Pubblichiamo un’inchiesta fatta dal quotidiano Il Messaggero.
Innanzitutto l'età media dei baby-pensionati oggi si aggira sui 65 anni. Significa che per almeno altri 15 anni (considerando la vita media) il sistema sociale italiano dovrà far fronte a queste spese. La pensione media di un baby pensionato è di 1500 euro al mese. Importo di tutto rispetto calcolando l'esigua contribuzione e la durata del trattamento: almeno 3 volte quanto versato.
Noi tutti, paghiamo ancora più di mezzo milione di pensioni baby, liquidate a lavoratori con meno di 50 anni d’età: 535.752 per la precisione, che costano circa 9,5 miliardi di euro l’anno. Ancora oggi l’Inpdap, l’ente di previdenza del pubblico impiego, paga 428.802 pensioni concesse sotto i 50 anni: di queste più di 239 mila vanno a donne e quasi 185 mila a uomini, per una spesa nel 2010 di 7,4 miliardi. A queste pensioni si sommano 106.905 pensioni liquidate a persone con meno di 50 anni nel sistema Inps (regimi speciali e prepensionamenti) per un costo di altri 2 miliardi.
Le baby pensioni compaiono nel nostro ordinamento con il decreto (Dpr 1092) che entrò in vigore il 29 dicembre 1973. È l’anno della crisi energetica, della guerra del Kippur, del Watergate nella sua pienezza.
Sono gli anni ’70, quel groviglio di fortissime tensioni politiche, di trasformazioni sociali e di terrorismo.
Il Dpr 1092 prevede per il settore pubblico la possibilità di andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno per le donne con prole, 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini, e 24 anni sei mesi e un giorno per i dipendenti degli enti locali.
Alberto Brambilla, già sottosegretario al Ministero del Lavoro e uno dei massimi esperti italiani di pensioni, quest’anno, in occasione della giornata mondiale della previdenza, ha curato un testo molto utile per la ricostruzione storica della previdenza in Italia, un libro sfogliabile in internet, “I 150 anni della previdenza sociale nei 150 anni dell’Unità d’Italia”. Ha spiegato al Messaggero: “Quel Dpr chiude un ciclo di interventi esiziali sulle pensioni. Nel 1969 c’era stata la legge Brodolini con l’adozione generalizzata del sistema retributivo, con l’istituzione delle pensioni di anzianità, e l’adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. I due provvedimenti, quello del 1969 e questo del 1973 hanno inciso pesantemente e negativamente sui conti pubblici. Già nel 1978, prima dei lavori della commissione Castellino, era chiaro che
il sistema previdenziale era squilibrato”.
Franco Marini, segretario della Cisl tra il 1985 e il 1991 in quel dicembre del 1973 era appena entrato nella segreteria confederale della Cisl guidata da Storti. Dice: “Sì, è vero che non c’era nella classe politica né nel corpo della stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell’impatto che l’allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle baby-pensioni causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata. Ci fu disagio nei confronti dei lavoratori privati che erano esclusi da quel trattamento. Anche se qualcuno riteneva che il baby pensionamento compensasse il fatto che i dipendenti del privato avessero avuto fino a quel momento salari molto più alti”.
Secondo un calcolo effettuato da Confartigianato i baby pensionati italiani (pubblici e privati) rispetto al pensionato medio hanno ricevuto un trattamento più lungo di quasi sedici anni. Questo significa che a valori 2010 la differenza (cioè il costo in più rispetto a un normale trattamento pensionistico) varrebbe 148,6 miliardi di euro. Cioè: in questi 40 anni, l’esistenza delle baby pensioni ci è costata quasi 150 miliardi più di quanto ci sarebbe costata la previdenza se i baby pensionati fossero andati a riposo con le stesse regole degli altri. Una tassa cumulata – secondo le stime degli artigiani – di circa 6.630 euro che grava su ognuno degli occupati italiani.
Si tratta di persone che in un calcolo medio restano in pensione per quasi 41 anni.
Per farsi un’idea, i nove miliardi e mezzo l’anno che noi spendiamo per le pensioni baby (tra il 4 e il 5% del totale della nostra spesa pensionistica) sono all’incirca il doppio di quanto – secondo una stima fatta da Confindustria – ci costano tutti gli anni i circa 180.000 eletti del sistema politico-istituzionale italiano, la cosiddetta casta: quattro miliardi contro cui un pezzo di opinione pubblica è costantemente mobilitata.
Eppure le incrostazioni corporative, i riflessi automatici, i punti di principio sono rimasti. Quando l’anno scorso il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, propose un contributo di solidarietà dell’un per cento che avrebbe toccato anche le pensioni baby ci fu una levata di scudi sui diritti acquisiti, che proprio non si toccano. Eppure è chiaro che in alcuni casi la costruzione dei diritti acquisiti è il risultato dell’iniquità, dell’inopportunità o dell’incongruenza di una norma.
Di sicuro c’è un punto che riguarda la natura del debito pubblico: se l’eccesso di spesa pubblica è servito a trasferire sullo stato il costo dei privilegi accordati dalla competizione politica a pezzi di società, forse per recuperare quelle risorse dobbiamo innanzitutto rivolgerci a chi per primo ne ha beneficiato (in previdenza, concessioni fiscali, aiuti, regalie e sprechi). Ovviamente i baby pensionati non sono i più ricchi tra i beneficiari della spesa pubblica allegra, però sono tra quelli che più apertamente hanno goduto di uno squilibrio. Forse è stata una generosità che è andata oltre gli obblighi della solidarietà.
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lunedì 23 luglio 2012
Mercato del lavoro:le baby pensioni quanto costano?
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lunedì 25 giugno 2012
Lavoro e pubblico impiego: il piano per il super-Inps
Ventitrè direttori generali in meno, settanta direttori di secondo livello eliminati, cinquemila dipendenti in mobilità. Prende forma il super-Inps, come riportato dalle colonne del Il Messaggero con l’accorpamento dei tre enti previdenziali Inps, Inpdap ed Enpals, un colosso che dovrà gestire un bilancio tra i 500 e 700 miliardi di euro. Il documento sembra che sia già stato firmato dal presidente Antonio Mastrapasqua. Obiettivo: ridurre i costi complessivi di funzionamento relativi ai tre enti previdenziali di almeno 20 milioni di euro nel 2012, 50 milioni di euro per il 2013 e 100 milioni di euro a decorrere dal 2014.
Già entro la fine di questo mese si partirà con i primi adeguamenti delle funzioni centrali e territoriali. Parte centrale della spending review del colosso che nascerà dalla fusione dei tre istituti, sarà la razionalizzazione logistica. Molte sedi saranno dismesse, gli spazi saranno riorganizzati e razionalizzati. La razionalizzazione comporterà anche «la restituzione di immobili in locazione passiva o la riduzione delle superfici locate con la relativa ricontrattazione del contratto di affitto e del canone». Vi rientrano anche quelli presi in affitto dall’Agenzia del Demanio. Per liberare spazi è prevista «l’ottimizzazione degli archivi cartacei», molti saranno «dematerializzati». Le operazioni di razionalizzazione logistica dovranno essere completate entro la fine di gennaio 2013.
"Nei piani di integrazione dell'ex-Inpdap e dell'ex-Enpals in Inps non c'è alcun programma di esubero o mobilità di dipendenti". E' quanto ha fatto sapere l'Inps precisando che "per quanto riguarda il personale non è all'ordine del giorno alcun intervento, sono quindi destituite di ogni fondamento le cifre indicate oggi da alcuni organi di stampa". Secca è stata la replica dell'Inps che in una nota ha affermato: "Il processo di integrazione è stato finora tracciato dagli indirizzi del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza (Civ) dell'Istituto e dalle linee programmatiche del Presidente, che affidano alla Tecnostruttura la predisposizione di un piano industriale, che non è stato definito. Mancano peraltro ancora l'approvazione del bilancio 2011 dell'Inpdap e i successivi decreti ministeriali".
L'idea di una "superInps" che inglobi Enpals e Inpdap con cospicui risparmi e rilevanti tagli di personale è da irresponsabili: prima serve un piano industriale e poi se ne parla. Ad affermarlo è stato il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. Commentando le anticipazioni di stampa sull'ipotesi che il Governo accorpi i tre istituti previdenziali, il leader della Cisl è stato molto critico. "Chi da questi numeri è un irresponsabile. Sia chi li dà sull'Inps, sia chi li dà sul pubblico impiego. Chi Governa - ha sottolineato - deve darci un piano industriale dal quale si desume quello che deve avvenire e non il contrario. E' davvero sconcertante - ha detto ancora - come persone pagatissime e con grandi responsabilità, giochino con i numeri, con le sorti degli istituti previdenziali, con le persone e con i servizi".
E' inaccettabile intervenire ancora sul pubblico impiego e sulla sanità ha sottolineato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, commentando le ipotesi di tagli nell'ambito del decreto spending review che il governo si appresta a presentare. "E' inaccettabile - ha osservato Camusso a margine della presentazione di un libro - intervenire ancora sul lavoro pubblico. Non c'è nessun segno di equità in questo". Il leader della Cgil ha ricordato che domani ci sarà la mobilitazione generale del pubblico impiego "sia per ottenere l'incontro" con il governo "sia per dare un esplicito segnale che non si può fare la spending review tagliando sull'occupazione e sulle condizioni del lavoro pubblico".
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