sabato 8 novembre 2014

Che cosa è l’associazione in partecipazione?



L'associazione in partecipazione è una particolare forma di contratto relativo al mondo dell'impresa con il quale un imprenditore (che viene detto appunto "associante") si accorda con uno o più soggetti (che vengono detti "associati") che svolgono la propria attività lavorativa e vengono ricompensati con una partecipazione agli utili dell'impresa. L'utilizzo di questo tipo di contratto offre dei vantaggi in termini di flessibilità ed è molto redditizio nel momento in cui l'impresa ottiene un utile. Diventa invece problematico nei casi in cui l'attività sia in perdita perché in questo caso il lavoratore associato può essere chiamato a rispondere delle passività.

L’associazione in partecipazione, disciplinata dagli artt. 2549-2554 del codice civile, è un contratto con il quale un imprenditore (detto associante) attribuisce ad un altro soggetto (detto associato) la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto che l’opinione dominante assume possa consistere anche in una prestazione di lavoro.

L’associante rimane, dunque, titolare dell’impresa, e come tale è l’unico soggetto a cui siano riferibili i rapporti giuridici (debiti – crediti) nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni (tra associante ed associato), in linea di principio e salvo patto contrario, l’associato si assume il rischio di impresa. In buona sostanza quest’ultimo partecipa, di regola, tanto alle perdite quanto agli utili, sebbene le perdite non possano superare il suo apporto (art. 2553 c.c.).

Inoltre, sempre fatto salvo il patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa (o per lo stesso affare) ad altre persone senza il consenso del precedente associato (art. 2550 c.c.). Tale disposizione si giustifica con l’esigenza di tutela dell’associato, in quanto una nuova partecipazione potrebbe determinare una riduzione degli utili a lui spettanti. Sempre in tale ottica può essere previsto, convenzionalmente, il potere di controllo, sulla gestione dell’impresa o sullo svolgimento dell’affare per cui l’associazione è stata contratta, da parte dell’associato (2° comma dell’art. 2552 c.c.). A quest’ultimo, in ogni caso, è attribuito il diritto (3° comma dell’art. 2552 c.c.) al rendiconto annuale, ovvero al rendiconto finale sull’affare compiuto.

Per evitare fenomeni elusivi, la tradizionale disciplina codicistica è stata integrata da altri interventi normativi successivi.

In principio, è stato introdotto l’art. 86 (2° comma) del D.Lgs. 276/03, secondo il quale il contratto di associazione in partecipazione è invalido quando manchino un’effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni a chi lavora. In tali casi, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi che la prestazione rientra in una tipologie di lavoro disciplinate nel D.Lgs. 276/03 ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell’ordinamento.

Tale norma, tuttavia, ha da subito suscitato perplessità negli interpreti. Pertanto, è stata abrogata dalla legge 92/2012 di riforma del lavoro, che ha, altresì, introdotto alcune norme aventi lo scopo di ridurre al minimo il rischio di utilizzo abusivo della fattispecie contrattuale in esame.

La riforma del 2012 è, infatti, intervenuta su due diversi fronti.

In primo luogo, ha stabilito che si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato tutti i rapporti associativi instaurati o attuati senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare ovvero senza consegna del rendiconto relativo all’affare compiuto o all’anno di gestione trascorso.

In secondo luogo, ha stabilito che quando l’apporto conferito alla società consiste anche in una prestazione di lavoro, non possono esserci più di tre associati in partecipazione (salvi i familiari entro il terzo grado), pena la conversione in rapporto di lavoro subordinato per tutti gli associati.

Infine, sempre a scopo antielusivo, la legge 92/2012 ha esteso l’applicazione del nuovo art. 69 bis d. lgs. 276/2003 anche all’associazione in partecipazione: la norma citata (introdotta dalla stessa riforma) prevede che tale forma di collaborazione debba essere considerata come collaborazione coordinata e continuativa (con conseguente applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto) quando ricorrono le seguenti condizioni:

la collaborazione per uno stesso committente sia durata almeno 8 mesi nell’ambito dello stesso anno solare;

oltre l’80% del fatturato del collaboratore nell’arco di un anno solare derivi da uno stesso committente;
il collaboratore deve avere la disponibilità di una postazione fissa presso il committente.

In sostanza, quando ricorrono due dei presupposti appena elencati, il rapporto – anziché di associazione in partecipazione- deve essere riqualificato come rapporto di collaborazione a progetto. Ad esso, dovrà essere pertanto applicata la disciplina prevista dagli artt. 61 e ss del d. lgs. 276/2003, compreso il prelievo contributivo e la disciplina sanzionatoria nel caso in cui il contratto non sia conforme al progetto legale.

Vi sono dei casi in cui l’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione può mascherare il tentativo di aggirare la disciplina propria del lavoro subordinato.

Per questi motivi, come abbiamo già visto, la legge stabilisce che, quando l’apporto degli associati consiste in un’attività lavorativa, il numero degli associati non può essere superiore a tre, diversamente il rapporto si tramuta in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Ma la recente riforma Fornero, attuata con la legge n. 92 del 2012, ha previsto altre ipotesi in cui si presume che il rapporto di partecipazione in associazione sia in realtà un rapporto di lavoro subordinato.

Si tratta dei casi in cui:
in concreto all’esecuzione del rapporto di lavoro non segue un’effettiva partecipazione agli utili (e quindi di fatto il lavoratore riceve una retribuzione del tutto simile allo stipendio di un dipendente);

l’attività lavorativa non viene seguita dal rendiconto da parte dell’imprenditore-associante;

l’attività svolta dall’associato non ha le caratteristiche proprie di un’attività da lavoro autonomo (e quindi presenta i connotati tipici di un rapporto di lavoro subordinato).

Ciò significa che in questi casi si presume fino a prova contraria che il rapporto tra associato e associante sia un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti con tutte le conseguenze del caso sia sotto l’aspetto retributivo e contributivo, sia dal punto di vista della disciplina (orario, mansioni, licenziamento ecc.).

Una importante novità è stata introdotta dal cd. decreto lavoro d.l. n. 76/2013: anche le dimissioni dei lavoratori associati sono assoggettate al procedimento di cui alla legge Fornero.

La legge di conversione del D.L. n. 76/2013 (Legge 9 agosto 2013, n. 99) ha previsto degli strumenti per facilitare l’assorbimento con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei lavoratori assunti in precedenza con contratto di associazione in partecipazione e per disincentivare gli abusi collegati all’utilizzo di questa particolare forma contrattuale.

Vi è la possibilità di stipulare degli specifici contratti collettivi che prevedono appunto queste assunzioni entro tre mesi dalla data di stipulazione del contratto.

L’assunzione, in questo caso, può avvenire anche con un contratto di apprendistato. Si prevede peraltro che nei 6 mesi successivi alle assunzioni il datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro a meno che non sussistano una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

All’atto dell’assunzione le parti sottoscrivono un atto di conciliazione sullo schema della conciliazione prevista per il processo del lavoro e tale atto viene depositato, assieme al contratto di lavoro subordinato, nelle competenti sedi INPS.

L’atto di conciliazione, tuttavia, è efficace soltanto se il datore di lavoro versa alla gestione separata una somma pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato.

Sulle somme di partecipazione agli utili che l’associato riceve, si applicano la ritenute fiscali:
nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini di attività lavorativa si applica una ritenuta del 20%
nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini capitale (ad esempio fornisce dei macchinari, delle somme di denaro ecc) si applica una ritenuta del 12,50%.



giovedì 6 novembre 2014

Lavoro accessorio, buoni lavoro, voucher gli importi minimi


Le prestazioni di lavoro accessorio (articoli 70-73 D. Lgs. 276/2003) sono pagate con il meccanismo dei buoni (voucher). e sono le attività lavorative di natura occasionale che danno complessivamente luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi non superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare (annualmente rivalutati).

Le prestazioni possono ora essere rese in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi lavoratore (salvo alcuni limiti nel settore agricolo), mentre per quanto concerne le prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti si prevede che le attività svolte a favore di ciascun committente non possono comunque superare i 2.000 euro annui.

Il pagamento avviene attraverso 'buoni lavoro' o  detti voucher  il cui  valore netto in favore del lavoratore, è di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione, al costo di 10 euro per il datore di lavoro salvo che per il settore agricolo, dove, si fa riferimento al contratto specifico. Con i buoni lavoro vengono  garantite la copertura previdenziale presso l'INPS (pensione ) e quella assicurativa presso l'INAIL.
Il voucher per il lavoro accessorio non dà invece diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell'INPS (disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.).

La legge n. 92 del 28 giugno 2012 e successivamente la n. 99 del 9 agosto 2013 di conversione del decreto legge 28 giugno 2013, n. 76, hanno introdotto modifiche alla normativa in materia di lavoro occasionale accessorio  scrivendo in modo significativo l’art. 70 del d. lgs. n. 276/ 2003 anche attraverso la ridefinizione della natura giuridica delle prestazioni non più definite di natura “meramente occasionale” nonché intervenendo sui limiti economici per i compensi erogati a seguito delle prestazioni di lavoro accessorio per singolo prestatore.

La nuova normativa sul lavoro accessorio tramite l'utilizzo di buoni  lavoro modifica sostanzialmente il parametro di riferimento economico spostando dal committente al prestatore il  limite.

Infatti si prevede che il compenso complessivamente percepito dal prestatore non possa essere superiore nel corso di un anno solare, inteso come periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre:
- a 5.000 euro, con riferimento alla totalità dei committenti, da intendersi come importo netto per il prestatore, pari a 6.666 € lordi;
- a 2.000 euro per prestazioni svolte a favore di imprenditori commerciali o professionisti, con riferimento a ciascun committente, da intendersi come importo netto per il prestatore, pari a 2.666 € lordi;
- a 3.000 euro per i prestatori percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito che, per l’anno 2013, possono effettuare lavoro accessorio in tutti i settori produttivi compresi gli enti locali, da intendersi come importo netto per il prestatore, corrispondenti a 4000 € lordi.

Il rispetto dei limiti economici  costituisce un elemento fondamentale per la qualificazione delle prestazioni, in considerazione delle sanzioni  previste in caso di  superamento degli importi massimi.

Quindi, al fine di agevolare i committenti e i prestatori nel riscontro dei compensi riscossi nel corso dell’anno, le procedure telematiche di calcolo e di presentazione dei compensi ricevuti dal prestatore a mezzo dei voucher INPS,  sono state revisionate sviluppando anche  specifiche funzionalità  di visualizzazione di tali compensi sia da parte del committente che del prestatore.

La circolare Inps, n. 28 del febbraio 2014 prevede i nuovi importi economici  massimi da prendere a riferimento per l’anno 2014 e sono così rideterminati:
- 5.050 € netti ricevuti   dal totale dei committenti nel corso di un anno solare,
- 2.020 € netti in caso di committenti imprenditori commerciali o liberi professionisti nel corso di un anno solare.

I corrispondenti importi lordi, riferiti all’anno solare, sono pari a:
- 6.740 € per la totalità dei committenti;
- 2.690 € in caso di committenti imprenditori commerciali o liberi professionisti.


martedì 4 novembre 2014

Pensione anticipata: Opzione Donna contro INPS su contributivo donne



Con l’avvicinarsi della scadenza, molte lavoratrici riunitesi nel Comitato Opzione Donne hanno annunciato battaglia al’INPS tramite una serie di ricorsi. Intanto, in Parlamento sono approdate diverse proposte per ammorbidire l’interpretazione INPS o prorogare la misura di qualche anno.

Il Comitato Opzione donna ha promosso una Class action contro l'Inps per due sue circolari del 2012, che hanno modificato l'applicazione della legge Maroni del 2004, la quale permetteva in via sperimentale alle donne con 57 anni e 35 di contributi, di andare in pensione con il sistema retributivo fino al 2015. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio dalla presidente del Comitato, Dianella Maroni. Le circolari dell'Inps contestate dal Comitato, sono state emanate dall'istituto nel marzo del 2012, introducendo dei requisiti diversi da quelli dalla legge del 2004, che taglia fuori tutte le donne che maturano i requisiti nel 2015.

Il Comitato protesta contro questa interpretazione, che di fatto pone dei paletti a una legge dello Stato, utilizzando lo strumento della class action, chiedendo all’INPS di ritirare le due circolari del 2012 che inseriscono i limiti sopra descritti, che diffida l'Inps a riformare le due circolare entro 90 giorni.

Innanzitutto che cosa è la class action, possiamo definirla come è il procedimento disciplinato dall’art. 140-bis del Codice del consumo (d.lgs. 206 del 2005) sotto la rubrica “azione di classe” o azione giudiziaria collettiva. Il processo può essere attivato da ciascun soggetto danneggiato, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa.

Si tratta di uno strumento di tutela collettiva risarcitoria idoneo ad ottenere il risarcimento del danno subito da un gruppo di cittadini a causa dell’illecito seriale prodotto da un soggetto professionale. Tale azione si rivela particolarmente utile in tutte quelle situazioni nelle quali si controverte per importi di valore contenuto e dunque il consumatore tende generalmente a rinunciare alla difesa dei propri diritti.

Il fine e chiedere di togliere i paletti posti alla cosiddetta Opzione Donna: l’istituto di previdenza ha di fatto limitato la possibilità per le lavoratrici di ritirarsi in anticipo accettando in cambio di calcolare l’assegno previdenziale interamente con il metodo contributivo. La legge (Riforma Maroni sulle Pensioni: legge 243/2004, articolo 1, comma 9) concede questa possibilità di pensione anticipata fino a fine 2015, mentre le regole INPS la limitano al novembre per le dipendenti e a maggio per le autonome. La class action mira a risolvere la questione, aperta con le circolari INPS n.35 e n.37 del 2012.

Ricordiamo che la Riforma delle Pensioni Maroni prevedeva che le lavoratrici potessero andare in pensione a 57 anni se dipendenti e a 58 anni se autonome, in entrambi i casi con almeno 35 anni di contributi, e applicando l’adeguamento alle speranze di vita (tre mesi in più dal primo gennaio 2013). In cambio del ritiro anticipato, la lavoratrice accetta una decurtazione della pensione, che viene calcolata interamente con il metodo contributivo.

La legge prevede che quest’opzione sia esercitabile fino alla fine del 2015, ma l’INPS con le due circolari sopra citate ha inserito dei paletti, prevedendo anche che entro la fine del 2015 la lavoratrice dovesse aver maturato i requisiti per la decorrenza del trattamento pensionistico. In pratica, in questo modo ha anticipato la scadenza alla fine di maggio 2014 per le autonome e a fine novembre 2014 per le dipendenti. Questo, perché le finestre mobili prevedono appunto rispettivamente 18 e 12 mesi per ottenere l’assegno previdenziale dopo aver maturato i contributi per la pensione.

Dianella Maroni ha spiegato, in base a una tabella dell'Inps, che l'applicazione della cosiddetta Opzione Donna costa 554 milioni fino al 2019, ma che ne fa poi risparmiare 1.729 fino al 2041 (l'anno fino al quale, in base alle aspettative di vita, le beneficiarie percepirebbero l'assegno), perché le pensioni sono più basse essendo calcolate con metodo contributivo puro.

"Oltre a questo risparmio - ha osservato - c'e' anche un vantaggio sociale ed uno economico: noi donne portiamo nelle nostre famiglie un welfare naturale, e inoltre, andando in pensione, liberiamo dei posti di lavoro". Sono circa 6.000 le donne che potenziali beneficiarie di questa Opzione, molte delle quali per di più hanno ora perso il lavoro, e sono così prive di reddito.

L’opzione contributiva (legge 243/2004, articolo 1, comma 9) consente alle donne con 35 anni di contributi versati di andare in pensione anticipata a 57 anni e tre mesi di età se dipendenti e a 58 anni se autonome, rinunciando alla parte retributiva dell’assegno previdenziale (decurtazione media del 25-30%). Dopo i drammatici effetti della Riforma Fornero, le lavoratrici hanno scelto in massa questa possibilità pur di salvare il salvabile: aspettare la pensione di vecchiaia significa infatti lavorare anni in più e magari vedersi cambiare per l’ennesima volta le regole retroattivamente, con tanto di crisi alimenta che l’incertezza economica e lavorativa.

In teoria questo diritto è previsto fino al 31 dicembre 2015 ma nella pratica la situazione è più complessa. Perché? Il motivo è contenuto nella Circolare 35/2012dell’INPS, secondo la cui interpretazione della norma la data va intesa come scadenza per l’accesso alla pensione tenendo conto della finestra mobile. Quindi, contando 18 mesi + 1, per le autonome il termine è comunque scaduto ma per le dipendenti private (12 mesi + 1) si arriva a novembre e per quelle pubbliche a fine dicembre.
I requisiti per la pensione anticipata E indicizzazioni Almeno un anno di lavoro in più per le donne che inseguono la pensione di vecchiaia, mentre solo un mese in più per chi aspira alla pensione anticipata: sono i primi cambiamenti sulle pensioni dal 2014, in base ai vari scatti previsti da precedenti normative alla Legge di Stabilità, che ha introdotto anche un ritorno all’indicizzazione (parziale) per assegni tre volte sopra il minimo ed un nuovo contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro.
Innalzamento dei requisiti pensionistici delle donne (dipendenti private e lavoratrici autonome), in base alla Riforma Fornero (Legge 214/2011, il Salva Italia), con incremento a scaglioni dei requisiti per andare in pensione di vecchiaia ed equiparazione uomo-donna dal 2018. Il calendario:

2014: 63 anni e nove mesi (nel 2013 bastavano 62 anni e tre mesi) per le dipendenti private; 64 anni e nove mesi per le autonome (12 mesi in più rispetto allo scorso anno).

2016: 65 anni più l’adeguamento alle aspettative di vita per le lavoratrici del privato, 65,6 più l’adeguamento alle aspettative di vita per le autonome;

2018: 66 anni per tutti, più l’adeguamento alle aspettative di vita.


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