mercoledì 19 novembre 2014

Contestazione per licenziamento con motivazione economica



Con il termine “licenziamento” si intende l’atto unilaterale del datore di lavoro (che quindi non comporta che il lavoratore sia d’accordo) con il quale viene interrotto il rapporto di lavoro. Il licenziamento disciplinare è appunto un licenziamento che si fonda su comportamenti del lavoratore che non adempie ai propri doveri violando delle norme stabilite dalla legge, dai contratti collettivi e all’interno del codice disciplinare dell’azienda.

Il licenziamento per motivazione economica è l'atto con il quale il datore di lavoro interrompe unilateralmente (cioè senza accordo da parte del lavoratore) il rapporto di lavoro con il dipendente per motivi che non riguardano il comportamento di quest'ultimo, ma per ragioni che riguardano la riorganizzazione aziendale. Viene anche definito licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La disciplina è stata profondamente modificata dalla c.d. Riforma Fornero attuata con legge n. 92 del 2012.

Come fare per contestare il licenziamento

- se il datore di lavoro intima il licenziamento “a voce” occorre non tenerne conto e presentarsi comunque sul posto di lavoro;

- se il datore di lavoro intima il licenziamento per iscritto allora occorre esaminare le ragioni contenute nella comunicazione andando presso l'ufficio vertenze di un'associazione sindacale oppure presso lo studio di un avvocato;

- è opportuno portare con se copia della lettera di assunzione, del contratto di lavoro, una copia dell'ultima busta paga;

- entro 60 giorni dalla comunicazione del datore di lavoro va inviata una raccomandata con la quale si contestano le ragioni del licenziamento;

- entro i successivi 180 giorni, se il datore di lavoro non ritira il licenziamento, è necessario alternativamente:

depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale e richiedere una conciliazione o un arbitrato

- se il datore di lavoro non accetta di partecipare alla conciliazione è necessario presentare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni dal rifiuto;

- se il datore di lavoro accetta di partecipare alla conciliazione ma in quella sede non si trova un accordo occorre presentare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni dalla data del verbale in cui si accerta la mancata conciliazione.

Il licenziamento deve essere effettuato in forma scritta. Ciò significa che il datore di lavoro è tenuto a consegnare al lavoratore un documento nel quale viene intimato il licenziamento e che indica le ragioni della decisione dell’imprenditore.

L’indicazione delle ragioni è richiesta perché il lavoratore sia informato in merito al comportamento negligente che gli viene contestato e possa quindi replicare eventualmente negando ciò che gli viene attribuito.

Ovviamente nel caso in cui il lavoratore contesti a sua volta le motivazioni del licenziamento (ad esempio negando di avere rubato del denaro dalle casse) il datore di lavoro deve considerare le ragioni del dipendente e decidere se revocare il licenziamento oppure se confermarlo.

Contestazione del licenziamento
La legge si occupa di regolamentare i modi attraverso i quali il lavoratore licenziato senza una giusta causa o un giustificato motivo può ricorrere contro il licenziamento illegittimo, stabilendo anche delle sanzioni a carico del datore di lavoro.

Quando il lavoratore ritiene che il licenziamento sia ingiusto è tenuto ad impugnarlo entro 60 giorni. Il termine per impugnare si calcola a partire:
dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione del licenziamento (se questa contiene anche le motivazioni della decisione del datore di lavoro)
dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione dei motivi di licenziamento (se all'atto del licenziamento questi motivi non erano stati indicati).

Entro il termine di sessanta giorni, in altre parole, il lavoratore deve inviare all'imprenditore una comunicazione (in qualunque forma, anche una semplice lettera raccomandata) con la quale rende noto che intende contestare il licenziamento.

Nei successivi 180 giorni il lavoratore deve:
depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale impugnando davanti al Giudice il licenziamento
comunicare al datore di lavoro la richiesta di un tentativo di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro oppure una richiesta di arbitrato.

e questo termine non viene rispettato l'impugnazione del licenziamento non può essere presa in considerazione dal Giudice e si considera inefficace.

Se invece viene richiesta una conciliazione o un arbitrato e il datore di lavoro li rifiuta oppure, pur avendoli accettati, non si riesce a raggiungere un accordo, il lavoratore deve depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni.

Che cosa succede nel caso di licenziamento per motivazione economica illegittimo

Prima della riforma Fornero:

- il Giudice che riteneva che il licenziamento non fosse supportato da una giusta causa o da un giustificato motivo:

nelle imprese con un numero di dipendenti superiore a 15, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno e gli ordinava di riprendere presso di se il lavoratore ingiustamente licenziato
nelle imprese con un numero di dipendenti inferiore a 15, condannava il datore di lavoro a versare al lavoratore ingiustamente licenziato un indennizzo che si calcolava in base alla retribuzione mensile e all'anzianità di servizio.

Dopo la riforma Fornero

- il Giudice che ritiene il licenziamento illegittimo:

 per le imprese che occupano nell'ambito dello stesso Comune più di 15 dipendenti (5 se si tratta di imprenditore agricolo) o che complessivamente hanno più di 60 dipendenti, può soltanto condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore una indennità che va da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale dovuta al lavoratore. In questo caso però il rapporto di lavoro si interrompe comunque.

Il Giudice però può ordinare (ma non è obbligato a farlo) il reintegro del lavoratore nel proprio posto di lavoro quando le ragioni indicate dal datore di lavoro come fondamento del licenziamento sono manifestamente infondate (cioè se il torto del datore di lavoro è evidente).

A chi rivolgersi

Avvocato per i ricorsi;
Sedi Territoriali Organizzazioni Sindacali



martedì 18 novembre 2014

Congedo parentale: su base oraria, durata e indennità


Innanzitutto il congedo parentale viene completato con la normativa e le modalità di fruizione anche su base oraria, durata di astensione per dipendenti e autonomi, diritto all'indennità economica.

Come è noto, l’articolo 1, comma 339 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228 ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina del congedo parentale.

In particolare, è stabilito che il congedo parentale possa essere fruito dal genitore lavoratore avente titolo anche su base oraria, a condizione che la ‘contrattazione collettiva di settore’ [nazionale o di secondo livello abbia provveduto a definire:

le modalità di fruizione del congedo su base oraria;

i criteri di calcolo della base oraria e dell’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.

Pertanto, in carenza di una disciplina appositamente dettata dal contratto collettivo di lavoro applicato, non può essere ammessa la fruizione su base oraria del congedo parentale.

Ai fini dell’esercizio del diritto al periodo di congedo, il lavoratore deve, in osservanza delle modalità e criteri definiti dai contratti collettivi e fatti salvi casi di oggettiva impossibilità, garantire un preavviso non inferiore a 15 giorni, comunicando espressamente al datore di lavoro la data di inizio e conclusione del periodo di congedo parentale.

Infine, è stabilito che, tenuto conto di quanto eventualmente previsto dal contratto collettivo di lavoro, il lavoratore e il datore di lavoro possano, ove necessario,  concordare durante il periodo di congedo parentale adeguate misure per la ripresa dell’attività lavorativa.

Nonostante la norma sulla conciliazione lavoro e famiglia sia in vigore, l’applicazione del congedo parentale a ore in Italia è in stallo, ma per legge: “la contrattazione collettiva di settore stabilisce le modalità di fruizione del congedo di cui al comma 1 su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa”.

Spetta dunque alle associazioni di categoria portare a termine la concertazione per applicare l’opzione, ma il confronto si è arenato sull’interpretazione dell’espressione “contrattazione collettiva di settore”: il settore inteso dal Legislatore si riferisce a quello specifico produttivo o a quello generico del lavoro pubblico e privato? Il Ministero del Lavoro (rispondendo all’interpello di Cgil, Cisl e Uil n. 25 del 22 luglio 2013) ha chiarito che possono essere i contratti collettivi di 2° livello a stabilire modalità di fruizione del congedo parentale a ore, i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.

Per i dipendenti pubblici, invece, l’applicazione del congedo parentale a ore sembra lontana a causa del blocco della contrattazione collettiva nazionale, a cui tocca l’onere di stabilire le modalità di applicazione della nuova formula di congedo. Con il comunicato dell’11 ottobre 2013, la Flc Cgil ha criticato il Dipartimento della Funzione Pubblica che, contraddicendo quanto espresso dal Ministero con il citato interpello, ha negato l’applicazione del congedo a ore spiegando che per la sua applicazione “l’amministrazione dovrà attendere il recepimento attraverso il contratto collettivo di comparto o la contrattazione quadro”, negando di fatto la possibilità offerta alla contrattazione collettiva secondaria dallo stesso ministero.

In base alla norma generale di cui sopra, i genitori lavoratori dipendenti possono assentarsi dal lavoro anche contemporaneamente se hanno un figlio fino a 8 anni (anche in affido o adottivo, e comunque fino al diciottesimo anno d’età). La madre fino a 6 mesi continuati o frazionati, il padre fino a 7 mesi. Per astensioni contemporanee, l’assenza complessiva non può superare gli 11 mesi, diversamente per ogni singolo genitore si può arrivare a 10 mesi, continuati o frazionati. Per i lavoratori dipendenti, è necessario avvisare il datore di lavoro 15 giorni prima del giorno in cui si richiede il congedo, precisandone la data di inizio e fine. Le lavoratrici autonome artigiane, commercianti, coltivatrici dirette, mezzadre, colone e imprenditrici agricole a titolo principale che siano anche madri naturali, possono astenersi dal lavoro per 3 mesi durante il primo anno di vita del figlio (art. 66 e ss. del D.Lgs. 151/2001). Parimenti lavoratrici e lavoratori parasubordinati, a patto che non siano titolari di pensione o iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie.

L’indennità percepita durante il periodo di congedo è pari al 30% della retribuzione. I dipendenti possono ottenerla fino ai 3 anni del figlio e per un massimo di 6 mesi l’anno, complessivi per entrambi i genitori. Oltre i 6 mesi e fino agli 8 anni del figlio, si ha diritto all’indennità sono se il reddito annuo del genitore non sia per due volte e mezzo superiore al trattamento minimo di pensione nell’anno. Le lavoratrici autonome possono beneficiare di un’indennità pari al 30% della retribuzione convenzionale giornaliera fissata dalla legge. Le lavoratrici parasubordinate percepiscono una indennità pari al 30% del reddito percepito nei 12 mesi precedenti al congedo.



Dimissioni senza preavviso fino al compimento dell’anno di età del bambino




Il Ministero del Lavoro con l’interpello n. 28/2014 del 7 novembre 2014 ha risposto ad un quesito riguardante le dimissioni della lavoratrice madre/lavoratore padre e l’obbligo di preavviso. Viene confermato che lavoratrice madre o del lavoratore padre non sono tenuti a concedere al datore di lavoro il periodo di preavviso in caso di dimissioni presentate nel periodo in cui sussiste il divieto di licenziamento. E cioè fino al compimento di un anno di età del bambino, non fino al compimento del terzo anno come avviene per la convalida delle dimissioni.

L’articolo 54, comma 1 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 stabilisce il divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento è esteso al padre lavoratore nell’ipotesi in cui questi abbia fruito del congedo di paternità sino al compimento di un anno di vita del bambino.

In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo di vigenza del divieto di licenziamento [e cioè sino all’anno di vita del bambino], la lavoratrice e il padre lavoratore [sempre che quest’ultimo abbia fruito del congedo di paternità]:

hanno diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento;

non sono tenuti ad osservare il preavviso [articolo 55, comma 5 del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151].

Le menzionate disposizioni in ordine all’obbligo del preavviso non risultano in alcun modo modificate in ragione dell’introduzione dell’articolo 55, comma 4 del richiamato D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, che, introdotto dall’articolo 4, comma 16 della Legge 28 giugno 2012, n. 92, afferisce il solo obbligo di convalida delle dimissioni. Detta norma infatti solo stabilisce che ‘la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino […] devono essere convalidate dal Servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro’.

Giusto quanto disposto dall’articolo 4, comma 23-bis della Legge 28 giugno 2012, n. 92, l’estensione temporale al terzo anno di vita del bambino dell’obbligo di convalida trova applicazione, almeno a parere dello scrivente, anche nell’ipotesi di risoluzione di un:

 contratto di collaborazione coordinata e continuativa [anche se nella forma del ‘lavoro a progetto’];

contratto di associazione in partecipazione.

Al Ministero è stata richiesta la corretta interpretazione dell’art. 55, comma 5, D.Lgs. n. 151/2001, concernente la possibilità della lavoratrice madre o del lavoratore padre di presentare le dimissioni senza l’osservanza del preavviso sancito dall’art. 2118 c.c.. La domanda era: se la disposizione (la dimissione senza preavviso) si riferisca alle dimissioni presentate durante il primo anno di vita del bambino, ovvero a quelle comunicate al datore di lavoro entro il compimento del terzo anno.

La convalida della dimissione è fino ai primi 3 anni di vita del bambino. Il Ministero nel rispondere ricorda la normativa riguardante la convalida delle dimissioni: “L’art. 55, comma 4 del D. Lgs. n. 151 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 16, della L. n. 92/2012, stabilisce che la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante la gravidanza e dalla lavoratrice o dal lavoratore nel corso dei primi tre anni di vita del bambino, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro”.

Le modifiche della Legge Fornero (L. 92/2012) quindi hanno comportato l’estensione, da un anno ai primi tre anni di vita del bambino, del periodo in cui è necessario attivare la procedura di convalida, proprio al fine di predisporre una tutela rafforzata volta a salvaguardare la genuinità della scelta da parte della lavoratrice o del lavoratore”.

Dimissioni senza preavviso fino ad un anno di vita del bambino. Il Ministero però circoscrive la possibilità di dimettersi al primo anno (e non ai tre anni): “In ordine alla questione circa l’obbligo di preavviso nel caso di dimissioni, l’art. 55, comma 5, stabilisce che “nel caso di dimissioni di cui al presente articolo, la lavoratrice o il lavoratore non sono tenuti al preavviso”. La disposizione, sebbene faccia riferimento all’articolo 55 nel suo complesso, è evidentemente riferita all’ipotesi di “dimissioni” presentate nel periodo in cui sussiste il divieto di licenziamento e cioè fino al compimento di un anno di età del bambino. Ciò in considerazione del fatto che le modifiche relative all’estensione temporale da 1 a 3 anni, come sopra osservato, riguardano esclusivamente la procedura di convalida delle dimissioni stesse”.

Riepilogando, fino ad un anno di età del figlio,  la lavoratrice madre o il lavoratore padre possono dimettersi senza preavviso. La dimissione è soggetta convalida di dimissioni, la quale è prevista fino ai 3 anni di età del bambino. Dopo il primo anno di vita del bambino, per dimettersi è necessario concedere il periodo di preavviso. Per tutte le altre informazioni vediamo il licenziamento e la dimissione durante il primo anno di vita del bambino.

Il Ministero chiarisce, infatti, che l’estensione temporale da 1 a 3 anni, introdotta dalla Riforma
Fornero, interessa esclusivamente la procedura di convalida delle dimissioni.
Ne consegue, pertanto, che le dimissioni presentate dalla lavoratrice madre o dal lavoratore padre
(che ha usufruito del congedo di paternità):

entro il primo anno di età del bambino, devono essere convalidate e non sono soggette
all’obbligo di preavviso (anzi, la lavoratrice o il lavoratore hanno diritto alle indennità previste dalle
disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento quali, ad esempio, l’indennità
sostitutiva del preavviso);

oltre il primo anno di vita del bambino e fino al terzo anno di età, devono essere
convalidate e sono soggette al rispetto dei termini di preavviso stabiliti dal CCNL di riferimento.




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