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mercoledì 26 aprile 2017

Mobbing, quando si può denunciare



Il Mobbing è una forma di terrore psicologico, il più delle volte senza una reale ragione, che viene esercitato sul luogo di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi, superiori e datori di lavoro.

Generalmente è un comportamento persistente ed offensivo che si riassume in un abuso di potere e che causa nell’aggredito sentimenti di disperazione, umiliazione e facile vulnerabilità. E' un atteggiamneto che  mina la fiducia in se stessi e diventa causa di un enorme stress.fini della configurabilità del mobbing occorre quanto segue:

la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

l’evento lesivo della salute e della personalità e dignità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta del datore o il superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore, la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio, ai fini della configurabilità del mobbing.

 In altro senso, il mobbing è caratterizzato da una condotta del datore di lavoro o superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro, consistente in reiterati e sistemici atti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica determinanti la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetti lesivi dell’equilibrio psico-fisico e della personalità del medesimo.

È, in definitiva, un dato acquisito che il mobbing, per assumere rilevanza giuridica, implica la esistenza di plurimi elementi di natura oggettiva e soggettiva.

Il lavoratore può denunciare il datore di lavoro, il capo, o i colleghi per mobbing se ha subito una serie ripetuta di condotte illecite che hanno leso la sua dignità. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 2142/17) ha stabilito i cinque fattori principali che devono sussistere affinché si possa parlare di mobbing:

1) Comportamenti ostili in serie;

2) La ripetitività delle vessazioni per un congruo periodo di tempo: è stato ritenuto congruo un periodo pari a circa sei mesi;

3) La lesione della salute e della dignità del dipendente (ad esempio il disturbo di adattamento o la depressione);

4) Un rapporto di causa-effetto tra le condotte del datore e il danno subito dalla vittima: il secondo deve cioè essere conseguenza delle prime e di nient'altro;

5) L'intento persecutorio che collega tutti i comportamenti illeciti.

La sentenza specifica che il mobbing esiste nel caso di condotte poste in essere "con dolo specifico, ovvero con la volontà di nuocere, infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini del suo allontanamento dall'impresa". Tra i casi di mobbing vi sono il demansionamento, per cui il lavoratore viene costretto a svolgere mansioni di livello inferiore rispetto a quelle per cui è stato assunto, l'emarginazione sul lavoro, le continue critiche, la persecuzione sistematica, l'irrogazione di sanzioni disciplinari e le limitazioni alla possibilità di carriera.

Il lavoratore che vuole agire contro l'azienda per mobbing deve provare la volontà persecutoria e il piano vessatorio messo in atto dal datore di lavoro o dai colleghi. Dal punto di vista difensivo - spiega ancora il sito di consulenza legale - il dipendente può ricorrere a diverse strategie: dimettersi per giusta causa e ottenere l'assegno di disoccupazione, rifiutarsi di lavorare oppure presentare un ricorso urgente in tribunale (cosiddetto articolo 700 del codice di procedura civile) chiedendo il risarcimento del danno.

Sono 7 i parametri del mobbing secondo la Corte di Cassazione che, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing  per provare di essere stati danneggiati sul lavoro:
ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.


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domenica 17 gennaio 2016

Dal 1° gennaio anche i collaboratori protetti contro il mobbing


Ricordiamo che, dal primo gennaio 2016 le collaborazioni di tipo co.pro. devono intendersi  «prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro», ai contratti di collaborazione in essere «si applica la disciplina del lavoro subordinato».

Con l’applicazione del Jobs Act sarà consentito anche ai collaboratori di essere protetti contro il mobbing. Infatti da tale data, si applicherà la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Quest’ultima specificazione risulta particolarmente meritoria perché, oltre a muoversi verso il superamento dei contratti a progetto, costituisce un sicuro miglioramento della protezione di tutti i lavoratori titolari di rapporti non subordinati, riducendo l’alea di incertezza della disciplina precedentemente applicabile.

Tra le novità derivanti dall’applicazione delle misure previste dal Jobs Act che hanno preso il via dal 1° gennaio 2016 ci sono quelle che prevedono la protezione dal mobbing anche per i collaboratori. Di fatto viene estesa la disciplina che tutela il rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

In virtù del Jobs Act, dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Alla luce di una giurisprudenza se non unanime comunque ben consolidata, il datore di lavoro risponde del danno arrecato al dipendente anche nell’ipotesi in cui la condotta di mobbing provenga da un altro lavoratore, in posizione di supremazia gerarchica o di parità rispetto alla vittima. È il caso delle cd. costruttività organizzative, che è onere del datore di lavoro rimuovere qualora ne abbia avuto conoscenza.

Secondo l’interpretazione corrente e consolidata della giurisprudenza, il datore di lavoro risponde del danno di mobbing arrecato al dipendente anche qualora questo sia stato causato da un altro lavoratore in posizione di supremazia gerarchica o di parità rispetto alla vittima. Il datore di lavoro può essere esentato da tale responsabilità solo nel caso in cui l’evento lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale.

In caso di mobbing orizzontale, o tra pari, occorre provare che il datore di lavoro sia rimasto inerte di fronte ad una situazione a lui nota.

Secondo la sentenza n. 359 del 19 dicembre 2003 della Corte Costituzionale gli atti posti in essere possono risultare “se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico”, assumendo, purtuttavia, “rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto” e risolvendosi, normalmente, in «disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico.»

Premesso in linee generali ciò per quanto attiene a quei comportamenti vessatori dai quali può configurarsi il cosiddetto mobbing (dall’inglese to mob, ossia assalire, molestare), la tutela avverso tale tipo di molestie si configura ora anche per i collaboratori, ossia per chi si trovasse a prestare la propria forza lavoro in modalità continuativa e personale e dietro organizzazione del committente.

Il Jobs Act si muove così nell’ottica di estendere la tutela a tutti quei lavoratori fuori dal contratto tipico di lavoro subordinato. Mobbing che permane anche con riferimento a quella fattispecie in cui lo si subisce dal proprio collega di lavoro e rispetto alla quale si evidenzi l’inerzia del datore di lavoro.

domenica 10 gennaio 2016

Maternità: incubo mobbing come difendersi



Si ricorda che la Corte di Cassazione ha indicato gli elementi necessari per configurare un caso di mobbing durante un rapporto lavorativo: ecco quando può azionarsi la denuncia e il risarcimento dei danni per condotta lesiva. Per ottenere il risarcimento stabiliti i parametri: tutti i requisiti devono essere provati. Si deve trattare di azioni ostili, premeditate e persecutorie.

Prima regola: vietato sopportare. Poi è utile circondarsi delle persone giuste e raccogliere le prove. Così si vince la lotta contro chi vuole spingere le neo mamme a licenziarsi. 

Prima lo svuotamento di mansioni, improvviso e allo stesso tempo crudele. Poi un vero e proprio isolamento, con la scoperta di essere stata rimpiazzata.

Che si è precipitato davanti agli sportelli delle associazioni di categoria. E' una vera e propria piaga, che continua ad allargarsi in particolare in questi tempi di crisi. Dove le vittime sono soprattutto le donne che, dopo la maternità (e quindi il periodo di assenza), vengono letteralmente umiliate. E scaricate, con tanto di invito a farsi da parte.

A delineare il fenomeno ancora più allarmante sono i dati relativi al 2015, che parlano di un 10 per cento in più di chiamate rispetto all’anno precedente. Dalla loro attivazione, i casi segnalati agli sportelli Adoc sono aumentati vertiginosamente: dai 144 episodi di mobbing del 2012 si è passati ai 178 del 2015. E hanno riguardato 121 giovani donne, soprattutto mamme, e 57 uomini. Un trend in continua crescita, come del resto quello che riguarda lo stalking. “Una situazione che definire drammatica non è azzardato e che viene enormemente sottovalutata”.

Non è un Paese per mamme, questo. E’ invece la fotografia di un’Italia dove dominano le vessazioni, le ordinarie ingiustizie, le discriminazioni subdole e banali ma non per questo meno tremende, che hanno come bersaglio le lavoratrici da poco diventati madri, considerate dalle aziende “meno produttive”.

Lo confermano i sindacati e le associazioni di categoria, che ogni giorno si ritrovano a ricevere segnalazioni e a raccogliere storie di donne vittime di mobbing al rientro dalla maternità o addirittura a gravidanza ancora in corso. Mentre nelle aziende si continua a demansionare, isolare e provare psicologicamente le lavoratrici fino a provocarne le dimissioni. E neppure una legge severa come la 151/2001 riesce ad arginare abusi e ingiustizie di genere.

I dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno 350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare.

Sempre secondo l'Osservatorio, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di mobbing post partum. Con un'incidenza superiore nelle regioni del Sud (21%), del Nord Ovest (20%) e del Nord Est (18%). Anche se la situazione pi・allarmante si registra nelle metropoli, Milano in testa.

I casi che si trasformano in effettive denunce, per・ sono pochi. Ad averla vinta, inoltre, sono quasi sempre le aziende: nella maggior parte dei casi la lavoratrice si limita ad avviare una causa al Tribunale del Lavoro e, senza neppure portarla a termine, stremata da quella che diventa un'autentica guerra psicologica, rassegna le dimissioni. Spesso ・confermano i sindacati ・la denuncia verso i datori di lavoro viene ritirata senza avere neppure raggiunto un adeguato compromesso economico. Le lavoratrici subiscono in silenzio e quindi, esasperate e avvilite, se ne vanno per sempre.

Il mobbing post-partum? Molto più esteso di quanto si pensi. Nonostante le tutele della legge, la riforma del mercato del lavoro prevista dalla 92/2012 protegge infatti le madri dal licenziamento durante la maternità, il cosiddetto ‘mobbing da rientro’ è il nemico più temuto dalla neo mamma. Torni dopo sei-nove mesi di maternità e pare che il tuo ufficio ti abbia dimenticata o subito sostituita, all’improvviso la tua mansione è inutile o accessoria e nessuno sembra interessato ad aggiornarti su quanto successo nella tua assenza. Il fenomeno è difficile da far rientrare nelle statistiche ufficiali dei licenziamenti perché spesso frutto di una sottile guerra psicologica che resta fuori dalle aule dei tribunali e dalle vertenze dei sindacati, come ci confermano le legali che abbiamo intervistato.

«Molto spesso il comportamento del datore di lavoro ma anche, purtroppo, di alcuni colleghi comporta l’isolamento della lavoratrice che rientra dalla maternità, il cambio di mansioni, spesso di livello inferiore o lo svolgimento di compiti degradanti, il cambio di orario che crea difficoltà nella gestione del figlio al fine di ‘incentivare’ le dimissioni della lavoratrice, il mancato progredire in carriera rispetto ad altri nelle stesse condizioni, e via dicendo. Sono comportamenti tanto gravi quanto illeciti», ha commentato l’avvocato Albertina Gavazzi. Ma quando si può parlare esattamente di mobbing? «Con il termine mobbing si indica una pratica persecutoria o, più in generale, di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi (mobber) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall’ambito lavorativo», spiega il legale. Il mobbing è considerato dall’Inail una malattia professionale ma per essere definito tale deve essere continuo e duraturo. «Può essere di tipo verticale, quello cioè messo in atto da parte dei datori di lavoro verso i dipendenti per indurli a dare le dimissioni, o di tipo orizzontale, quello praticato dai colleghi di lavoro verso uno di loro per varie ragioni».

«L’unico comportamento che la lavoratrice madre non deve tenere è quello di non parlare, di accettare passivamente queste prevaricazioni, di rinunciare a tutelare i propri diritti e andarsene dal posto di lavoro, ma deve denunciare la discriminatorietà della condotta del datore di lavoro o dei colleghi», risponde decisa l’avvocato Gavazzi. La legge italiana prevede infatti la tutela giudiziaria. Bisogna però contattare le persone giuste per far valere i propri diritti». Sono quattro le figure da tenere ben presenti: un buon avvocato, civilista e giuslavorista per questioni civili attinenti al rapporto di lavoro, la consigliera di pari opportuntà della Regione, che ha il compito di far rispettare sul territorio l’equo trattamento, anche contributivo, ed è garante che non vi siano diseguaglianze tra i generi nell’accesso al lavoro, i sindacati (anche per il supporto durante l’eventuale pratica legale contro il datore di lavoro), la clinica del lavoro. Quest’ultimo aspetto non va sottovalutato: «Medici esperti valutano i danni che la lavoratrice subisce a causa del mobbing (certificazioni utili per un eventuale causa legale) e propongono medicine o supporti psicologici di aiuto per uscire dalla fase di depressione, stress e tensione che il mobbing comporta in chi lo subisce», conclude l’avvocato Albertina Gavazzi.

A Paola Dorenti, è capitato molte volte di dover difendere neo-mamme vittime di mobbing: «Il mobbing ‘post-partum’ è quasi una prassi, nelle piccole come nelle grandi aziende: la madre-lavoratrice viene svilita a livello professionale a vantaggio di figure ritenute dal datore di lavoro più produttive. Molto spesso la nuova situazione familiare della madre-lavoratrice viene usata come scusa per dirle che ‘ha nuove priorità nella vita’ o frasi simili», ha chiarito il legale, che ha anche evidenziato come spesso il datore di lavoro utilizzi strumenti sottili, quali il demansionamento o l’isolamento in ufficio per spingere la lavoratrice a dimettersi volontariamente, ottenendo di fatto il licenziamento che il datore auspica. «Questo, va detto, accade molto spesso: il logoramento psicologico, le pressioni in ufficio e il desiderio di rompere un rapporto lavorativo ormai rovinato spingono la mamma-lavoratrice a ‘piegarsi’ al mobbing. «L’ ‘onere della prova’ in caso di vertenza legale per mobbing è tutto sulla lavoratrice che deve dimostrare con documenti scritti e prove il mobbing subito. Anche per la difficoltà di recuperare le prove, la maggior parte della lavoratrici si accontenta, quando c’è, della cosiddetta ‘buona uscita’, spesso con l’intervento di un legale nella trattativa, e formula volontariamente le dimissioni», ha concluso nella sua diagnosi l’avvocato Dorenti.

Lavoro: il mobbing secondo la Corte Cassazione


La Corte di Cassazione ha indicato gli elementi necessari per configurare un caso di mobbing durante un rapporto lavorativo: ecco quando può azionarsi la denuncia e il risarcimento dei danni per condotta lesiva. Per ottenere il risarcimento stabiliti i parametri: tutti i requisiti devono essere provati. Si deve trattare di azioni ostili, premeditate e persecutorie.

Appurato che un capo insopportabile giorni alterni e dei colleghi tenacemente molesti sei su sette (senza una corrispettiva voce a parte in busta paga) sono afflizioni comuni alla gran parte dei lavoratori dipendenti, non tutte le prepotenze patite in ufficio da parte di superiori o di pari grado possono qualificarsi come mobbing. E garantire il diritto al risarcimento. Per disincentivare azioni legali avventate di mobbizzati immaginari e offrire ai giudici di merito un prontuario garantito, in mancanza di una normativa specifica, la Corte di cassazione, con sentenza ha individuato delle linee guida ed i parametri per riconoscere il vero mobbing.

Sono 7 i parametri del mobbing secondo la Corte di Cassazione che, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing  per provare di essere stati danneggiati sul lavoro:
ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.

Perché si configuri il mobbing devono ricorrere tutti e sette, non uno di meno.

Nel caso per cui si è arrivati alla Corte di Cassazione, che riguardava un impiegato pubblico, i sette elementi chiave c’erano tutti. Il ricorrente era stato demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all’altro senza motivo, schiacciato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare. Già nel merito, dopo perizie e testimonianze, era stata riconosciuta l’esistenza del mobbing (verticale, ossia messo in pratica dal superiore, quello orizzontale è tra colleghi), confermato poi anche nel giudizio di legittimità.

Il mobbing è molto più diffuso di quanto non emerga dai dati ufficiali, perché è difficile individuare le cause o gli elementi che possono portare ad una causa in tribunale. Illuminante può essere la sentenza n.87 del 10 gennaio 2012 emessa dalla Corte di Cassazione, che evidenzia i comportamenti che possono essere considerati di mobbing. Una volta che la situazione di disagio si configuri come tale, la condotta lesiva giustifica infatti la causa ed il conseguente risarcimento del danno.

Definizione di mobbing
Come ricorda la Cassazione, il mobbing si definisce come:
«una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambienti di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterarti comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e della sua personalità».

Elementi probatori
Tra gli elementi riconosciuti dalla Corte di Cassazione come mobbing sul lavoro, e quindi necessari affinché si prefiguri un’accusa, sono:
molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio;
evento lesivo della salute;
nesso tra la condotta del datore di lavoro ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica;
prova dell’intento persecutorio.

In conclusione possiamo sottolineare questi atteggiamenti:
Le vessazioni devono avvenire sul luogo di lavoro. I contrasti, le mortificazioni o quant’altro devono durare per un congruo periodo di tempo e essere non episodiche ma reiterate e molteplici. Deve trattarsi di più azioni ostili, almeno due di queste:  attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce. Occorre il dislivello tra gli antagonisti, con l’inferiorità manifesta del ricorrente. La vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing, sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro. Bisogna che vi sia l’intento persecutorio, ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente.
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