martedì 18 novembre 2014

Dimissioni senza preavviso fino al compimento dell’anno di età del bambino




Il Ministero del Lavoro con l’interpello n. 28/2014 del 7 novembre 2014 ha risposto ad un quesito riguardante le dimissioni della lavoratrice madre/lavoratore padre e l’obbligo di preavviso. Viene confermato che lavoratrice madre o del lavoratore padre non sono tenuti a concedere al datore di lavoro il periodo di preavviso in caso di dimissioni presentate nel periodo in cui sussiste il divieto di licenziamento. E cioè fino al compimento di un anno di età del bambino, non fino al compimento del terzo anno come avviene per la convalida delle dimissioni.

L’articolo 54, comma 1 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 stabilisce il divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento è esteso al padre lavoratore nell’ipotesi in cui questi abbia fruito del congedo di paternità sino al compimento di un anno di vita del bambino.

In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo di vigenza del divieto di licenziamento [e cioè sino all’anno di vita del bambino], la lavoratrice e il padre lavoratore [sempre che quest’ultimo abbia fruito del congedo di paternità]:

hanno diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento;

non sono tenuti ad osservare il preavviso [articolo 55, comma 5 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151].

Le menzionate disposizioni in ordine all’obbligo del preavviso non risultano in alcun modo modificate in ragione dell’introduzione dell’articolo 55, comma 4 del richiamato D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, che, introdotto dall’articolo 4, comma 16 della Legge 28 giugno 2012, n. 92, afferisce il solo obbligo di convalida delle dimissioni. Detta norma infatti solo stabilisce che ‘la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino […] devono essere convalidate dal Servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro’.

Giusto quanto disposto dall’articolo 4, comma 23-bis della Legge 28 giugno 2012, n. 92, l’estensione temporale al terzo anno di vita del bambino dell’obbligo di convalida trova applicazione, almeno a parere dello scrivente, anche nell’ipotesi di risoluzione di un:

 contratto di collaborazione coordinata e continuativa [anche se nella forma del ‘lavoro a progetto’];

contratto di associazione in partecipazione.

Al Ministero è stata richiesta la corretta interpretazione dell’art. 55, comma 5, D.Lgs. n. 151/2001, concernente la possibilità della lavoratrice madre o del lavoratore padre di presentare le dimissioni senza l’osservanza del preavviso sancito dall’art. 2118 c.c.. La domanda era: se la disposizione (la dimissione senza preavviso) si riferisca alle dimissioni presentate durante il primo anno di vita del bambino, ovvero a quelle comunicate al datore di lavoro entro il compimento del terzo anno.

La convalida della dimissione è fino ai primi 3 anni di vita del bambino. Il Ministero nel rispondere ricorda la normativa riguardante la convalida delle dimissioni: “L’art. 55, comma 4 del D. Lgs. n. 151 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 16, della L. n. 92/2012, stabilisce che la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante la gravidanza e dalla lavoratrice o dal lavoratore nel corso dei primi tre anni di vita del bambino, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro”.

Le modifiche della Legge Fornero (L. 92/2012) quindi hanno comportato l’estensione, da un anno ai primi tre anni di vita del bambino, del periodo in cui è necessario attivare la procedura di convalida, proprio al fine di predisporre una tutela rafforzata volta a salvaguardare la genuinità della scelta da parte della lavoratrice o del lavoratore”.

Dimissioni senza preavviso fino ad un anno di vita del bambino. Il Ministero però circoscrive la possibilità di dimettersi al primo anno (e non ai tre anni): “In ordine alla questione circa l’obbligo di preavviso nel caso di dimissioni, l’art. 55, comma 5, stabilisce che “nel caso di dimissioni di cui al presente articolo, la lavoratrice o il lavoratore non sono tenuti al preavviso”. La disposizione, sebbene faccia riferimento all’articolo 55 nel suo complesso, è evidentemente riferita all’ipotesi di “dimissioni” presentate nel periodo in cui sussiste il divieto di licenziamento e cioè fino al compimento di un anno di età del bambino. Ciò in considerazione del fatto che le modifiche relative all’estensione temporale da 1 a 3 anni, come sopra osservato, riguardano esclusivamente la procedura di convalida delle dimissioni stesse”.

Riepilogando, fino ad un anno di età del figlio,  la lavoratrice madre o il lavoratore padre possono dimettersi senza preavviso. La dimissione è soggetta convalida di dimissioni, la quale è prevista fino ai 3 anni di età del bambino. Dopo il primo anno di vita del bambino, per dimettersi è necessario concedere il periodo di preavviso. Per tutte le altre informazioni vediamo il licenziamento e la dimissione durante il primo anno di vita del bambino.

Il Ministero chiarisce, infatti, che l’estensione temporale da 1 a 3 anni, introdotta dalla Riforma
Fornero, interessa esclusivamente la procedura di convalida delle dimissioni.
Ne consegue, pertanto, che le dimissioni presentate dalla lavoratrice madre o dal lavoratore padre
(che ha usufruito del congedo di paternità):

entro il primo anno di età del bambino, devono essere convalidate e non sono soggette
all’obbligo di preavviso (anzi, la lavoratrice o il lavoratore hanno diritto alle indennità previste dalle
disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento quali, ad esempio, l’indennità
sostitutiva del preavviso);

oltre il primo anno di vita del bambino e fino al terzo anno di età, devono essere
convalidate e sono soggette al rispetto dei termini di preavviso stabiliti dal CCNL di riferimento.




Lavoro e tasse di fine anno le novità e i balzelli alle porte



A dicembre di ogni anno le retribuzioni nette dei lavoratori dipendenti e collaboratori risultano quasi sempre ridotte rispetto le mensilità dei mesi precedenti. Questa riduzione è causata dal prelievo fiscale che scaturisce dalle cosiddette “operazioni di conguaglio fiscale di fine anno”.

Ogni datore di lavoro, in qualità di sostituto d’imposta, ovvero di soggetto che si sostituisce all’Ufficio Imposte per operare le ritenute fiscali attraverso il cedolino paga, ha l’obbligo, in applicazione alla normativa fiscale, di effettuare il conguaglio fiscale ovvero il ricalcolo, su base annuale, delle imposte dovute dai propri lavoratori e pagate mensilmente in forma di ritenuta d’acconto.

Per i contribuenti minimi scade il 1° dicembre il termine per il versamento del secondo acconto dell'imposta sostitutiva del 5%. Coloro che nel 2014 hanno cambiato regime, passando dai minimi a quello ordinario o viceversa, non sono tenuti al versamento del secondo acconto in scadenza.

Il datore di lavoro deve effettuare il conguaglio tra l’ammontare delle ritenute operate sulle somme e i valori corrisposti in ciascun periodo di paga, compreso quello eventualmente terminato il 12 gennaio dell’anno successivo e l’imposta dovuta, ottenuta applicando le aliquote progressive Irpef/Ire sull’ammontare complessivo delle somme e i valori corrisposti nel corso dell’anno, tenendo conto delle detrazioni fiscali spettanti.

In sede di conguaglio il sostituto d’imposta dovrà riconoscere anche le detrazioni per oneri compresi nell’articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 917/86 e, se richieste dal lavoratore, le detrazioni per canoni di locazione.

Ai fini del compimento delle operazioni di conguaglio di fine anno il dipendente può chiedere al sostituto d’imposta di tener conto anche di altri redditi di lavoro dipendente, o assimilati a quelli di lavoro dipendente, percepiti nell’ambito di precedenti rapporti intrattenuti nel corso dell’anno e anche se erogati da soggetti che non rivestono la qualifica di sostituto d’imposta.

In 61 giorni lo Stato si farà un’abbuffata di tasse e balzelli da 91 miliardi di euro a spese di famiglie e imprese. È quanto ha rilevato la Cgia di Mestre. A novembre e dicembre i contribuenti saranno impegnati in un vero e proprio tour de force per assolvere a una serie di obblighi fiscali che prosciugheranno le casse del sistema-Italia. Giusto per fare qualche esempio, si tratta del versamento delle ritenute Irpef dei dipendenti, delle ritenute per i lavoratori autonomi e dell’Iva. A queste si aggiungeranno gli acconti Irpef, Ires e Irap, il versamento dell’ultima rata dell’Imu e della Tasi per un totale di 25 scadenze fiscali che, escludendo sabati e domeniche, significano una tassa da pagare ogni due giorni.

Ricordiamo che il bonus Renzi di 80 euro potrebbe comunque presentare delle spiacevoli sorprese, infatti per effetto del calcolo del Bonus, che tiene conto del periodo di paga, si potrà ricevere un bonus diminuito.

Il datore di lavoro a dicembre 2014 avendo a disposizione tutti i dati per il calcolo dell'imponibile fiscale complessivo, potrà eseguire un controllo finale. Nei casi in cui i lavoratori si siano avvalsi della facoltà di chiedere il conguaglio riassuntivo all'ultimo datore di lavoro, questi avrà a disposizione anche il modello Cud rilasciato dal precedente datore di lavoro da cui potrà ricavare il reddito e l'ammontare del bonus che i lavoratori hanno percepito nel corso dell'altro rapporto di lavoro. Il venir meno delle condizioni di spettanza del credito obbligherà il sostituto di imposta che esegue il conguaglio al recupero immediato di quanto erogato in precedenza perché non più spettante.

Le imposte sul reddito da lavoro dipendente si calcolano mensilmente con la stessa tabella fiscale annuale, ma i valori sono divisi per 12 perché dodici sono i mesi di calendario; il Testo Unico delle Imposte sui Redditi stabilisce infatti che per il calcolo dell’Irpef mensile si applicano le aliquote di legge sugli scaglioni di reddito fiscale mensili che sono quelli annuali diviso dodici (a volte per diminuire l’impatto del conguaglio di fine anno le fasce annuali sono divise per 13 o 14, fermo restando che a conguaglio bisogna usare le fasce annue).

Dalle operazioni di conguaglio di fine anno deriva, generalmente, un debito d’imposta e quindi un maggior prelievo fiscale per il lavoratore perché l’IRPEF si calcola mensilmente sulle tredici o quattordici mensilità corrisposte per contratto collettivo, mente la progressione delle imposte è riferita ai dodici mesi di calendario.

Sostanzialmente la maggiore IRPEF che si paga a dicembre deriva dal ricalcolo della tredicesima e quattordicesima che fanno alzare il reddito ad uno scaglione d’imposta superiore, inoltre le detrazioni d’imposta competono solo per dodici mesi, non sono dovute su tredicesima e quattordicesima mensilità, pertanto quanto si paga di più a dicembre è riferito alle operazioni di ricalcolo di tutto il reddito annuo comprese le mensilità aggiuntive.

In fase di conguaglio fiscale a dicembre vengono calcolate, sull’imponibile fiscale annuo, le addizionali regionale e comunale che saranno trattenute in undici rate nel 2015, con decorrenza dal mese di gennaio.

Sì, può verificarsi che un dipendente, in corso d’anno, abbia pagato più imposte del dovuto rispetto il reddito complessivo annuo, in tal caso dalle operazioni di conguaglio può scaturire un credito d’imposta che dà diritto ad un rimborso dell’IRPEF pagata in più. E’ il caso, ad esempio, del dipendente che da tempo pieno passa a tempo parziale, o quando per varie ragioni, quali la cassa integrazione guadagni, il reddito mensile e conseguentemente l’IRPEF degli ultimi mesi dell’anno è inferiore rispetto i mesi precedenti. Se dal conguaglio fiscale deriva un importo di IRPEF a credito il datore di lavoro lo rimborsa con il cedolino paga di dicembre.




domenica 16 novembre 2014

Contratto di lavoro con tutele crescenti



L’introduzione del contratto unico a tutele crescenti è stabilita dall’articolo 4 della Delega. L’iter parlamentare e il dibattito politico hanno già modificato l’ipotesi originaria di applicarlo solo agli ingressi nel mondo del lavoro (giovani al primo impiego), prevedendo il contratto indeterminato a tutele crescenti per tutti i lavoratori che stipulano un nuovo contratto con un’azienda. Sarebbe quindi esteso a tutte le assunzioni di personale (passaggi da un’azienda all’altra, riassorbimento disoccupati e via dicendo) a tempo indeterminato.

"Il contratto a tutele crescenti è il primo obiettivo che vogliamo portare in porto per fine anno". Lo ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.

Un obiettivo che il ministro Poletti indica per far sì che "a gennaio le imprese e i lavoratori possano utilizzare le scelte che abbiamo fatto nella legge di stabilità di ridurre il costo del lavoro in modo che la percentuale di contratti a tempo indeterminato cresca in maniera importante". Il ministro del Lavoro a proposito del tempi indeterminati ha ricordato che oggi sono il 15% dei nuovi avviamenti: "un numero troppo basso. Noi vogliamo che aumentino percentualmente i contratti a tempo indeterminato a tutela crescente e quindi lo faremo sicuramente per l'inizio dell'anno".

Taddei, conflitto con sindacati non ci fa desistere -  Oggi è in corso "un conflitto un pò troppo intenso, forse, con le organizzazioni sindacali, ma ciò non ci fa desistere. Non siamo spaventati dal pagare quello che può apparire un piccolo prezzo di consenso nel breve periodo, per realizzare il cambiamento". E' quanto sottolinea il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, intervenendo all'assemblea dell'associazione 'Libertà eguale'. Le riforme del governo, non sono "solo veloci, ma hanno il capitale politico del consenso", aggiunge.

Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.

Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque - sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani - i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.

Certo, ma a tutele crescenti, che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro).

La necessità di far passare una ulteriore riforma dell’articolo 18 attraverso le maglie di un nuovo “tipo contrattuale”, quale sarebbe il “contratto di lavoro a tutele crescenti”, complicherebbe invece le cose: non solo, sul piano sistematico, per la difficoltà di concepire un contratto la cui “tipicità” o “specialità” consista nella ridotta applicazione di un importante segmento di disciplina, anziché in una diversa struttura causale o anche solo tipologica; ma anche, sul piano normativo, per la difficoltà di immaginare un regime di maggior protezione, che dovrebbe operare al momento della maturazione del “picco massimo” delle tutele, e che non consista nel ripristino sic et simpliciter del vecchio articolo 18 (quello, beninteso, anteriore alla riforma Fornero).

La veicolazione della riforma dell’articolo 18 attraverso la figura del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, insomma, per un verso esaspera la carenza di tutele nella fase della “crescita delle tutele”, e per l’altro irrigidisce eccessivamente le tutele da riconoscersi al termine della fase di “crescita”.

Si tratta, a ben vedere, di un’idea che presuppone il superamento della logica gradualistica insita nella riforma Fornero: una logica ragionevole e praticabile, che è stata, forse, affossata dalle resistenze opposte da una parte importante della dottrina e della giurisprudenza.



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