mercoledì 11 marzo 2015

Calcolo TFR anticipato in busta paga: caso per caso



In vigore da marzo 2015 la possibilità per il lavoratore di chiedere l'anticipo del TFR in busta paga. Ecco la mini guida.

Quanto aumenta la busta paga mensile con il TFR anticipato e quanto si perde nel lungo periodo per effetto della tassazione ordinaria meno conveniente: calcoli Cgia Mestre.

Quanto aumenta la busta paga mensile con il TFR anticipato e quanto si perde nel lungo periodo per effetto della tassazione ordinaria meno conveniente: calcoli Cgia Mestre.

Il dipendente può effettuare la scelta del TFR anticipato entro settembre 2015: otterrà versamenti mensili fino al giugno 2018 sulla quota maturanda di liquidazione. La scelta può essere fatta una sola volta ed è irreversibile fino a tale data. La variabile fondamentale? Il TFR anticipato è sottoposto a tassazione ordinaria e non alla più favorevole tassazione separata prevista per la liquidazione accantonata.

Vediamo in tabella, in base ai calcoli della CGIA di Mestre, quando prendono in più ogni mese diverse tipologie di lavoratori e quanto perdono, sul lungo periodo, a causa della differenza di tassazione.

Busta paga e TFR
Operaio
Impiegato
Quadro/Dirigente
Stipendio mensile netto
1200 euro
1600 euro
3000 euro
TFR anticipato
71 euro
112 euro
214 euro
Busta paga + TFR anticipato
1271 euro
1712 euro
3214 euro
TFR lordo
106 euro
166 euro
369 euro
TFR netto accantonato
93 euro
134 euro
253 euro
Differenza TFR anticipato
e accantonato
-22 euro
-22 euro
-39 euro


Per fornire una base di calcolo utile per tutti, ricordiamo che la tassazione separata per il TFR accantonato parte dal 23% e sale con la retribuzione superando il 34% per redditi da 94mila euro. La tassazione ordinaria parte sempre dal 23%, aliquota per chi guadagna fino a 15mila euro, salendo al 27% fra i 20mila e i 25mila euro, al 38% fino a 50mila euro, al 41% fino a 75mila e infine al 43% sopra questa cifra.


Proponiamo nella seguente tabella altri calcoli, effettuati dai Consulenti del Lavoro:
Retribuzione annua
TFR anticipato mensile
TFR anticipata annuo
TFR accantonato annuo
Differenza annua
Differenza al giugno 2018
15mila euro
66 euro
798 euro
798 euro
20mila euro
85 euro
1008 euro
1058 euro
-50 euro
-167 euro
25mila euro
105 euro
1261 euro
1311 euro
-50 euro
-167 euro
35mila euro
125 euro
1499 euro
1806 euro
-307 euro
-1022 euro
50mila euro
178 euro
2141 euro
2448 euro
-307 euro
-1022 euro
75mila euro
255 euro
3057 euro
3501 euro
-444 euro
-1481 euro
95mila euro
312 euro
3740 euro
4310 euro
-570 euro
-1897 euro




Il lavoratore interessato deve presentare una domanda  all'ufficio del personale della propria azienda, che poi dovrà chiedere il via libera da parte dell'Inps. La domanda prende il nome di modello QU.I.R, che sta per Quota maturanda del Trattamento di fine rapporto come parte Integrativa della Retribuzione.


Una volta presentata la domanda, spetta alle imprese con meno di 50 dipendenti accedere ad un finanziamento bancario garantito presso un istituto (uno solo) di credito, nel caso in cui il dipendente chieda il Tfr in busta paga. L'azienda deve anche comunicare all'Inps per via telematica gli identificativi dei dipendenti che hanno fatto domanda e l'Istituto certificherà l'importo della retribuzione imponibile utile per il calcolo del Tfr utilizzando il Durc (documento unico di continuità contributiva) sulla base dei periodi di paga dei 15 mesi precedenti la domanda stessa.

Per quanto riguarda gli aspetti fiscali, il TFR anticipato in busta paga viene tassato in via ordinaria, ossia segue le regole delle imposte sui redditi. La liquidazione in busta paga deve arrivare entro il mese successivo alla domanda presentata dal lavoratore. Ma nel caso in cui l'azienda chieda l'accesso al finanziamento bancario di garanzia, il pagamento effettivo arriverà a partire dal mese successivo alla disponibilità finanziaria da parte della banca.

E’ bene ricordare che il Tfr in busta paga da marzo 2015 viene tassato con aliquota ordinaria, e non ridotta come quando viene preso alla fine del rapporto di lavoro: al netto, si registra una +22% di detrazione tutt'altro che conveniente. E ancora, anticipare l'incasso dilazionato incide negativamente sulle tabelle ANF e sulla determinazione dell'ISEE con la sola conseguenza di complicare la vita alle fasce di reddito più deboli, che altresì sarebbero dovute essere le principali beneficiarie della misura.



lunedì 9 marzo 2015

Lavoro: dipendente chi lavora fuori dalla sede principale


Il concetto di trasferta distinto dal distacco e dal trasferimento.

La trasferta presuppone che al lavoratore venga temporaneamente richiesto di prestare la propria opera in un luogo diverso da quello in cui deve abitualmente eseguirla ( si tratta della sede indicata nel contratto di lavoro quale luogo normale di svolgimento dell’attività lavorativa) anche all'estero. A tale richiesta alla quale il lavoratore in genere è tenuto a adeguarsi.

Ai fini del configurarsi della trasferta del lavoratore, è necessaria la permanenza di un legame del prestatore con l'originario luogo di lavoro. Sono invece irrilevanti la protrazione dello spostamento per un luogo periodo di tempo e anche l'eventuale la coincidenza del luogo della trasferta con quello di un successivo trasferimento, anche se disposto senza soluzione di continuità al termine della trasferta medesima.

 L’inizio della trasferta deve essere comunicata preventivamente all’Inail. La giurisprudenza prevalente indica che si debba parlare di trasferimento e non di trasferta quando il provvedimento di trasferimento momentaneo del lavoratore/ collaboratore/amministratore non indichi la data di rientro ovvero di termine della trasferta.

 Non esiste una vera e propria disciplina legale della trasferta, per cui si occupano di questa materia:

i contratti collettivi nazionali di lavoro , regolandone, in particolare, i risvolti di carattere economico,

e la giurisprudenza per i profili di diritto.

La disciplina collettiva attribuisce al lavoratore una indennità che in alcuni casi ha natura retributiva, in altri risarcitoria (o di rimborso spese), o, infine, natura “mista”. La differenza tra la natura retributiva o risarcitoria dell’indennità di trasferta non è di poco conto, dal momento che la legge - art. 51, c. 5 e 6 del D.P.R. n. 917/86 - prevede un diverso trattamento fiscale e contributivo da applicare alle somme corrisposte ai lavoratori inviati in trasferta, a seconda che si tratti di compensi o rimborsi spese.

 Altra categoria sono i Trasfertisti che si differenziano dai lavoratori inviati in trasferta a seguito di una singola e contingente decisione del datore di lavoro . I trasfertisti sono i lavoratori la cui prestazione è, per sua natura, itinerante, e per i quali si può dire che non vi sia neppure un normale luogo di lavoro, intendendosi come tale un luogo in cui di norma si svolge la prestazione. La distinzione è fondamentale, dal momento che per questi ultimi la contrattazione collettiva prevede di solito la corresponsione di uno speciale emolumento, che ha la funzione di “rappresentare il corrispondente aspetto strutturale della retribuzione, in quanto diretto a compensare il particolare disagio e la gravosità connessi alla prestazione”, e che, pertanto, “ha natura retributiva”.

In assenza di normativa contrattuale la giurisprudenza decide in materia di licenziamento per rifiuto del lavoratore alla trasferta.

Si; sul diritto del lavoratore di rifiutare una trasferta, secondo la giurisprudenza prevalente, in assenza di una normativa specifica , il potere del datore di lavoro di inviare il lavoratore in trasferta “prescinde dall’espressa disponibilità da parte del lavoratore, e dal fatto che, nel luogo di assegnazione, il lavoratore svolga mansioni identiche a quelle espletate presso l’abituale sede di lavoro”.

Inoltre, va ricordato che la giurisprudenza considera il rifiuto della trasferta come un atto di insubordinazione del lavoratore, cui può conseguire il licenziamento: si segnala, sul punto, quanto affermato da una pronuncia della Pretura di Milano (Pret. Milano 30 marzo 1999; analogamente in Trib. Milano 26 marzo 1994), che ha ritenuto “legittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuti la disposizione aziendale di recarsi in trasferta per un periodo di 4 mesi; tali legittimità, peraltro, esige – non potendo essere applicabile alla trasferta la norma di cui all’art. 2103 c.c. – una verifica della fondatezza delle esigenze che sono alla base di una decisione aziendale che ha immediati effetti anche sulla vita di relazione del lavoratore”.

E’, dunque, dannoso che un lavoratore, in assenza di una sentenza del giudice che ne accerti la illegittimità, rifiuti di dare esecuzione al provvedimento di trasferta.

La trasferta è uno spostamento temporaneo del lavoratore in una località diversa da quella contrattuale, per esigenze aziendali transitorie e contingenti: il contratto non subisce modifiche, ed al lavoratore possono essere riconosciute indennità e rimborso spese. Dal punto di vista fiscale, è regolamentata dall’art. 51, co. 5, D.P.R. 917/1986 (Tuir):

l’indennità forfettaria non fa reddito imponibile fino a 46,48 euro giornalieri se la trasferta è entro il territorio nazionale e fino a 77,47 euro se all’estero, al netto delle spese di viaggio e trasporto;

il rimborso spese analitico per vitto, alloggio, viaggio, trasporto, ecc. non concorre a formare reddito fino a 15,49 euro giornalieri su territorio nazionale e 25,82 euro all’estero;
il rimborso misto (analitico delle spese + indennità di trasferta) prevede la riduzione di 1/3 per

l’indennità forfettaria in caso di rimborso spese di alloggio o vitto e di 2/3 in caso di rimborso spese di entrambe le voci.

Distacco con residenza in Italia
Il lavoratore sarà soggetto alla tassazione italiana. La base imponibile è determinata dall'indennità di trasferimento, prima sistemazione ed equipollenti e dagli assegni di sede e di altre indennità percepite per servizi prestati all'estero.

Le prime voci elencate godono, per il primo anno, di un regime speciale in occasione del trasferimento dalla sede di lavoro e non concorrono alla formazione del reddito imponibile per il 50% fino a 1.549,37 euro per i trasferimenti in Italia e 4.648,11 euro per quelli da o verso l’estero. Se il dipendente ottiene altre indennità per servizi svolti all'estero e percepiti per compensare il disagio del dipendente, può accedere a un regime agevolato secondo cui l’indennità concorre alla formazione della base imponibile per il 50% dell’ammontare.

Se la permanenza all’estero supera 183 giorni in 12 mesi con requisiti di continuità ed esclusività, la retribuzione del lavoratore è definita a partire dalle retribuzioni convenzionali indicate ogni anno da un decreto interministeriale del ministero del Lavoro a dell’Economia.

Distacco con residenza fuori Italia
I redditi prodotti fuori dall’Italia non concorrono a costituire la base imponibile. Dal punto di vista previdenziale, i contributi vanno pagati differentemente se il Paese estero ha o meno un accordo con l’Italia circa la sicurezza sociale. In caso affermativo la base imponibile previdenziale si calcola seguendo i co. da 1 a 8, art. 15, Tuir, in caso negativo si calcolano in base alle retribuzioni convenzionali, come previsto dalla L. 398/1987.



mercoledì 4 marzo 2015

Pause dal videoterminale, le mansioni alternative



Il datore di lavoro può sostituire le pause obbligatorie dal videoterminale prescritte dalle norme sulla sicurezza sul lavoro con mansioni alternative senza uso del PC: la sentenza della Cassazione.

Il datore di lavoro può sostituire le pause dal videoterminale, obbligatorie per i dipendenti che trascorrono continuativamente tempo davanti al PC, con mansioni differenti che non prevedano l’uso del computer: lo ha stabilito una sentenza di Cassazione, la numero 2679 dell’11 febbraio 2015, riferita al caso di una dipendente di Telecom Italia. Il punto è il rispetto delle normative sulla sicurezza sul lavoro, che prescrivono una pausa di un quarto d’ora ogni 120 minuti (due ore) passati davanti al PC.

L’azienda non aveva riconosciuto queste pause, perché di fatto la dipendente oltre alle mansioni che prevedevano la permanenza davanti al videoterminale, aveva anche compiti di back-office, di tipo amministrativo, che non richiedevano l’utilizzo del PC. La sentenza di primo grado aveva dato ragione alla lavoratrice, stabilendo un indennizzo di circa 4mila euro, così l’azienda ha presentato ricorso. Va segnalato che la vicenda si riferisce alla fine degli anni ’90 e, dunque, la legge di riferimento per quanto riguarda i lavori davanti al videoterminale è l’articolo 54 del Dlgs 626/1994 (oggi sostituito dall’articolo 175 del Dlgs, decreto legislativo, 81/2008). Ebbene, la “vecchia” 626, prevedeva che il lavoratore che svolgeva la sua attività al PC per almeno quattro ore consecutive avesse diritto a un’interruzione «mediante pause ovvero cambiamento di attività».

Modalità da stabilire dalla contrattazione collettiva o aziendale. In mancanza di accordi contrattuali, la norma prescriveva una pausa di 15 minuti ogni 120 trascorsi al videoterminale (come prevede anche la nuova legge). Comunque sia, il punto fondamentale è l’esplicito riferimento alla possibilità di sostituire le pause con diverse mansioni, che rappresentassero un cambiamento di attività.

La Corte, si legge nella sentenza:

«Ha accertato che nella fattispecie non sussisteva la continuità dell’applicazione al videoterminale e che, peraltro, lo svolgimento, seppur in maniera minore, dell’attività amministrativa nella stessa giornata comportava un cambiamento di attività, idonea a integrare la prevista interruzione».

Risultato: la Corte di Cassazione ha dato ragione all’azienda. Il precedente è importante, perché sancisce appunto che una diversa mansione, che non preveda l’uso del PC, possa essere considerata alla stregua delle pause.

Si tratta di un punto sul quale la vecchia e la nuova normativa sono relativamente simili, nel senso che anche il copra citato articolo 175 della legge 81/2008 prevede per il lavoratore il diritto «ad una interruzione della sua attività mediante pause ovvero cambiamento di attività».

Le modalità delle interruzioni devono essere stabilite dai contratti di lavoro e in caso contrario vale la pausa di 15 minuti ogni due ore davanti al PC. Sottolineiamo che nei tempi di interruzione non sono compresi quelli di attesa della risposta da parte del sistema elettronico (considerati, a tutti gli effetti, tempo di lavoro) e che la pausa è considerata parte integrante dell’orario di lavoro e, come tale, non è riassorbibile all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro.



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