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venerdì 2 ottobre 2015

Esodati, pensioni flessibili e opzione donna: ecco le possibili soluzioni


I tecnici dell'INPS e del governo (Ministero del Lavoro e Ministero dell'Economia) continuano la fase di studio e confronto su ciò che si potrà fare o meno per le problematiche più urgenti riconducibili al gran calderone della riforma pensioni 2015/16.

Tenuto conto che la cifra massima di un miliardo di euro è quella si cui si fanno i calcoli (oltre al mezzo già stanziato per rimborsi e rivalutazione dovuti alla famosa sentenza della Corte Costituzionale sul blocco della rivalutazione), torna in auge la pensione anticipata a 63 anni di età con almeno 35 anni di contributi: per puntare al fatidico costo zero per lo Stato, ci dovrebbe essere una penalizzazione del 4% sull'assegno mensile. Con questa soluzione si pensa anche di risolvere il problema dei futuri esodati visto che i 35 anni di contributi appaiono una soglia adeguata a tutelare da fuoriuscite dal lavoro a pochi anni dalla pensione.

Il sistema previdenziale italiano è caratterizzato da disparità di trattamenti pensionistici. Le pensioni degli uomini sono più alte del 40% rispetto a quelle delle donne poiché le retribuzioni e le norme sulla pensione anticipata li avvantaggiano, con il risultato che le pensionate sono sì più numerose (53%) ma con assegni meno sostanziosi: a fine 2014, la spesa per le pensioni femminili è rimasta ferma al 44,2% del costo previdenziale complessivo.

Per ridurre il divario la ricetta di Tito Boeri, presidente dell'Inps, è quella di agire sul fronte normativo, con adeguate ricette in tema di flessibilità in uscita. Come è noto, il Governo sta mettendo a punto una riforma delle pensioni, che almeno in parte andrà in Legge di Stabilità, su cui il dibattito è ancora molto aperto.

Secondo Boeri (che propone una delle diverse opzioni sul tavolo, ossia la possibilità di pensione anticipata con una decurtazione dell’assegno del 3-3,5%). «Dobbiamo porre requisiti di natura anagrafica e non contributiva: l’età deve essere il fattore che decide e non l’anzianità contributiva».

Una misura nella legge di Stabilità per chiudere strutturalmente le vicissitudini degli esodati e aprire, con tutte le cautele del caso, una formula di maggiore flessibilità in uscita con penalizzazioni. La misura allo studio parte dallo schema base delle penalizzazioni le più corrette possibili sotto il profilo dell’applicazione (si dice 4% sulla quota retributiva dell'assegno) con età minima per l'anticipo fissata a 63 anni e qualche mese, ovvero non più di tre anni dall'età di vecchiaia valida dal 2016. Gli anni di contributi minimi restano 35, soglia che consentirebbe di non esporre i lavoratori al rischio di un uscita (magari indotta da piani di ristrutturazione aziendali) con assegni troppo bassi. Ma c'è anche consapevolezza che con 35 anni minimi la flessibilità nuova sarebbe soprattutto appannaggio degli uomini, vista la difficoltà per le donne di avere carriere continue. E sul punto una soluzione alternativa è ancora allo studio. Il confronto è aperto anche sull'«Opzione donna»: riconoscere alle dipendenti di 58 anni e 35 di contributi, con maturazione del requisito entro l'anno, un ritiro anticipato con penalizzazione del 3% l'anno per massimi tre anni in luogo del ricalcolo contributivo.

Misura che potrebbe riguardare circa 30mila donne con un costo basso iniziale che poi cresce negli anni futuri quando le scattano le finestre della decorrenza (fino a 2 miliardi entro il 2020).

Il presidente dell'Inps ha reso noto, inoltre, che tra 2003 e 2014 oltre 36mila persone hanno deciso di passare la vecchiaia all'estero. I loro assegni costano alle casse dell'istituto oltre 1 miliardo ogni anno. A riequilibrare i conti sono i contributi previdenziali dei quasi 200mila immigrati che hanno lavorato nel nostro Paese ma non ricevono la pensione.

Si tratta di circa 200.000 stranieri sui 927.448 provenienti da paesi convenzionati che hanno superato i 66 anni e tre mesi (il 21%): non hanno alcuna prestazione dall'Inps per un totale di versamenti capitalizzati con il criterio contributivo di circa 3 miliardi. «Perché non usare quelle risorse per finanziare politiche di integrazione?» ha proposto Boeri. Sul fronte degli italiani pensionati che si trasferiscono all'estero, invece, è stata segnalata una crescita dei flussi, con il raddoppio tra il 2010 e il 2014 dei beneficiari di una rendita che decidono di vivere oltre confine. Nel 2014 Inps erogava 400mila trattamenti all'estero per una spesa di oltre un miliardo in 154 paesi. In questo caso la proposta è stata valutare di pagare in futuro per l'estero solo le prestazioni contributive e non quelle assistenziali.

Le lavoratrici che maturano il requisito di prepensionamento con Opzione Donna possono scegliere di andare in pensione anche dopo il 2015: chiarimenti INPS.

Le lavoratrici che maturano la pensione anticipata utilizzando l’Opzione Donna possono esercitarne il diritto anche dopo al 31 dicembre 2015: lo precisa l’INPS, con la nota 145.949 del 14 settembre, rispondendo a specifico quesito dei Patronati. Attenzione: non vuol dire che l’Opzione viene estesa oltre l’anno, che richiede eventuale apposito provvedimento normativo, allo studio del Governo (potrebbe essere inserito in Legge di Stabilità).

La possibilità di chiedere dal 2016 la pensione anticipata utilizzando l’Opzione Donna è riservata alle aventi diritto in base alle attuali regole: devono aver maturato nel 2014 il diritto alla pensione (in base al meccanismo delle finestre mobili, ricordiamo che passano 12 o 18 mesi dalla maturazione del requisito alla decorrenza della pensione). Per loro, non solo i termini per l’adesione sono ancora aperti fino al 31 dicembre ma lo resteranno anche successivamente.

L’Opzione Donna, lo ricordiamo, è una forma di prepensionamento riservata alle donne di 57,3 anni se dipendenti e 58,3 se autonome, con 35 anni di contributi. In base all’interpretazione INPS, spetta alle lavoratrici che hanno smesso di lavorare entro novembre 2014, se dipendenti, dicembre 2014 se dipendenti del pubblico impiego, fine maggio 2014 se autonome. In base alle regole appena esposte, al momento l’Opzione Donna è riservata alle autonome nate entro il 28 febbraio 1956, dipendenti del privato nate entro agosto 1957, dipendenti pubbliche nate entro settembre 1957. Tutte queste lavoratrici, se hanno 35 anni di contributi, in base agli ultimi chiarimenti INPS possono accedere all’Opzione Donna in qualsiasi momento, anche successivamente al 2015.

Per le altre lavoratrici non cambia nulla. Non si tratta dunque di una marcia indietro INPS rispetto all’interpretazione restrittiva fin qui portata avanti (fissando le regole per l’opzione con le circolari 35 e 37 del 2012): questa forma di prepensionamento al momento è riservata alle lavoratrici che hanno maturato la decorrenza della pensione al 31 dicembre 2015 e non il diritto alla stessa. Tutte le altre restano in attesa di provvedimenti del Governo: oltre alla possibile estensione di meccanismi simili anche oltre il 2015, si attende un provvedimento specifico per considerare il 31 dicembre la data di maturazione del diritto alla pensione, allargando quindi la platea delle aventi diritto.

martedì 22 settembre 2015

Pensione anticipata e il part-time (staffetta generazionale)


Se tra i vantaggi di un sistema previdenziale più flessibile (che offra maggiori possibilità ai lavoratori di scegliere la pensione anticipata) c’è quello di garantire il passaggio generazionale agevolando l’occupazione giovanile ed esonerando le imprese dal mantenere lavoratori in esubero, tra gli svantaggi ci sono i maggiori costi per lo Stato: secondo il centro studi di Unimpresa, da qui al 2019 la spesa per le pensioni crescerà dell’11,9%, pari a 39,1 miliardi di euro.

È stato riproposto anche il part time come soluzione di pensione anticipata, collegata al lavoro, che non solo permetterebbe ai lavoratori più anziani di andare in pensione prima, ma darebbe la conseguente possibilità di liberare posti di lavoro per l'assunzione di nuovi giovani. In questo caso l’azienda, a fronte del passaggio al part-time del pensionando, si impegnerebbe ad assumere a tempo indeterminato lavoratori più giovani. Ma in quel caso però lo Stato dovrebbe farsi carico, in tutto o in parte, della riduzione di stipendio non superiore al 30 per cento della retribuzione piena.

I dipendenti che si troveranno vicini, più o meno di due anni all’età per la pensione, potranno richiedere volontariamente il regime del part-time con una diminuzione sia dell’orario di lavoro che dello stipendio e così consentire l’assunzione di un altro giovane. Coloro che sceglieranno questa opzione comunque oltre alla riduzione dello stipendio dovranno compensare i contributi tra part-time e tempo pieno.

Il passaggio chiave è un accordo che, come hanno spiegato i tecnici, che non è un meccanismo generale di flessibilità ma un sistema rivolto a platee particolari di lavoratori. La priorità, ovviamente, sono i dipendenti anziani, per esempio con più di 62 o 63 anni (si tenga conto che dal prossimo gennaio l’età per accedere alla pensione di vecchiaia sale a 66 anni e 7 mesi) che perso il lavoro non riescano a trovarne un altro. A loro potrebbe essere data la possibilità di accedere a un pensionamento anticipato con l’importo della pensione più basso perché ricalcolato alla luce del fatto che verrebbe pagato per più anni. Ci si perderebbe in media il 3-3,5% per ogni anno di anticipo.

Questo modello potrebbe essere esteso consentendo alle aziende di favorire pensionamenti anticipati all’interno di processi di ristrutturazione che potrebbero prevedere anche l’ingresso di giovani (staffetta generazionale), a patto che la stessa azienda si accolli parte del costo di questi prepensionamenti, magari versando, come propone l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, contributi esentasse per il raggiungimento della pensione. Sul tavolo, dicono ancora i tecnici, c’è anche l’ipotesi del «prestito pensionistico» o «assegno di solidarietà», altra forma per consentire le uscite anticipate a un costo basso per il bilancio pubblico.

C’è da mettere in evidenza che un anno di lavoro part-time vale quanto un anno di lavoro a tempo pieno ai fini del conseguimento del diritto alle prestazioni previdenziali? E’ questa una delle principali domande che si pongono tanti lavoratori part-time nella speranza di agguantare prima la pensione.

Vediamo dunque di chiarire rapidamente quali sono gli effetti ai fini della pensione dei lavori svolti in part-time.

Per conseguire il diritto alla pensione anticipata, lavorando in regime di part-time, il tempo lavorativo fissato non è diverso da quello richiesto per il tempo pieno: infatti, un anno di part-time, viene conteggiato come un anno di lavoro svolto a tempo pieno, a patto, però, che il lavoratore abbia ottenuto una retribuzione pari almeno al minimale previsto annualmente dall’INPS.

Il minimale fissato per l’anno 2014 è di 10.418 euro l’anno, pari a 867 euro al mese e pari a 200,35 euro a settimana. Se il lavoratore part-time, in ogni settimana dell’anno non è sceso sotto tale livello, significherà che si sarà comunque garantito la copertura contributiva delle 52 settimane e che avrà aggiunto alla sua posizione previdenziale un altro anno di contributi utili per conseguire il diritto alla pensione.

Ne segue che, se la retribuzione dovesse risultare inferiore e, proporzionalmente, il relativo versamento previdenziale, il diritto alla pensione non risulterà ancora maturato.

Ad esempio se un lavoratore nel corso del 2014 ha lavorato per 12 mesi a 1050 euro al mese con contratti part-time avrà diritto all’accredito di tutte le 52 settimane ai fini dell’accesso alla pensione anticipata o alla pensione di vecchiaia. Qualora invece abbia conseguito solo 100 euro a settimana per 52 settimane il medesimo lavoratore vedrà riconosciute ai fini del diritto alla pensione solo 6 mesi di anzianità contributiva. E in tal caso, dunque, la pensione si allontanerà.


martedì 2 dicembre 2014

Calcolare la pensione: l'Inps rilancia la busta arancione online



Parte la sperimentazione della cosi detta busta arancione. L'Inps ha elaborato un sistema di calcolo che consentirà ai lavoratori di ottenere una proiezione della loro pensione futura, che non sarà inviata per posta, ma potrà essere ottenuta direttamente online.

L’Inps è pronta a lanciare la busta arancione, il documento che permetterà ai contribuenti di avere un quadro chiaro e definito di quanto potranno attendersi alla conclusione della propria vita professionale. Della busta arancione si parla in verità da molti anni, si tratta di uno strumento che viene utilizzato da tempo in Svezia e che l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale vuole portare in Italia dopo una fase di sperimentazione che interessa 10mila pensionandi coinvolti nel test denominato Simula.

Le persone scelte per il test sono state estratte tra coloro che risultano avere contributi nel fondo pensione lavoratori dipendenti e nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Restano pertanto esclusi, al momento, gli iscritti ai fondi speciali sostitutivi ed integrativi come fondo volo, elettrici e telefonici, e gli iscritti ai fondi confluiti da altri enti come Inpdap e Enpals. Si tratta di individui con contributi versati interamente all'istituto di previdenza con una situazione definita e vicini alla pensione.

L'elaborazione, indica l'Inps, non avrà alcun valore di certificato e sarà basata sui dati in possesso dell'istituto riguardanti la carriera "di lavoro fino ad oggi condotta e sui relativi contributi versati". Partendo dall'estratto conto previdenziale, visibile a tutti sul sito dell'Inps, la nuova applicazione elabora una proiezione dei contributi che ancora mancano alla pensione e calcolando l'importo dell'assegno.

L’Inps assegnerà un Pin personale a ogni contribuente: con questo codice i lavoratori potranno accedere ai servizi online dell’Inps. L’applicazione incrocerà tre dati:

1) l’estratto conto allo stato attuale,

2) una proiezione dei contributi mancanti,

3) il contesto dello scenario macro-economico sulla base dei dati della Ragioneria di Stato.

Quest’ultimo dato sarà, a sua volta, il risultato di quattro parametri: l’andamento dell’economia, quello delle retribuzioni, il livello di inflazione e l’aspettativa di vita. Naturalmente un aumento nell'aspettativa di vita farà diminuire l’importo dell’assegno.

Per gli anni a venire il sistema utilizza come scenario di riferimento quello “standard” adottato dalla Ragioneria generale dello Stato per effettuare ogni anno le previsioni a medio-lungo termine, ma dà la possibilità di intervenire su alcuni parametri, quali, per esempio, l'andamento della retribuzione.

La simulazione tiene inoltre in considerazione diversi elementi che andranno ad incidere sull'importo della prestazione quali ad esempio l'età in cui la persone deciderà di interrompere la propria carriera lavorativa nonchè la continuità dei versamenti effettuati.

Se tutto andrà per il verso giusto, la “busta arancione” potrebbe debuttare ufficialmente l'anno prossimo, previo via libera del ministro del Lavoro a cui spetta l'ultima parola.

Alcuni dettagli di questa fase sono stati spiegati dal direttore regionale Inps dell'Emilia Romagna, Giuliano Quattrone in occasione del convegno «Previdenza in tour» organizzato dalla Cassa nazionale di previdenza dei commercialisti a Bologna.

Partendo dall'estratto conto previdenziale, visibile a tutti sul sito dell'Inps, la nuova applicazione fa un passo in più, elaborando una proiezione dei contributi che ancora mancano alla pensione e calcolando l'importo dell'assegno. Per gli anni a venire il sistema utilizza come scenario di riferimento quello “standard” adottato dalla Ragioneria generale dello Stato per effettuare ogni anno le previsioni a medio-lungo termine, ma dà la possibilità di intervenire su alcuni parametri, quali, per esempio, l'andamento della retribuzione.

Prevista dalla riforma delle pensioni del 1995, che ha introdotto il sistema contributivo, la “busta arancione” (dal colore del plico inviato ai cittadini svedesi, all'avanguardia da questo punto di vista) non è mai diventata realtà anche perché se da una parte consente al cittadino di acquisire maggiore consapevolezza della propria situazione previdenziale, conseguenze negative potrebbero essere determinate dalla diffusione di previsioni poco attendibili o dalla prospettiva di incassare un assegno inadeguato per garantirsi uno standard di vita analogo a quello tenuto durante gli anni di lavoro.

I sistemi con i quali viene calcolata la pensione sono tre: il sistema contributivo e le due forme del sistema misto, quello retributivo (pre-riforma Dini) e quello misto (post-riforma Dini). Il retributivo (tarato sugli ultimi stipendi incassati) riguarda coloro che avevano almeno 18 anni di contributi nel 1995: per questi soggetti il passaggio al contributivo si applica solo dal 2012, per effetto della legge Fornero.

Tutti coloro che al 31 dicembre 1995 non avevano ancora raggiunto i 18 anni di contributi ricadono nel sistema misto in cui, a differenza del sistema retributivo nel quale l’assegno coincide con l’ultima busta paga, l’importo pensionistico viene calcolato sulla media retributiva degli ultimi anni del percorso professionale. Si tratta, appunto, di una formula a metà strada fra il retributivo e il contributivo (calcolato sull'aspettativa di vita e su quanto versato durante la propria attività lavorativa).

Quota C: come funziona

Accanto a queste formule esiste la quota C di pensione che è costituita dalle somme erogate dal lavoratore e dai suoi datori di lavoro durante la propria vita professionale. In questa modalità di calcolo rientrano coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995 e coloro che rientrano nel sistema misto post-riforma Dini. Nella quota C vengono presi in considerazione tutti gli stipendi erogati in costanza di attività lavorativa. Coloro che a fine 1995 avevano raggiunto i 18 anni (i cosiddetti ex retributivi) iniziano a calcolare la quota contributiva a partire dal 1° gennaio 2012. L’importo di tali contributi costituirà il montante che verrà annualmente rivalutato sulla base della variazione quinquennale dell’indice Pil calcolato dall’Istat. Alla fine dell’iter professionale la somma accantonata diventerà quota pensionistica sulla base di coefficienti legati all’età del lavoratore al momento della cessazione dell’attività: maggiore sarà l’età, più alta sarà la rendita previdenziale.



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