domenica 9 ottobre 2016

Che cosa si intende per distacco del lavoratore?



Il distacco del lavoratore, disciplinato dall'art. 30 del D. Lgs. 276/03, consiste in un provvedimento organizzativo con il quale il datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa.

Il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore e, in termini generali, non è subordinato all’indicazione di specifiche ragioni o al consenso del lavoratore distaccato.

Tuttavia occorre considerare che:

il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato;

il distacco che comporti un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

Per potere ricorrere all'istituto del distacco deve esistere un interesse produttivo temporaneo del datore di lavoro distaccante che deve permanere per tutto il periodo di durata del distacco.

Il concetto di interesse è molto ampio, per cui il distacco è legittimato da qualsiasi interesse produttivo del distaccante

Il distacco rientra nel potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro e non necessita di condizioni e requisiti, tranne che nelle due seguenti ipotesi :

è necessario il consenso del lavoratore nel caso in cui, durante il periodo del distacco, debba svolgere mansioni diverse, sebbene equivalenti, rispetto a quelle per cui è stato assunto.

Se il distacco comporta lo svolgimento della prestazione lavorativa presso una unità lavorativa che dista oltre 50 km da quella originaria, deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive.

Nell’ipotesi di distacco, il lavoratore potrà svolgere la sua prestazione anche parzialmente presso il distaccatario, continuando a svolgere presso il distaccante la restante parte della prestazione.

Il datore di lavoro può:
sostituire il lavoratore distaccato con un altro lavoratore assunto a tempo determinato;

richiedere al soggetto presso cui il lavoratore è distaccato un rimborso delle spese sostenute a seguito del distacco (rimborso che non può superare il costo effettivamente sostenuto).

La legge qualifica come distacco l’ipotesi in cui un datore di lavoro (detto distaccante), per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto (distaccatario) per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa pur rimanendo direttamente responsabile del trattamento economico e normativo a favore del o dei lavoratori.

I requisiti del distacco sono dunque:
a) l’esistenza di uno specifico interesse del datore di lavoro distaccante che deve sussistere per tutta la durata del distacco e che comunque non può essere solamente rappresentato dal fatto di percepire un corrispettivo per la messa a disposizione del lavoratore;
b) la temporaneità del distacco, ovvero che questo duri per il tempo in cui persista il predetto interesse. Se manca uno di questi due requisiti, il lavoratore interessato può ottenere l’imputazione del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore.

Il decreto legislativo 276/2003 ha poi introdotto due nuove regole:

a) il distacco che comporti un mutamento delle mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato;

b) il distacco che comporti un trasferimento ad unità produttiva sita a più di 50 km da quella di provenienza deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

In questa ipotesi, come precisato anche dal Ministero del lavoro nella propria Circolare ministeriale del 29 agosto 2013, n. 35, l’interesse al distacco da parte del distaccante non deve essere accertato ma si presume connesso e pertanto sorge automaticamente, proprio in forza dell’operare della rete.

La circolare n. 3/2004 del Ministero del Lavoro ha stabilito che il concetto di temporaneità coincide con quello di non definibilità, pertanto non sono stati stabiliti dei tempi massimi di durata del distacco, la durata del distacco dipende dalla persistenza dell’interesse del distaccante.

Non si applica nell’ipotesi del distacco, per sua natura temporaneo, la disciplina del trasferimento.

Per quanto sopra riportato, viene legittimata la prassi di "distacco all’interno dei gruppi di impresa". Il trattamento economico e normativo rimane a carico del datore di lavoro distaccante. La contribuzione INAIL è calcolata con riferimento alla tariffa e ai premi del soggetto presso cui il lavoratore è distaccato. Il distacco va poi distinto dalla somministrazione. La differenza è solo nel tipo di interesse del distaccante che viene soddisfatto tramite i due istituti.

I requisiti di legittimità sono:

l’interesse del distaccante: come precisato dal Ministero del lavoro con Circolare n. 28/2005, deve essere specifico, rilevante, concreto e persistente, da accertare caso per caso, in base alla natura dell’attività espletata e non semplicemente in relazione all’oggetto sociale dell’impresa. Può trattarsi di qualsiasi interesse produttivo del distaccante, anche di carattere non economico, che tuttavia non può mai coincidere con l’interesse lucrativo connesso alla mera somministrazione di lavoro;

la temporaneità del distacco: il distacco deve essere necessariamente temporaneo. Tale previsione non incide sulla durata del distacco, breve o lunga che sia, ma sul presupposto che, qualunque sia la durata del distacco, non può trattarsi di passaggio definitivo;

lo svolgimento di una determinata attività lavorativa: il lavoratore distaccato deve essere adibito ad attività specifiche e funzionali al soddisfacimento dell’interesse proprio del distaccante. Ne consegue che il provvedimento di distacco non può risolversi in una messa a disposizione del proprio personale in maniera generica e, quindi, senza predeterminazione di mansioni.

In assenza di tali requisiti di legittimità, il lavoratore interessato può fare ricorso in giudizio per la costituzione di un rapporto di lavoro con il soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, cioè il datore di lavoro presso cui è stato distaccato.

Gli oneri relativi al trattamento economico e normativo del lavoratore rimangono a carico dell’effettivo datore di lavoro, tuttavia appare oramai pacificamente ammessa la possibilità di un “ribaltamento” dei costi sostenuti per il lavoratore dal distaccante sul distaccatario. Il rimborso al distaccante della spesa del trattamento economico non ha alcuna rilevanza ai fini della qualificazione del distacco genuino nelle ipotesi in cui non ecceda il costo sostenuto dal distaccante per il lavoratore, in caso contrario, invece, possono porsi delle criticità sia dal punto di vista giuslavoristico che fiscale.

Il Ministero del lavoro, con l’interpello n. 1/2011, ha altresì precisato che il distacco è ammissibile anche quando lo svolgimento della prestazione lavorativa avvenga in un luogo diverso dalla sede del distaccatario. Infatti, a tal fine, viene rimarcato come nonostante la dislocazione del lavoratore presso la sede del distaccatario rappresenti l’ipotesi per così dire ordinaria, tale requisito non costituisce un elemento indispensabile per il corretto utilizzo dell’istituto.



sabato 8 ottobre 2016

Licenziamenti illegittimi nella pubblica amministrazione niente risarcimento, solo reintegra



La Corte di cassazione, con la sentenza n. 20056 del 2016, torna di nuovo sulla questione dei licenziamenti illegittimi nella pubblica amministrazione, stabilendo che si applica anche a questi il regime di tutela reale previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella sua formulazione precedente alle modifiche di cui alla legge n. 92/2012.

Ad avviso della Corte ai licenziamenti di cui sia stata dichiarata l’illegittimità nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico si applica il regime di tutela reale previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 92/2012.

È di pochi giorni fa una sentenza di segno opposto della stessa Corte, nella quale è stato affermato che anche ai dipendenti della pubblica amministrazione si applica il regime di tutela introdotto dall’articolo 1 della legge 92/2012 di riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in forza del quale la tutela reintegratoria, a seconda che il giudice abbia accertato la sussistenza o la insussistenza del fatto alla base del licenziamento, può risultare alternativa alla tutela risarcitoria in ipotesi di recesso datoriale illegittimo.

Con la sentenza la Cassazione ritorna sulle argomentazioni sviluppate in un proprio recente indirizzo, secondo il quale le modifiche apportate dalla legge 92/2012 non potranno automaticamente essere estese ai dipendenti della pubblica amministrazione sino a un intervento di armonizzazione del ministero per le Semplificazione e la Pubblica amministrazione, così come previsto dall’articolo 1, commi 7 e 8, della medesima legge Fornero.

I fautori dell’indirizzo contrario hanno fondato l’estensione dell’articolo 18 post Fornero, tra gli altri rilievi, sul presupposto che l’articolo 51, comma 2 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego) prevede espressamente l’applicazione della legge 300/1970, e successive modificazioni e integrazioni, ragion per cui esisterebbe un preciso riferimento nella legislazione primaria circa l’immediata precettività dell’articolo 18 nella versione dopo le modifiche della legge 92/2012.

Con la sentenza n. 20056 del 2016, la Cassazione dichiara di non condividere questa lettura, ritenendo che il riferimento dell’articolo 51, comma 2 del Testo unico alla legge 300/1970 sia da interpretare non come rinvio mobile, ovvero alla disciplina statutaria tempo per tempo vigente, bensì come rinvio fisso a una fonte di legge cristallizzata alla data in cui è stata introdotta.

La Corte riconosce che tale interpretazione comporta il permanere di una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura, privata o pubblica, dei rapporti di lavoro coinvolti, ma respinge con nettezza ogni sospetto di incostituzionalità. Rileva la Corte, a questo proposito, che il lavoro privato e il lavoro pubblico, sebbene contrattualizzato, sono caratterizzati da una obiettiva diversità, in quanto nel comparto pubblico è presente, diversamente dal privato, la necessità di far prevalere la tutela dell’interesse collettivo al buon funzionamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.

Rispetto a questa esigenza, ad avviso della Cassazione, la sanzione reintegratoria è l’unico strumento di rimedio a fronte di un licenziamento illegittimo, laddove la sola tutela risarcitoria mediante riconoscimento di un indennizzo economico non è idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato all’interesse collettivo.

Ai licenziamenti nel pubblico impiego si applica l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E non la legge Fornero. La Corte di Cassazione ha affermato - con la sentenza n. 11868 della sezione Lavoro - che il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla “legge Fornero”, bensì dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Così recita la sentenza: «Non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni», sino ad un «intervento normativo di armonizzazione», le modifiche apportate all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

La Cassazione interviene su una questione da tempo dibattuta su cui ci sono state anche sentenze di diverso orientamento ma il Governo, con il ministro della Pa Marianna Madia, ha sempre tenuto a precisare come l'articolo 18 per gli statali non è stato cambiato né dalla legge Fornero, prima, né dal Jobs act, dopo.

Per il pubblico impiego le garanzie sarebbero quindi intatte, con la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa. Un trattamento diverso rispetto ai lavoratori privati, sostiene il ministero, perché è diversa la natura del datore di lavoro. Per mettere fine a possibili diverse interpretazioni il governo resta dell'idea di intervenire, da quanto si apprende, con una norma che chiarisca l'esclusione dei dipendenti pubblici dalle nuove regole. La precisazione dovrebbe trovare spazio nel testo unico del pubblico impiego, in attuazione della riforma della P.A.

Per il pubblico impiego le garanzie sarebbero quindi intatte, con la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa. Un trattamento diverso rispetto ai lavoratori privati, sostiene il ministero, perché è diversa la natura del datore di lavoro. Per mettere fine a possibili diverse interpretazioni il governo resta dell'idea di intervenire, da quanto si apprende, con una norma che chiarisca l'esclusione dei dipendenti pubblici dalle nuove regole.

Ai rapporti di lavoro disciplinati dal decreto legislativo n.165 del 2001, art.2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge 28.6.2012 n.92 all'art.18 della legge n.300 del 1970, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata legge n.92 del 2012 resta quella prevista dall'art.18 della legge n.300 del 1970 nel testo antecedente alla riforma”: è questo il principio di diritto fissato dalla Suprema corte nella sentenza 11868 depositata oggi, con cui esclude che la riforma Fornero si possa applicare al pubblico impiego.

Quindi anche ai dipendenti della pubblica amministrazione si applica il regime di tutela introdotto dall'articolo 1 della legge 92/2012 di riforma dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in forza del quale la tutela reintegratoria, a seconda che il giudice abbia accertato la sussistenza o la insussistenza del fatto alla base del licenziamento, può risultare alternativa alla tutela risarcitoria in ipotesi di recesso datoriale illegittimo.

Prosegue, dunque, il contrasto della giurisprudenza di legittimità sulla applicabilità al pubblico impiego contrattualizzato delle modifiche introdotte dalla legge Fornero con riferimento agli effetti sanzionatori del licenziamento invalido.




giovedì 29 settembre 2016

Jobs Act: obbligo assunzione categorie protette



La legge obbliga i datori di lavoro ad assumere una determinata quota di lavoratori iscritti alle categorie protette. Con questa legge lo Stato italiano ha voluto promuovere l'inserimento nel mondo lavorativo delle persone disabili e delle altre persone a cui la legge riconosce una condizione di svantaggio.

A partire dal 1° gennaio 2017, per effetto del Jobs Act che ha di fatto modificato la Legge 68/99 al fine di favorire l'inserimento di persone con disabilità fisica o psichica che rischiano di essere escluse dal mondo del lavoro, è stato disposto per le aziende l'obbligo di assumere una certa quota di lavoratori disabili.

Chiamata nominativa

Un’altra novità riguarda la c.d. chiamata nominativa, ovvero il datore di lavoro che individua ed assume autonomamente la persona disabile non può ricorrere all’assunzione diretta, dovendo accedere sempre dalle apposite liste di collocamento mirato. Anche le aziende che hanno alle proprie dipendenze un numero di lavoratori compreso tra 36 e 50 potranno procedere alle nuove assunzioni mediante chiamata nominativa.

Datori di lavoro esonerati

Sono esonerati dall'obbligo di assumere un lavoratore disabile le aziende con addetti impegnati in lavorazioni che comportino un’esposizione al rischio con tasso di premio INAIL pari o superiore al 60 per mille.

Incentivi

Semplificato invece il procedimento per il riconoscimento degli incentivi previsti per i datori di lavoro che assumono persone con disabilità che consistono nell’erogazione del 70% o del 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, a seconda del grado di riduzione della capacità lavorativa, per un periodo di 36 mesi se l’assunzione è a tempo indeterminato, 60 mesi, in caso di assunzioni di persone con disabilità intellettiva e psichica (sia a tempo indeterminato, sia determinato ma superiore a 12 mesi). L’incentivo, viene corrisposto al datore di lavoro unicamente mediante conguaglio nelle denunce UNIEMENS ed è riconosciuto dall’INPS sulla base delle effettive disponibilità di risorse e secondo l’ordine di presentazione delle domande.

Nello specifico, tutte le aziende che occupano più di 14 dipendenti, sono obbligate a riservare una quota destinata agli invalidi civili con percentuale di invalidità dal 46 al 100%, invalidi del lavoro con percentuale di invalidità superiore al 33%, gli invalidi per servizio, invalidi di guerra e civili di guerra con minorazioni dalla prima all’ottava categoria, i non vedenti e i sordomuti; categorie protette: profughi italiani, orfani e vedove/i di deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio ed equiparati (sono equiparati alle vedove/i e agli orfani i coniugi e i figli di grandi invalidi del lavoro dichiarati incollocabili, dei grandi invalidi per servizio o di guerra con pensione di prima categoria), vittime del dovere, del terrorismo e della criminalità organizzata.

Nel dettaglio i datori di lavoro che impiegano un numero di dipendenti:

dai 15 ai 35, sono obbligati ad assumere un disabile. L'obbligo si applica solo in caso di nuove assunzioni fino al 31 dicembre 2016;

dai 36 ai 50, devono assumere 2 disabili;

oltre i 50, devono riservare il 7% dei posti a favore dei disabili più l’1% a favore dei familiari degli invalidi e dei profughi rimpatriati.

Nella quota disabili rientrano anche i dipendenti che hanno una ridotta capacità lavorativa pari al 60%.

I datori di lavoro presentano la richiesta di assunzione entro sessanta giorni dal momento in cui sono obbligati all’assunzione. I lavoratori già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite il collocamento obbligatorio, sono computati nella quota di riserva ma devono avere una riduzione della capacità lavorativa superiore al 60 per cento oppure superiore al 45 per cento nel caso di disabilità intellettiva e psichica.

La determinazione del numero dei soggetti disabili da assumere è data dal computo, tra i dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato.

Con l’entrata in vigore delle norme decreto legislativo correttivo del Jobs Act, con riferimento al collocamento obbligatorio, in caso di mancata assunzione di disabili quelle che rischiano le aziende sono delle sanzioni molto salate.

In particolare, il datore di lavoro che non abbia coperto, per cause imputabili all’azienda, le quote di assunzione obbligatorie sarà soggetto ad una sanzione amministrativa pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo, equivalente ad euro 153,20 per ogni giorno lavorativo di mancata copertura della quota d’obbligo e per ciascun disabile non assunto.

Il datore di lavoro è tenuto al versamento di tale sanzione amministrativa trascorsi sessanta giorni dalla data in cui insorge l’obbligo di assumere soggetti appartenenti alle categorie protette.

In caso di violazione relativa alla mancata copertura della quota d’obbligo, si applica inoltre una procedura di diffida che prevede la presentazione di una richiesta di assunzione o la stipula di un contratto di lavoro con persona avviata dagli uffici competenti. Ottemperando alla diffida il datore di lavoro potrà sanare la propria posizione mediante versamento di una sanzione pari ad euro 38,30.

Le aziende per calcolare il numero di disabili da assumere obbligatoriamente devono fare il computo tra i dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato.

Nel suddetto calcolo non vanno ricompresi: i lavoratori a tempo determinato con durata inferiore a 6 mesi, i disabili, i soci di cooperative di produzione e lavoro, dirigenti, lavoratori con contratto di inserimento e con somministrazione presso l'utilizzatore, fatta eccezione di quanto disposto dall'articolo 34, comma 3 del Decreto Legislativo n.81/2015, lavoratori che svolgono l'attività all'estero, lavoratori socialmente utili, a domicilio, aderenti al programma di emersione, apprendisti, con contratto formazione-lavoro e di reinserimento. Possono invece essere calcolati nella quota di riserva, invece, i lavoratori già disabili prima dell'assunzione ed assunti anche senza collocamento obbligatorio, ma solo se la loro riduzione della capacità lavorativa, è superiore al 60%, oppure, superiore al 45% in caso di disabilità intellettiva e psichica.





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