta come il mezzo secolo democristiano abbia gonfiato a dismisura quella burocrazia, ingozzandone furiosamente le fila di amici degli amici, di parenti, di cugini, di raccomandati dal prete del paese e chi più ne ha più ne metta. Un’eterna implosione.

In caso di licenziamento ingiusto dobbiamo ora distinguere diverse ipotesi e le stesse hanno una diversa conseguenza. Se si stratta di licenziamento discriminatorio ovvero basato su opinioni politiche, religiose, razza o sesso, il giudice dichiarerà nullo il licenziamento e disporrà il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro e potrà essere riconosciuto il diritto al risarcimento e ciò a prescindere dal numero di lavoratori dipendenti.

Nel caso invece di licenziamento per giusta causa rivelatosi però illegittimo perché il fatto contestato non sussiste o non poteva essere punito con il licenziamento, il giudice può reintegrare il lavoratore nel suo posto se si tratta di un’azienda con più di 15 lavoratori o 5 lavoratori nel caso di azienda di tipo agricolo. Può inoltre disporre la condanna al risarcimento danni il cui ammontare può arrivare alla cifra corrispondente a 12 mensilità.

Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero nel caso in cui il datore di lavoro motivi il licenziamento con problemi economici dell’azienda, se il giudice ritiene che il licenziamento è illegittimo, non potrà condannare il datore a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, ma dovrà pronunciare l’illegittimità dello stesso e condannare il datore di lavoro al risarcimento in forma pecuniaria per un ammontare massimo corrispondente a 24 mensilità. Il datore di lavoro può comunque procedere al reintegro.

Poniamo una domanda se le norme del Jobs Act si applicano ai dipendenti pubblici?. Come ricorda un recente studio Adapt sui decreti attuativi del Jobs Act , le fattispecie di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e oggettivo per il dipendente pubblico – ovvero per scarso rendimento e situazione finanziaria dell’ente – sono già presenti nella normativa (decreti legislativi 165 del 2001 e 150 del 2009).

Il problema, a parte il licenziamento discriminatorio, sarebbe il licenziamento illegittimo, sulle cui conseguenze è intervenuto il Jobs Act e che, per il pubblico, sostiene il Ministro Madia, richiederebbe il reintegro in luogo della semplice indennità. Il punto, quindi, non è la maggiore o minore facilità nel licenziare, ma della tipologia di rimedi successivi al licenziamento.



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