giovedì 30 aprile 2015

Pensioni, bocciato il blocco della rivalutazione, la Consulta boccia la Fornero




Buco da cinque miliardi, guaio per l’Inps. Lo stop alla rivalutazione delle pensioni è incostituzionale. La norma che, per il 2012 e 2013, ha stabilito, «in considerazione della contingente situazione finanziaria», che sui trattamenti pensionistici di importo superiore a tre volte il minimo Inps (circa 1.500 euro lordi) scattasse il blocco della perequazione, ossia il meccanismo che adegua le pensione al costo della vita, è incostituzionale. Lo ha deciso la Consulta, bocciando l'art. 24 del decreto legge 201/2011 in materia di perequazione delle pensioni, ossia la cosiddetta norma Fornero contenuta nel ''Salva Italia'' varato dal governo Monti.

In pratica, con quelle disposizioni, ribattezzate “legge Fornero” e subito contestate venivano bloccati gli aumenti di tutti i trattamenti più ricchi, quelli che superavano di tre volte il minimo Inps. Per la Corte Costituzionale, nonostante quel blocco fosse motivato dalla «contingente situazione finanziaria», ovvero dalla crisi che finanziaria che stava aggredendo il nostro Paese, è incostituzionale. Secondo i supremi giudici, infatti, «l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio».

Il blocco dell'indicizzazione delle pensioni bocciato dalla Consulta ha toccato una platea di circa 6 milioni di persone, ovvero quante sono quelle con un reddito da pensione superiore a 1.500 euro mensili lordi, secondo gli ultimi dati dell'Istat sulla previdenza. Si tratta di oltre il 36% del totale degli oltre 16,3 milioni di pensionati italiani.

Il blocco della perequazione per le «non fu scelta mia», si è subito difesa l'ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero ricordando che fu una decisione «di tutto il Governo» presa per fare risparmi in tempi brevi. «Vengo rimproverata per molte cose - ha aggiunto Fornero - ma quella non fu una scelta mia, fu la cosa che mi costò di più». Il 4 dicembre 2011 Fornero, all’epoca ministro del Welfare, non riuscì a trattenere le lacrime mentre in diretta tv insieme alla squadra del governo Monti, illustrava nel dettaglio agli italiani quali e quanti sacrifici li attendono con la manovra appena varata per far uscire il Paese dalla crisi. E fu la parola “sacrificio” a rimanerle bloccata in gola, impedendole di proseguire la frase che stava pronunciando sul blocco delle pensioni.

Secondo la Consulta, le motivazioni indicate alla base del decreto sono blande e generiche, mentre l'esito che si produce per i pensionati è pesante. «Deve rammentarsi - spiega la sentenza - che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull'ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato».

Manageritalia e Federmanager, le organizzazioni che hanno presentato ricorso alla Consulta ora, ovviamente, battono cassa. «Si è fatta giustizia, una sentenza che attendevamo – ha commentato Giorgio Ambrogioni, presidente Federmanager. Secondo cui i giudici hanno «tenuto conto di quello che la stessa Corte aveva affermato in particolare nell'ultima sentenza del 2010 nella quale aveva rivolto un monito al legislatore a non reiterare simili interventi iniquamente redistribuivi. Con i quattro blocchi precedenti attuati dal 1998 le nostre pensioni hanno subito complessivamente perdite definitive del potere di acquisto superiori al 20%. Siamo stati costretti - prosegue Ambrogioni - a rivolgerci alla magistratura perché il legislatore si è dimostrato sordo rispetto alle nostre legittime e sacrosante richieste». «Ora si proceda presto con i rimborsi» sostiene il presidente di Manageritalia, Guido Carella che assieme ad Ambrogioni si aspetta «che si arrivi in tempi rapidi a trovare il modo per compensare le migliaia di persone danneggiate dal provvedimento e auspichiamo che da oggi in poi l’abitudine di utilizzare le pensioni per fare cassa venga definitivamente accantonata, smettendo così di far vivere nell'incertezza i pensionati».



martedì 28 aprile 2015

Ambito di applicazione della nuova Naspi



La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro, con l’Interpello n. 13 del 24 aprile 2015, ha fornito indicazioni in merito all'ambito di applicazione della nuova Naspi, ricordando che l’indennità NASpI, oltre ad essere riconosciuta in caso di involontaria perdita dell’occupazione, è altresì concessa nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Con Interpello del 24 aprile 2015 n. 13, la Direzione Generale per l'Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro ha fornito indicazioni in merito all'ambito di applicazione della nuova Naspi (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego, art. 3 del D.Lgs n. 22/2015), ricordando che l'indennità Naspi.

Viene quindi ampliato l’ambito applicativo della Naspi. Oltre ai casi di licenziamento per motivi economici o per giustificato motivo oggettivo, oltre ai casi di disoccupazione per giusta causa (mancato pagamento della retribuzione ad esempio), la nuova prestazione a sostegno del reddito spetta anche per i licenziamenti per giusta causa per motivi disciplinari. Ed anche se il lavoratore accetta la procedura di conciliazione volontaria (che è comunque finalizzata a ridurre il contenzioso tra datore di lavoro e lavoratore). In tutti questi casi viene considerata una disoccupazione involontaria da parte del lavoratore.

Il licenziamento disciplinare, lo ricordiamo, è quel licenziamento che rientra nei casi di licenziamento per giusta causa, ossia quando il licenziamento è motivato da una condotta colposa o manchevole del lavoratore.

La Naspi è la nuova indennità di disoccupazione che viene pagata dall’Inps per gli eventi di disoccupazione a partire dal 1 maggio 2015. La nuova prestazione porta con sé numerose novità soprattutto in termini di requisiti e durata. Ma anche due importanti novità ben chiarire dal Ministero del lavoro nell’interpello che ora vediamo.

La Naspi spetta anche per le dimissioni per giusta causa e per le risoluzioni consensuali. Il Ministero: “L’indennità Naspi oltre ad essere riconosciuta in caso di involontaria perdita dell’occupazione, è altresì concessa nelle ipotesi in cui il lavoratore, ricorrendo una giusta causa, decida di interrompere il rapporto di lavoro e, in tutti i casi in cui in esito alla procedura di conciliazione di cui all’art. 7 della L. n. 604/1966 – introdotta dall’art. 1 comma 40 della L. n. 92/2012 – le parti addivengano ad una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro”.

Il Ministero nell’interpello precisa che “a differenza della disciplina normativa sull’ASpI, in virtù della quale il Legislatore aveva tassativamente indicato le fattispecie per cui non fosse possibile fruire del trattamento indennitario, con il dettato di cui all’art. 3, D.Lgs. n. 22/2015, è stato specificato l’ambito di applicazione “in positivo” per il riconoscimento della nuova prestazione di assicurazione sociale, senza indicare le ipotesi di esclusione”.

Il Ministero autorizza la Naspi per i licenziamenti disciplinari: “Tanto premesso, appare conforme al dato normativo, specie in ragione della nuova formulazione, considerare le ipotesi di licenziamento disciplinare quale fattispecie della c.d. “disoccupazione involontaria” con conseguente riconoscimento della Naspi”.

Il Ministero a ricordato di aver già avuto modo di chiarire, con interpello n. 29/2013 sulla concessione dell’ASpI, come “non sembra potersi escludere che l’indennità di cui al comma 1 e il contributo di cui al comma 31 dell’art. 2, L. n. 92/2012 siano corrisposti in ipotesi di licenziamento disciplinare, così come del resto ha inteso chiarire l’Istituto previdenziale, il quale è intervenuto con numerose circolari per disciplinare espressamente le ipotesi di esclusione della corresponsione dell’indennità e del contributo in parola senza trattare l’ipotesi del licenziamento disciplinare”.

La nota ministeriale sottolinea, altresì, che il licenziamento disciplinare non possa essere inteso tout court quale forma di “disoccupazione volontaria”, in ragione del fatto che la misura sanzionatoria adottata mediante il licenziamento non risulta automatica; infatti, “l’adozione del provvedimento disciplinare è sempre rimessa alla libera determinazione e valutazione del datore di lavoro e costituisce esercizio del potere discrezionale” non trascurando, peraltro, l’aspetto dell’impugnabilità del licenziamento stesso che nelle opportune sedi giudiziarie potrebbe essere ritenuto illegittimo.

Il Ministero: “In relazione alla nuova procedura della c.d. offerta di conciliazione “agevolata” introdotta dall’art. 6, D.Lgs. n. 23/2015, si ritiene altresì possibile riconoscere al lavoratore che accetta l’offerta un trattamento o indennità della Naspi.

La norma da ultimo citata stabilisce, nello specifico, che in caso di licenziamento il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento stesso, in una delle sedi di cui all’art. 2113, quarto comma, c.c., un importo che non costituisce reddito imponibile e non risulta assoggettato a contribuzione previdenziale e la cui accettazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

Evidentemente l’accettazione in questione non muta il titolo della risoluzione del rapporto di lavoro che resta il licenziamento e comporta, per espressa previsione normativa, esclusivamente la rinuncia all’impugnativa dello stesso.

Ne consegue che, non modificando il titolo della risoluzione del rapporto, tale fattispecie debba intendersi pur sempre quale ipotesi di disoccupazione involontaria conseguente ad atto unilaterale di licenziamento del datore di lavoro.

In definitiva, si ritiene possano essere ammessi alla fruizione dell'indennità della Naspi sia i lavoratori licenziati per motivi disciplinari, sia quelli che abbiano accettato l’offerta economica del datore di lavoro nella ipotesi disciplinata dall’art. 6, D.Lgs. n. 23/2015”.



Contratto a tempo parziale prima della pensione



Lavoro, pensione e tempo parziale. Si ritorna a parlare dell'ipotesi di una staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione. Lo strumento per permettere lo svecchiamento dei ranghi del pubblico impiego potrebbe essere inserito attraverso una riforma della Pubblica amministrazione.

Comunque si va verso la staffetta generazionale nel pubblico impiego: il contratto a tempo parziale al posto del pre pensionamento. Ma i lavori dovranno versare da soli i contributi. Quindi fuori i vecchi, dentro i giovani. Niente di più semplice: anticipare l'uscita ai dipendenti statali più anziani, e quindi vicini alla pensione, per far spazio a neo diplomati e neo laureati che si affacciano sul mondo del lavoro. Per garantire questo ricambio Hans Berger, senatore del gruppo delle autonomie, presenterà un emendamento per dare la possibilità a chi è vicino alla pensione di scegliere il part time. Con un "piccolo" stratagemma: per prendere una pensione piena i lavoratori dovranno versarsi da soli i contributi.

L'emendamento di Berger contiene un "piccolo" inganno per i dipendenti statali che sceglieranno il contratto a tempo parziale. Si dice in modo esplicito, infatti, che l'invarianza dell'assegno previdenziale dovrà essere garantita, solo e soltanto, "attraverso la contribuzione volontaria ad integrazione". Insomma, se il dipendente vuole andare in pensione con un assegno pieno dovrà versarsi da solo la differenza dei contributi tra il part time e il tempo pieno. "Un dipendente pubblico che guadagna 2mila euro netti al mese - esemplifica il Messaggero - oltre allo stipendio dimezzato per il tempo parziale, si troverebbe a dover versare contributi mensili per altri 300-350 euro".

Ricordiamo ce lo scorso anno, il ministro Madia aveva proposto la cosiddetta staffetta generazionale nella PA, ipotesi subito abbandonata dopo che la Ragioneria Generale dello Stato aveva avanzato forti dubbi sulla possibilità di attuare questo provvedimento sia per la tenuta dell'equilibrio del nostro sistema pensionistico sia per il costo elevato che avrebbe provocato l'attuazione di questa norma. Ora, l'ipotesi del ricambio generazionale riprende quota con modalità diverse da quelle che erano state prospettate l'anno scorso. Non si tratta di anticipare la pensione ai dipendenti pubblici ma di far accedere i lavoratori prossimi alla pensione ad una sorta di part-time. In questa maniera ci potrebbe essere la possibilità di liberare nuovi posti di lavoro creando, anche in questo caso, la staffetta generazionale richiesta da molti.

Un'altra proposta, che potrebbe diventare legge nella prossima riforma della Pubblica Amministrazione è relativa al pensionamento delle lavoratrici con il sistema contributivo. Infatti, un recente disegno di legge che potrebbe essere inserito anche nella riforma della PA, prevedrebbe la possibilità di pensione anticipata a 60 anni per tutte le lavoratrici che hanno avuto la possibilità di sommare tutti i contributi versati durante la propria carriera lavorativa, compresi quelli versati durante i periodi di maternità e durante l’assolvimento di funzioni di cura nei confronti di figli e parenti. Questa proposta potrebbe essere l’occasione giusta per trovare una definitiva soluzione alla questione dell’ «opzione donna» che è ormai finita in una pericolosa strada. Mentre, infatti, il Governo deve ancora varare delle misure ufficiali per la proroga delle pensioni contributivo donna sia il ministro Poletti che l’INPS nelle ultime comunicazioni su questo tema hanno lasciato aperta la possibilità di inoltrare le domande si pensionamento all’Inps (per tutte le donne che hanno raggiunto il requisito pensionistico dei 57 anni e 3 mesi entro il 2015). Proprio per questo è stata già avviata, dal Comitato Opzione Donna, una class action per richiedere una soluzione immediata al problema.

Quindi non si tratterebbe, quindi, di anticipare il pensionamento dei lavoratori del pubblico impiego, permettere l’ingresso di un nuovo dipendente ogni tre, come voleva il progetto di riforma originario, ma di far accedere al part time i dipendenti del pubblico impiego più prossimi alla pensione.

In tal modo si libererebbero comunque nuovi posti di lavoro e si metterebbe in campo un’inedita forma di flessibilità in uscita, anche se limitatamente alla sola Pubblica Amministrazione. Occorre ora capire se questo emendamento troverà attuazione e, eventualmente, quali saranno le conseguenze, sul piano contributivo e previdenziale.


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