domenica 17 gennaio 2016
Dal 1° gennaio anche i collaboratori protetti contro il mobbing
Ricordiamo che, dal primo gennaio 2016 le collaborazioni di tipo co.pro. devono intendersi «prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro», ai contratti di collaborazione in essere «si applica la disciplina del lavoro subordinato».
Con l’applicazione del Jobs Act sarà consentito anche ai collaboratori di essere protetti contro il mobbing. Infatti da tale data, si applicherà la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Quest’ultima specificazione risulta particolarmente meritoria perché, oltre a muoversi verso il superamento dei contratti a progetto, costituisce un sicuro miglioramento della protezione di tutti i lavoratori titolari di rapporti non subordinati, riducendo l’alea di incertezza della disciplina precedentemente applicabile.
Tra le novità derivanti dall’applicazione delle misure previste dal Jobs Act che hanno preso il via dal 1° gennaio 2016 ci sono quelle che prevedono la protezione dal mobbing anche per i collaboratori. Di fatto viene estesa la disciplina che tutela il rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
In virtù del Jobs Act, dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Alla luce di una giurisprudenza se non unanime comunque ben consolidata, il datore di lavoro risponde del danno arrecato al dipendente anche nell’ipotesi in cui la condotta di mobbing provenga da un altro lavoratore, in posizione di supremazia gerarchica o di parità rispetto alla vittima. È il caso delle cd. costruttività organizzative, che è onere del datore di lavoro rimuovere qualora ne abbia avuto conoscenza.
Secondo l’interpretazione corrente e consolidata della giurisprudenza, il datore di lavoro risponde del danno di mobbing arrecato al dipendente anche qualora questo sia stato causato da un altro lavoratore in posizione di supremazia gerarchica o di parità rispetto alla vittima. Il datore di lavoro può essere esentato da tale responsabilità solo nel caso in cui l’evento lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale.
In caso di mobbing orizzontale, o tra pari, occorre provare che il datore di lavoro sia rimasto inerte di fronte ad una situazione a lui nota.
Secondo la sentenza n. 359 del 19 dicembre 2003 della Corte Costituzionale gli atti posti in essere possono risultare “se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico”, assumendo, purtuttavia, “rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto” e risolvendosi, normalmente, in «disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico.»
Premesso in linee generali ciò per quanto attiene a quei comportamenti vessatori dai quali può configurarsi il cosiddetto mobbing (dall’inglese to mob, ossia assalire, molestare), la tutela avverso tale tipo di molestie si configura ora anche per i collaboratori, ossia per chi si trovasse a prestare la propria forza lavoro in modalità continuativa e personale e dietro organizzazione del committente.
Il Jobs Act si muove così nell’ottica di estendere la tutela a tutti quei lavoratori fuori dal contratto tipico di lavoro subordinato. Mobbing che permane anche con riferimento a quella fattispecie in cui lo si subisce dal proprio collega di lavoro e rispetto alla quale si evidenzi l’inerzia del datore di lavoro.
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domenica 10 gennaio 2016
Maternità: incubo mobbing come difendersi
Si ricorda che la Corte di Cassazione ha indicato gli elementi necessari per configurare un caso di mobbing durante un rapporto lavorativo: ecco quando può azionarsi la denuncia e il risarcimento dei danni per condotta lesiva. Per ottenere il risarcimento stabiliti i parametri: tutti i requisiti devono essere provati. Si deve trattare di azioni ostili, premeditate e persecutorie.
Prima lo svuotamento di mansioni, improvviso e allo stesso tempo crudele. Poi un vero e proprio isolamento, con la scoperta di essere stata rimpiazzata.
Che si è precipitato davanti agli sportelli delle associazioni di categoria. E' una vera e propria piaga, che continua ad allargarsi in particolare in questi tempi di crisi. Dove le vittime sono soprattutto le donne che, dopo la maternità (e quindi il periodo di assenza), vengono letteralmente umiliate. E scaricate, con tanto di invito a farsi da parte.
A delineare il fenomeno ancora più allarmante sono i dati relativi al 2015, che parlano di un 10 per cento in più di chiamate rispetto all’anno precedente. Dalla loro attivazione, i casi segnalati agli sportelli Adoc sono aumentati vertiginosamente: dai 144 episodi di mobbing del 2012 si è passati ai 178 del 2015. E hanno riguardato 121 giovani donne, soprattutto mamme, e 57 uomini. Un trend in continua crescita, come del resto quello che riguarda lo stalking. “Una situazione che definire drammatica non è azzardato e che viene enormemente sottovalutata”.
Non è un Paese per mamme, questo. E’ invece la fotografia di un’Italia dove dominano le vessazioni, le ordinarie ingiustizie, le discriminazioni subdole e banali ma non per questo meno tremende, che hanno come bersaglio le lavoratrici da poco diventati madri, considerate dalle aziende “meno produttive”.
Lo confermano i sindacati e le associazioni di categoria, che ogni giorno si ritrovano a ricevere segnalazioni e a raccogliere storie di donne vittime di mobbing al rientro dalla maternità o addirittura a gravidanza ancora in corso. Mentre nelle aziende si continua a demansionare, isolare e provare psicologicamente le lavoratrici fino a provocarne le dimissioni. E neppure una legge severa come la 151/2001 riesce ad arginare abusi e ingiustizie di genere.
I dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare.
Sempre secondo l'Osservatorio, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di mobbing post partum. Con un'incidenza superiore nelle regioni del Sud (21%), del Nord Ovest (20%) e del Nord Est (18%). Anche se la situazione pi・allarmante si registra nelle metropoli, Milano in testa.
I casi che si trasformano in effettive denunce, per・ sono pochi. Ad averla vinta, inoltre, sono quasi sempre le aziende: nella maggior parte dei casi la lavoratrice si limita ad avviare una causa al Tribunale del Lavoro e, senza neppure portarla a termine, stremata da quella che diventa un'autentica guerra psicologica, rassegna le dimissioni. Spesso ・confermano i sindacati ・la denuncia verso i datori di lavoro viene ritirata senza avere neppure raggiunto un adeguato compromesso economico. Le lavoratrici subiscono in silenzio e quindi, esasperate e avvilite, se ne vanno per sempre.
Il mobbing post-partum? Molto più esteso di quanto si pensi. Nonostante le tutele della legge, la riforma del mercato del lavoro prevista dalla 92/2012 protegge infatti le madri dal licenziamento durante la maternità, il cosiddetto ‘mobbing da rientro’ è il nemico più temuto dalla neo mamma. Torni dopo sei-nove mesi di maternità e pare che il tuo ufficio ti abbia dimenticata o subito sostituita, all’improvviso la tua mansione è inutile o accessoria e nessuno sembra interessato ad aggiornarti su quanto successo nella tua assenza. Il fenomeno è difficile da far rientrare nelle statistiche ufficiali dei licenziamenti perché spesso frutto di una sottile guerra psicologica che resta fuori dalle aule dei tribunali e dalle vertenze dei sindacati, come ci confermano le legali che abbiamo intervistato.
«Molto spesso il comportamento del datore di lavoro ma anche, purtroppo, di alcuni colleghi comporta l’isolamento della lavoratrice che rientra dalla maternità, il cambio di mansioni, spesso di livello inferiore o lo svolgimento di compiti degradanti, il cambio di orario che crea difficoltà nella gestione del figlio al fine di ‘incentivare’ le dimissioni della lavoratrice, il mancato progredire in carriera rispetto ad altri nelle stesse condizioni, e via dicendo. Sono comportamenti tanto gravi quanto illeciti», ha commentato l’avvocato Albertina Gavazzi. Ma quando si può parlare esattamente di mobbing? «Con il termine mobbing si indica una pratica persecutoria o, più in generale, di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi (mobber) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall’ambito lavorativo», spiega il legale. Il mobbing è considerato dall’Inail una malattia professionale ma per essere definito tale deve essere continuo e duraturo. «Può essere di tipo verticale, quello cioè messo in atto da parte dei datori di lavoro verso i dipendenti per indurli a dare le dimissioni, o di tipo orizzontale, quello praticato dai colleghi di lavoro verso uno di loro per varie ragioni».
«L’unico comportamento che la lavoratrice madre non deve tenere è quello di non parlare, di accettare passivamente queste prevaricazioni, di rinunciare a tutelare i propri diritti e andarsene dal posto di lavoro, ma deve denunciare la discriminatorietà della condotta del datore di lavoro o dei colleghi», risponde decisa l’avvocato Gavazzi. La legge italiana prevede infatti la tutela giudiziaria. Bisogna però contattare le persone giuste per far valere i propri diritti». Sono quattro le figure da tenere ben presenti: un buon avvocato, civilista e giuslavorista per questioni civili attinenti al rapporto di lavoro, la consigliera di pari opportuntà della Regione, che ha il compito di far rispettare sul territorio l’equo trattamento, anche contributivo, ed è garante che non vi siano diseguaglianze tra i generi nell’accesso al lavoro, i sindacati (anche per il supporto durante l’eventuale pratica legale contro il datore di lavoro), la clinica del lavoro. Quest’ultimo aspetto non va sottovalutato: «Medici esperti valutano i danni che la lavoratrice subisce a causa del mobbing (certificazioni utili per un eventuale causa legale) e propongono medicine o supporti psicologici di aiuto per uscire dalla fase di depressione, stress e tensione che il mobbing comporta in chi lo subisce», conclude l’avvocato Albertina Gavazzi.
A Paola Dorenti, è capitato molte volte di dover difendere neo-mamme vittime di mobbing: «Il mobbing ‘post-partum’ è quasi una prassi, nelle piccole come nelle grandi aziende: la madre-lavoratrice viene svilita a livello professionale a vantaggio di figure ritenute dal datore di lavoro più produttive. Molto spesso la nuova situazione familiare della madre-lavoratrice viene usata come scusa per dirle che ‘ha nuove priorità nella vita’ o frasi simili», ha chiarito il legale, che ha anche evidenziato come spesso il datore di lavoro utilizzi strumenti sottili, quali il demansionamento o l’isolamento in ufficio per spingere la lavoratrice a dimettersi volontariamente, ottenendo di fatto il licenziamento che il datore auspica. «Questo, va detto, accade molto spesso: il logoramento psicologico, le pressioni in ufficio e il desiderio di rompere un rapporto lavorativo ormai rovinato spingono la mamma-lavoratrice a ‘piegarsi’ al mobbing. «L’ ‘onere della prova’ in caso di vertenza legale per mobbing è tutto sulla lavoratrice che deve dimostrare con documenti scritti e prove il mobbing subito. Anche per la difficoltà di recuperare le prove, la maggior parte della lavoratrici si accontenta, quando c’è, della cosiddetta ‘buona uscita’, spesso con l’intervento di un legale nella trattativa, e formula volontariamente le dimissioni», ha concluso nella sua diagnosi l’avvocato Dorenti.
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Professionisti, arriva la tessera professionale europea dal 18 gennaio
Dal prossimo 18 gennaio entra in vigore la normativa UE sulla tessera professionale europea per esercitare in tutto il territorio comunitario. Con l'introduzione della tessera professionale si apre le porte allo strumento che semplifica la materia di riconoscimento della qualifiche professionali.
I professionisti italiani che vogliono svolgere la propria attività in un altro Paese dell’Unione Europea avranno uno strumento. La tessera professionale europea: entra in vigore la direttiva 2013/55/Ue in base alla quale i liberi professionisti possono esercitare liberamente all’interno del mercato europeo.
Il ministero dello Sviluppo Economico con circolare 3685/C del 30 dicembre 2015 spiega che la libertà di prestare servizi comporta: «che i prestatori che legittimamente operano in uno Stato membro dell’Unione, siano essi persone fisiche o giuridiche, hanno diritto di offrire i propri servizi a destinatari residenti in altri Stati membri, su base temporanea e senza che da ciò derivi la necessità di uno stabilimento nello Stato del destinatario della prestazione offerta».
La tessera professionale europea renderà quindi più agevole lo scambio di competenze tra gli Stati membri favorendo la circolazione dei liberi professionisti nei diversi settori, siano essi persone fisiche o giuridiche. Il governo è pronto all’emanazione della legge ad hoc sul lavoro all'estero dei professionisti ma, se anche questo dovesse avvenire oltre il termine del 18 gennaio, il recepimento delle disposizioni UE avverrà in automatico.
La normativa europea entra in vigore il prossimo 18 gennaio. La legge italiana in realtà è in dirittura d’arrivo ma, una volta scaduto il termine di recepimento del 18 gennaio 2016, si applicheranno comunque automaticamente le disposizioni UE, che sono sufficientemente chiare, precise ed incondizionate; sono le «cosiddette direttive dettagliate o self-executing, secondo i principi affermati dalla Corte di Giustizia europea a partire dal caso Van Gend en Loos, causa 26/62, sentenza 5 febbraio 1963), con prevalenza anche sulle eventuali difformi norme legislative nazionali».
Si tratta di una procedura semplificata per esercitare all’interno dell’Unione Europea con una richiesta che si presenta online alle autorità nazionali. L’esperienza professionale richiesta è dimezzata a un anno (prima ce ne volevano due), nel corso dei dieci anni che precedono la prestazione di servizi, a meno che la professione non sia diversamente regolamentata nello Stato membro di origine.
La tessera professionale europea parte con alcune professioni ad alto tasso di mobilità, come medici, infermieri, farmacisti, fisioterapisti, ingegneri, guide alpine, agenti immobiliari. Gli appartenenti ad altre professioni continuano a ricorrere alla procedure classiche per esercitare in altri paesi europei, ma è previsto un ampliamento delle nuove regole.
La tessera avrà la forma di un certificato elettronico che attesterà come il professionista abbia superato ogni procedura per ottenere il riconoscimento della qualifica professionale nel Paese ospitante. Riguarderà sia i professionisti europei che intendano esercitare in Italia, sia i professionisti italiani che intendano esercitare in un altro Paese europeo e faciliterà il trasferimento, anche solo temporaneamente, dell'attività in un altro Paese dell'Unione.
Al momento l’iniziativa riguarda solo cinque professioni (infermiere, farmacista, fisioterapista, guida alpina e agente immobiliare), ma in futuro potrà essere estesa dalla Commissione anche ad altre professioni.
Molte altre le novità previste dalla direttiva 2013/55/UE: un meccanismo di allerta per segnalare, attraverso il sistema IMI, i professionisti colpiti da una sanzione disciplinare o penale che abbia incidenza sull'esercizio della professione; la possibilità, a determinate condizioni, di ottenere un accesso parziale alla professione; la possibilità di ottenere il riconoscimento del tirocinio professionale effettuato in parte all'estero.
Al momento, la tessera riguarda solo cinque professioni (infermiere, farmacista, fisioterapista, guida alpina e agente immobiliare) ma in futuro potrà essere estesa dalla Commissione anche ad altre professioni.
La domanda per la tessera professionale europea si può fare online presso il portale delle autorità nazionali di competenza. L’esperienza minima richiesta per lavorare all'estero mediante questo canale è di un anno nell’ultimo decennio. Il debutto della tessera professionale europea si estende alle professioni per le quali è richiesta maggiore mobilità: medici, infermieri, farmacisti, fisioterapisti, ingegneri, guide alpine e agenti immobiliari in primis. Per tutte le altre, momentaneamente, viene mantenuta la procedura standard per esercitare negli altri paesi europei.
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