mercoledì 11 marzo 2015

Jobs act e la cancellazione per il rito Fornero



A seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei D.Lgs. n. 22/2015 e 23/2015, entrati in vigore il 7 marzo scorso, cambiano le regole per le aziende che intendono assumere personale con contratto a tempo indeterminato. Per i neo assunti, infatti, si applica il rinomato “contratto a tutele crescenti” che prevede importanti modifiche in caso di licenziamento illegittimo. In pratica, sono previste tutele crescenti per il lavoratore in funzione dell’anzianità di servizio. Le nuove regole, tuttavia, non si applicano soltanto ai neo assunti, ma anche ai lavoratori che vengono stabilizzati e a tutti i lavoratori, anche se assunti prima del 7 marzo 2015, nel caso in cu il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l’entrata in vigore del decreto, superi la soglia dei 15 dipendenti.

A continuazione del licenziamento, il datore di lavoro può offrire al dipendente un importo esentasse equivalente a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio (con un minimo di due mensilità e un massimo di 18). Se la soluzione conciliativa dà esito negativo, uno degli scenari che può prefigurarsi è quello del ricorso al giudice del lavoro.

A tale proposito, non potrà essere più utilizzato il rito Fornero, in quanto il decreto pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale prevede espressamente che le disposizioni dell'articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 92/12 non si applichino ai licenziamenti intimati all'esito del contratto di lavoro a tutele crescenti.

La relazione illustrativa al decreto legislativo chiarisce che la ragione alla base della decisione di eliminare il rito Fornero per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti risiede nel fatto che il nuovo apparato sanzionatorio è totalmente svincolato dal precedente regime di tutela previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che costituisce, invece, la norma di riferimento sulla quale era stato ritagliato il rito abbreviato per le controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti.

La legge 92/12 aveva introdotto il rito abbreviato con il preciso scopo di agevolare e rendere più rapida la conclusione delle controversie sui licenziamenti regolati dall'articolo 18 in una funzione, tra l'altro, di tutela delle imprese rispetto al danno economico e ai disagi organizzativi che potevano prodursi a causa della durata eccessivamente lunga del processo del lavoro ordinario.

Il rito Fornero ha determinato, peraltro, sin dalla sua prima applicazione enormi disagi sia per gli avvocati, sia per i magistrati chiamati ad utilizzare il nuovo strumento processuale, in quanto si erano palesate letture di segno opposto rispetto ad una serie composita di questioni procedurali. Non si contano le decisioni rese dai Tribunali su aspetti decisivi del nuovo procedimento, quali la natura obbligatoria o facoltativa del rito e la necessità che il giudice dell'opposizione fosse, o meno, diverso da quello che aveva trattato la fase sommaria.

Tutte queste questioni hanno finito per appesantire, invece che semplificare, il ruolo dei magistrati impegnati sul fronte delle cause di lavoro, tanto che in svariati Tribunali si è ritenuto di dover emettere dei veri e propri “prontuari” con le linee guida sull'applicazione del nuovo processo.

Con l'articolo di chiusura del decreto legislativo, il Governo ha deciso di cancellare il rito abbreviato per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti, ai quali tornerà, dunque, ad applicarsi l'ordinario processo del lavoro anche per le controversie relative all'impugnazione dei licenziamenti.

Il meccanismo previsto dall’ex ministro del Lavoro verrà sostituito da un’offerta di conciliazione (art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015). In pratica, il datore di lavoro ha la possibilità di offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo esente da imposizione fiscale e contributiva pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’esito della conciliazione dovrà essere comunicato dal datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto. Qualora il datore di lavoro omette tale comunicazione, dovrà scontare una sanzione che va dai 100 ai 500 euro per lavoratore (50 - 250 euro per le agenzie del lavoro).

I licenziamenti disciplinari tra Jobs act e riforma Fornero. Basta un poco di fatto materiale.
La categoria del “fatto materiale” è tornata, del tutto inaspettatamente, in auge a proposito dell’individuazione della tutela ex art. 18 l. 300/1970 a fronte di un licenziamento disciplinare illegittimo.

La categoria del fatto materiale era stata elaborata all’indomani della riforma c.d. Fornero (legge n. 92/2012) che nell’art.18 conserva la tutela reintegratoria (sia pure nella specie c.d. attenuata) subordinandola all’“insussistenza del fatto contestato” dal datore come giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Era stato allora proposto da più autori di restringere la formula legale alla sola ipotesi di mancanza del fatto materiale contestato; intendendosi, sotto evidente influenza penalistica, la sola mancanza degli elementi materiali dell’illecito disciplinare. E confinando conseguentemente nella categoria residuale delle “altre ipotesi” tutela delle indennità (così genericamente individuate nel 5° comma dell’art.18) tutti gli altri casi in cui fosse invece insussistente  l’antigiuridicità, l’imputabilità, la volontarietà della condotta, l’elemento soggettivo ed infine il difetto di proporzionalità. Anche se la mancanza di quest’ultimo requisito può ancora riportare alla reintegra per altra via, quante volte si venga a configurare la seconda ipotesi in presenza della quale l’art.18, 4° comma, riformato dalla legge 92, prevede l’operatività della tutela forte per essere il fatto riconducibile ad una condotta disciplinare “punita con una sanzione conservativa”nei contratti collettivi e codici disciplinari.




Jobs act e il possibile rientro in azienda



Il Jobs Act da pochi giorni è ufficialmente in vigore. La nuova legge, nelle intenzioni, dovrebbe incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, perché prevede per l’imprenditore l’esonero contributivo e il taglio dell’Irap per i primi tre anni. A ben vedere però pare che sia stata istituita la figura del lavoratore «precario per sempre» vista la facilità con cui potrà essere licenziato per ragioni disciplinari o economiche e la cancellazione della possibilità di «reintegra», il cui campo di applicazione si riduce moltissimo anche nel primo caso quando resta possibile solo se in giudizio viene dimostrata l’insussistenza del contestato (per esempio l’azienda accusa di arrivare sempre in ritardo ma il cartellino dimostra che non è così).

A fronte di un licenziamento, un lavoratore a cui si applica il contratto a tutele crescenti potrà rientrare in azienda, per decisione del giudice, solo in tre casi: il recesso è nullo, è discriminatorio, oppure è stato intimato per una contestazione disciplinare basata su un fatto materiale inesistente.

Il reintegro nel posto di lavoro da parte del giudice resta possibile, come già avviene adesso, per i licenziamenti discriminatori, cioè quelli decisi dal datore di lavoro sulla base di convinzioni politiche o religiose oppure per l’orientamento sessuale. Mentre il suo campo di applicazione si riduce di parecchio per i cosiddetti licenziamenti disciplinari, cioè quelli adottati sulla base del comportamento del dipendente. Qui la strada del reintegro resta possibile solo in un caso: quando in giudizio viene direttamente dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’azienda accusa di arrivare sempre in ritardo, ad esempio, ma le strisciate del cartellino del lavoratore dimostrano che non è così. L’onere della prova è a carico del dipendente. In tutti gli altri casi, invece, c’è solo l’indennizzo economico. L’accertamento del giudice non può riguardare l’eventuale sproporzione della sanzione del licenziamento rispetto al fatto contestato. Anche se dovesse considerare la punizione «esagerata», il magistrato non potrebbe disporre il rientro in azienda del lavoratore. In caso di reintegro, il dipendente deve riprendere servizio entro 30 giorni. Se rinuncia ,può chiedere di «convertire» il reintegro in un’indennità pari a 15 mensilità.

Un licenziamento viene considerato discriminatorio se determinato da motivi di natura politica, razziale o di lingua oppure se basato sul sesso od orientamenti sessuali, convinzioni personali, handicap. È nullo, per esempio, se fatto a voce (anche per le procedure collettive) o in violazione delle norme a tutela della maternità.

Nell'ipotesi in cui si accerti il carattere nullo o discriminatorio del recesso, il giudice stabilisce la reintegrazione del dipendente, che ha anche diritto a un risarcimento commisurato alle retribuzioni perse tra il licenziamento e il rientro in azienda, con un minimo di cinque mensilità, nonché al versamento da parte del datore di lavoro dei relativi contributi previdenziali e assistenziali.

In alternativa, il dipendente può scegliere di non ritornare al suo posto di lavoro e di incassare un'indennità aggiuntiva pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione. Tale decisione deve essere presa entro 30 giorni dall'invito a ritornare al lavoro o dalla comunicazione del deposito della pronuncia del giudice. Queste regole valgono indipendentemente dalle dimensioni dell'azienda.

Non così accade, invece, a fronte di un licenziamento disciplinare di cui si accerti l'insussistenza materiale del fatto contestato, onere che ricade sul dipendente. Infatti, il comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs 23/15 stabilisce che per le imprese più piccole (quelle fino a 15 addetti nello stesso comune o fino a 60 in più località) non c'è comunque la reintegrazione e il dipendente deve accontentarsi della compensazione economica. Invece se il giudice stabilisce l'insussistenza del fatto in riferimento a un licenziamento intimato da una realtà di maggiori dimensioni, scatta la reintegrazione e il pagamento, a carico del datore di lavoro, di un'indennità commisurata alla retribuzione di riferimento per il periodo in cui è rimasto senza impiego (ma comunque non superiore a 12 mensilità), tolto quanto eventualmente percepito a fronte di altre attività svolte nel frattempo o quanto avrebbe potuto guadagnare accettando un'offerta di lavoro congrua in base a quanto stabilito dal decreto legislativo 181/00 (le stesse condizioni che possono far perdere lo status di disoccupato). Anche in questo caso il lavoratore, in alternativa alla reintegra, può chiedere un'indennità ulteriore pari a 15 mensilità.

Anche per i vecchi contratti, la possibilità di demansionare i dipendenti e ridurre gli stipendi unilateralmente da parte del datore di lavoro per «modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore», formula che vuol dire tutto e niente e che è un presupposto tutto nelle mani dell’azienda. E grazie a un decreto del 2011 il lavoratore, in deroga alla legge, potrà perdere anche più di un livello di inquadramento. Il demansionamento potrebbe avvenire anche in senso orizzontale, magari inserendo il lavoratore in un settore in via di dismissione. E se il decreto facilita il declassamento del lavoratore, al tempo stesso ne rallenta il passaggio a un livello più alto, cosa che prima diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell'attività, adesso dopo sei.

Con il Jobs Act il lavoratore può essere convinto o indotto ad accettare livelli inferiori di tutela, sul piano delle mansioni ma anche della retribuzione, perché l’azienda può metterlo di fronte a un bivio, soprattutto nel caso dei neo assunti:o accetta le sue condizioni o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità. Si aprono così le porte a possibili casi di mobbing legalizzato.






Jobs act: e le indennità assicurate in base all'anzianità



Con la riforma in esame si punta a promuovere il contratto a tempo indeterminato attraverso misure che lo rendano più conveniente rispetto ad altre tipologie contrattuali.

Il contratto a tutele crescenti taglia del 30% il costo del lavoro. L’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato prevede due mensilità per ogni anno di servizio e andrà da un minimo di 4 mesi a un massimo di 24 mesi di stipendio. Le aziende con meno di 15 dipendenti restano escluse dall'articolo 18 (per loro continuerà a valere l’indennizzo attuale, variabile tra i 2,5 e i 6 mesi di retribuzione). Le nuove regole si applicano soltanto ai nuovi assunti e anche in caso di licenziamento collettivo. Chi ha già un contratto a tempo indeterminato mantiene lo Statuto del passato. Il reintegro scatterà solo in caso di licenziamenti nulli e discriminatori. Nei licenziamenti disciplinari ingiustificati il reintegro ci sarà solo nel caso in cui il giudice rilevi che il “fatto materiale non sussista”. NASPI: l'indennità di disoccupazione ha una durata massima di 24 mesi, tetto a 1.300 euro, platea allargata a cococo e cocopro, scatta dal primo maggio 2015. DIS-COLL: 6 mesi di indennità per i precari. ASDI: l’assegno ai disoccupati indigenti.

Per gli assunti con il contratto a tutela crescenti il Dlgs 23/15 prevede, in caso di recesso ingiustificato del datore di lavoro, una tutela di natura essenzialmente legata alle indennità, eliminando la reintegrazione nel posto di lavoro come sanzione unica in caso di accertamento dell'illecito, eccetto che per alcuni casi tipizzati di licenziamento discriminatorio e per quello di natura disciplinare nel caso in cui venga provata l'insussistenza del fatto materiale contestato.

Per tutti gli altri casi di recesso ingiustificato, a partire da quelli determinati da «ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (i cosiddetti licenziamenti economici) l'unico strumento che resta al giudice, nel caso in cui determini che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, dopo aver dichiarato estinto il rapporto, è quello di un risarcimento compreso «certo e crescente con l'anzianità di servizio».

La misura dell'indennità è predeterminata dalla legge, così togliendo al magistrato qualsiasi margine di discrezione sul suo ammontare: si tratta di due mensilità dell'ultima retribuzione considerata per il Tfr per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità. Nel caso di frazioni di anno d'anzianità di servizio, l'indennità viene riproporzionata, mentre le frazioni di mese intero si computano integralmente quando siano uguali o superiori a 15 giorni.

Logicamente, se il giudice ritiene il licenziamento giustificato, il lavoratore avrà diritto solo all'indennità sostitutiva e al trattamento di fine rapporto.

Le stesse regole valgono anche in caso di recesso per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (cosiddetti licenziamenti disciplinari), eccezion fatta, come detto, nel caso in cui il fatto materiale non sussista.

Le nuove disposizioni in materia di licenziamento si applicano a tutti i datori di lavoro privati; il decreto opera, tuttavia, una differenziazione per quelli che occupano fino a 15 dipendenti. In caso di recesso illegittimo, in questo caso, le sanzioni sono infatti ridotte. L'indennizzo ammonterà a una mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di due e un massimo (non superabile) di sei.

Nel caso in cui le aziende con le nuove assunzioni superino la soglia dei 15 dipendenti, le nuove regole si applicheranno anche a quelli già in servizio.

Quando, infine, il licenziamento è affetto da vizi formali e procedurali il rapporto di lavoro viene estinto comunque, ma il datore di lavoro dovrà pagare un'indennità pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, la quale non può essere inferiore a due o superiore a 12 mensilità. Anche in questo caso l'indennizzo a carico delle piccole imprese sarà ridotto (mezza mensilità per anno di servizio tra un minimo di una e un massimo di sei).

La disciplina dei licenziamenti nel rispetto del seguente criterio direttivo: "previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento".  Il contratto a tutele crescenti, ovvero tutele che cresceranno in relazione all'anzianità di servizio, prevede per i neo assunti una modifica del regime di tutela in caso di licenziamento, regolato dall'art.18 dello statuto dei lavoratori. Al lavoratore verrà pagato un indennizzo economico crescente in base all'anzianità di servizio, con un limite di 24 mensilità. Il reintegro nel posto di lavoro scatterà solo per i licenziamenti discriminatori, per quelli nulli e per una fattispecie limitata di licenziamenti disciplinari  1 (quando cioè il fatto materiale contestato è insussistente, senza alcuna valutazione sulla sproporzione del licenziamento).  La delega, in ordine ai destinatari della nuova regolamentazione, contiene un riferimento di tipo soggettivo (individuati nei neoassunti), ed uno di tipo oggettivo, attinente all'introduzione delle nuove tutele in caso di vizio dell'atto di risoluzione del rapporto.  Nei confronti dei nuovi assunti (dal 1 marzo 2015).



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