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venerdì 28 settembre 2018

Jobs act: la Corte costituzionale boccia i criteri sui licenziamenti



Per i licenziamenti illegittimi sarà a discrezione del giudice. È questo l’effetto immediato della sentenza della Consulta che ha ritenuto irragionevole che la misura dell'indennità sia calcolata automaticamente in base alla sola durata del rapporto.

La Consulta ha esaminato il decreto legislativo 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti- il Jobs Act, appunto - e ha bocciato alcune disposizioni contenute nell'articolo 3, comma 1: in particolare, la norma che determina in modo rigido l'indennità che spetta al lavoratore licenziato in modo ingiustificato. Norma che non è stata modificata dal successivo decreto legge n.87/2018 (il cosiddetto Decreto dignità). In sostanza il Jobs Act prevede per il lavoratore licenziato in modo ingiusto, salvo alcuni casi, un'indennità e dunque un risarcimento di due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità, entro un limite minimo di 4 mesi di stipendio e massimo di 24 mesi. Se per esempio fosse stato giudicato illegittimo un licenziamento di un lavoratore a tutele crescenti con 4 anni di servizio, questi avrebbe ricevuto un risarcimento di 8 mesi di stipendio. Il Decreto Dignità, approvato ad agosto, ha modificato solo una parte dell'articolo 3: è stato rialzato il limite minimo e massimo dei risarcimenti rispettivamente a 6 e a 36 mesi. L'impianto generale, però, non è stato cambiato: dunque l'indennità resta legata all'anzianità di servizio.

Secondo la Corte, la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è “contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro” sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni sollevate relative ai licenziamenti, invece, sono state dichiarate inammissibili o infondate. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.

Le nuove tutele crescenti, in vigore dal 7 marzo 2015, hanno marginalizzato la reintegrazione, sostituendola nei licenziamenti economici e in parte disciplinari, con indennizzi monetari crescenti in base all'anzianità di servizio del lavoratore. Oggi, a seguito delle modifiche operate dal decreto Conte di metà luglio, gli indennizzi oscillano da 6 (minimo) a 36 (massimo) mensilità. La scelta del Legislatore del 2015 era quella di fornire certezza sui costi di separazione, sia per le aziende sia per gli stessi lavoratori.

Per la Consulta, con il dispositivo pubblicato, non è in discussione il meccanismo di ristoro economico al posto della tutela reale. Cioè, le tutele crescenti continuano a esistere. A violare la costituzione è piuttosto la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità aziendale. Questa previsione, secondo i giudici di legittimità, contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e uguaglianza, e, anche, con il diritto e la tutela del lavoro.

Cosa cambierà in pratica? Secondo esperti e giuslavoristi ci sarà il rischio di una ripresa del contenzione nei tribunali del lavoro.

«L’impianto del Jobs act è confermato – spiega il giuslavorista Giampiero Falasca – ma annulla il criterio di quantificazione del risarcimento escludendo che possa legarsi solo all'anzianità lavorativa. Il giudice quindi potrà decidere caso per caso». Fatto salvo comunque il limite minimo di 6 mesi e il massimo di 36 mesi, due soglie ritoccate al rialzo la decreto dignità di questa estate. Prima infatti la forchetta era tra 4 e 24 mensilità.

Sulla stessa lunghezza d’onda Pietro Ichino che ha twittato: «L’effetto pratico sarà un aumento dell’alea del giudizio, quindi del contenzioso giudiziale (i grandi beneficati sono gli avvocati). Ma è probabile che i giudici finiscano col non discostarsi molto dal criterio stabilito dalla legge».

Ovvero cambia l’indennità di risarcimento sui licenziamenti illegittimi per motivi disciplinari ed economici nelle aziende con più di 15 dipendenti. Il giudice non dovrà più stabilirla in base agli anni di servizio, come dice la legge, ma, fermi restando i limiti minimi e massimi dell’indennità (6-36 mesi di stipendio), deciderà il risarcimento al lavoratore valutando la gravità del singolo caso. Per esempio, un dipendente licenziato in modo pretestuoso e che abbia carichi familiari gravosi (figli disabili, genitori anziani, ecc.) potrebbe vedersi riconosciuto un indennizzo pari a 36 mesi di stipendio anche se assunto da poco, contro i 6 mesi cui avrebbe diritto secondo le norme finora vigenti.





venerdì 9 febbraio 2018

Legge n. 104: i permessi non sono ferie



L'azienda non può togliere dalle ferie i permessi 104 di chi assiste familiari con handicap, a differenza dei congedi parentali: sentenza di Cassazione, ovvero niente decurtazione dalle ferie dei giorni di permesso chiesti dal dipendente per assistere, ai sensi della legge 104, un familiare affetto da handicap.

I permessi per chi presta cure e assistenza ai familiari con handicap grave e previsti dalla legge 104/1992 non possono essere scalati dalle ferie a meno che non si sommino a periodi di congedo parentale: lo ha chiarito la Corte di Cassazione. In materia di permessi 104, la Cassazione ha di recente definito che chi si prende cura del familiare disabile non ha l’obbligo di fornire un’assistenza continuativa; in più, non è necessario che l’assistenza coincida con gli orari del lavoro. L’importante è dedicare la parte prevalente della giornata al familiare disabile, ma ciò non toglie che si possa anche approfittare per fare la spesa o – perché no – di sdraiarsi sul divano e riposarti. La ragione è presto detta: chi si prende in carico l’assistenza di un portatore di handicap è più “usurato” e impegnato dei colleghi di lavoro i quali, invece, dopo l’orario di servizio, possono dedicarsi ai loro svaghi. Ad avviso della Cassazione, l’assistenza al familiare disabile va inquadrata come un’attività pensate e onerosa, ma anche avente una funzione sociale che è quella della cura dei disabili, tutelata dalla stessa Costituzione. Così come tutelato dalla stessa Costituzione è il diritto alle ferie. Si parla quindi di due diritti sacrosanti che non possono essere calpestati. Proprio per tale ragione è giusto pretendere che anche i giorni di permesso ai sensi della legge 104 siano da considerare come normali giorni di lavoro e, come tali, computabili ai fini della maturazione delle ferie.

Si tratta di permessi retribuiti e coperti da contribuzione figurativa, riconosciuti a coniuge, parenti e affini entro il secondo grado, oppure entro il terzo grado se i genitori o il coniuge della persone con handicap grave hanno più di 65 anni, oppure siano affetti da patologie invalidanti o siano mancanti. Prevedono la possibilità di assentarsi dal lavoro per tre giorni al mese anche in via continuativa. La Corte chiarisce che questi tre giorni di permesso mensile non possono in alcun modo essere sottratti alle ferie.

Diverso è il caso dei congedi parentali ordinari e di quelli per malattia del figlio di età inferiore a tre anni previsti dalla legge 151/2011: questi congedi possono determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa, che giustifica un diverso trattamento.

I permessi di tre giorni previsti per i portatori di handicap, fra l’altro: si inseriscono nell’ambito della tutela dei disabili predisposta dalla normativa interna (in primis, dagli articoli 2, 3, e 38 della Costituzione) e internazionale.

Ad esempio la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 18/2009.

La Convenzione ONU, prosegue la sentenza:

prevede il sostegno e la protezione da parte della società e degli Stati non solo per i disabili, ma anche per le loro famiglie, ritenute strumento indispensabile per contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità.

Quindi, l’interpretazione della norma a favore di chi assiste familiari deve evitare:

che l’aggravio dei congiunti di portatori di handicap nella fruizione dei permessi possa vanificare le esigenze di tutela» e «scongiurare qualsiasi incidenza negativa sull’utilizzo dei permessi medesimi.

Non è quindi legittimo decurtare dalle ferie i giorni di permesso chiesti dal dipendente per assistere, ai sensi della legge “104”, un familiare affetto da handicap.

Del resto, non calcolare i giorni di permesso della 104 ai fini delle ferie significa discriminare i dipendenti che hanno la sfortuna di avere un familiare disabile con quelli che invece non ce l’hanno: i primi, infatti, oltre a dover rinunciare a una parte delle ferie, sono soggetti tre volte al mese a una cura e assistenza tutt’altro che leggera.

Resta ferma la non commutabilità dei permessi quando debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario – che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa – e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un’indennità inferiore alla retribuzione normale.


giovedì 27 aprile 2017

A chi spetta individuare il periodo di ferie



Il lavoratore dipendente è libero di scegliere le modalità e le località per usufruire di un periodo di ferie che ritenga più utili. E la sua reperibilità può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio, ma non già del lavoratore in ferie.


Il Codice Civile, all’art. 2109: “Il prestatore di lavoro ha … anche diritto … ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità”, contempla i seguenti tre principi:

le modalità di fruizione delle ferie sono stabilite dall’imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro;

la durata delle ferie è stabilita dai contratti collettivi;

l'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie;

il periodo di preavviso non può essere computato nelle ferie;

i contratti collettivi possono prevedere periodi di ferie ulteriori a quello legale. Questi periodi possono essere fruiti in base a quanto esplicitato dal contratto collettivo e, quindi, in astratto, anche successivamente al 18° mese dalla maturazione;

il mancato riconoscimento del periodo di ferie, nei limiti della previsione legale, comporta una sanzione amministrativa pecuniaria, in capo al datore di lavoro, da Euro 100 ad Euro 600; se, invece, la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata in almeno due anni, la sanzione è da Euro 400 ad Euro 1.500; infine, se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero si è verificata in almeno quattro anni, la sanzione amministrativa pecuniaria è da Euro 800 ad Euro 4.500 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.

Secondo la giurisprudenza, l’individuazione del periodo feriale deve tener conto dei due interessi contrapposti, quello del lavoratore a fruire di un periodo di riposo sufficiente a reintegrare le energie perdute lavorando, e quello del datore di lavoro al buon funzionamento dell’azienda. Più precisamente, si ritiene che la scelta del periodo feriale sia idonea a salvaguardare l’indicato interesse dal lavoratore alla sola condizione che il numero delle giornate di ferie sia congruo: pertanto, mentre – per esempio – non sarebbe idoneo allo scopo imporre al lavoratore di fruire di una o di due giornate di ferie, il datore di lavoro potrebbe anche unilateralmente imporre al proprio dipendente la fruizione di una settimana di ferie, a condizione di provare che ciò è coerente con il buon funzionamento dell’azienda.

Sulla scorta di tali principi, una sentenza della Corte di Cassazione ha ritenuto irrilevante addirittura la circostanza che il periodo di ferie già fosse stato concordato, e che il lavoratore già avesse prenotato le proprie ferie. Più precisamente, in quel caso il lavoratore, dopo che le ferie erano state concordate e dopo aver prenotato un albergo in coincidenza del periodo feriale, a seguito del rinvio del periodo feriale disposto unilateralmente dal datore di lavoro, per sopravvenute urgenti necessità organizzative, si era ugualmente assentato dal lavoro per qualche giorno, durante il periodo feriale originariamente pattuito, per recarsi nella località turistica dove aveva effettuato la prenotazione, per disdirla.

Conseguentemente, il datore di lavoro, dopo aver contestato la circostanza sopra illustrata e aver sentito il lavoratore a sua difesa, lo aveva licenziato, considerando ingiustificata l’assenza dal posto di lavoro. La domanda giudiziaria presentata dal lavoratore, che aveva impugnato tale licenziamento sotto il profilo della carenza di alcuna valida giustificazione, era stata rigettata dai Giudici di merito, con pronunce confermate dalla Suprema corte: infatti, è stato ritenuto che il datore di lavoro, avendo provato l’effettiva sussistenza della necessità organizzativa che rendeva necessario spostare il periodo feriale originariamente concordato, legittimamente aveva modificato, sia pure unilateralmente, il periodo delle ferie.

La suprema Corte ha sottolineato come il lavoratore, una volta messo a conoscenza della distribuzione delle ferie nell’arco dell’anno, abbia un vero e proprio onere di comunicare tempestivamente all’azienda eventuali esigenze personali che giustifichino una richiesta di modifica del periodo fissato. In mancanza, ha osservato la Suprema Corte, è possibile ritenere che il silenzio del lavoratore sia qualificabile alla stregua di un vero e proprio assenso tacito alla scelta della società. Con l’ulteriore conseguenza che un eventuale spostamento delle ferie potrebbe in seguito essere giustificato e richiesto solo adducendo motivi sopravvenuti ed originariamente imprevedibili.

Il diritto alle ferie è irrinunciabile e, pertanto, tale periodo non è monettizabile diversamente, ossia non è sostituibile con una indennità per ferie. Solo se il rapporto termini prima del godimento della pausa feriale, il lavoratore avrà diritto a percepire una indennità proporzionale alle ferie non godute. E’ in vigore il principio della insostituibilità del periodo minimo di ferie (fissato in quattro settimane) con il pagamento di un’indennità in denaro, e ciò ad eccezione dell’ultimo anno del rapporto di lavoro.

Il periodo minimo di ferie annue è pari a quattro settimane per ogni lavoratore. Il diritto alle ferie è irrinunciabile e non può essere sostituito da indennità economiche eccetto nei casi di cessazione di rapporto di lavoro: solo in tali casi le ferie non godute vengono monetizzate e convertite in quote di retribuzione giornaliera.

La metà delle ferie deve essere fruito obbligatoriamente entro l'anno, la restante parte di ferie non godute nei successivi 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. In caso contrario il datore di lavoro è passibile di sanzioni.

Il lavoratore può richiedere le ferie in qualunque momento dell'anno. La richiesta di ferie, ancorché soggetta a valutazione del datore di lavoro in merito alle esigenze di aziendali, deve essere presentata con congruo anticipo.





mercoledì 26 aprile 2017

Mobbing, quando si può denunciare



Il Mobbing è una forma di terrore psicologico, il più delle volte senza una reale ragione, che viene esercitato sul luogo di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi, superiori e datori di lavoro.

Generalmente è un comportamento persistente ed offensivo che si riassume in un abuso di potere e che causa nell’aggredito sentimenti di disperazione, umiliazione e facile vulnerabilità. E' un atteggiamneto che  mina la fiducia in se stessi e diventa causa di un enorme stress.fini della configurabilità del mobbing occorre quanto segue:

la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

l’evento lesivo della salute e della personalità e dignità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta del datore o il superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore, la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio, ai fini della configurabilità del mobbing.

 In altro senso, il mobbing è caratterizzato da una condotta del datore di lavoro o superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro, consistente in reiterati e sistemici atti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica determinanti la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetti lesivi dell’equilibrio psico-fisico e della personalità del medesimo.

È, in definitiva, un dato acquisito che il mobbing, per assumere rilevanza giuridica, implica la esistenza di plurimi elementi di natura oggettiva e soggettiva.

Il lavoratore può denunciare il datore di lavoro, il capo, o i colleghi per mobbing se ha subito una serie ripetuta di condotte illecite che hanno leso la sua dignità. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 2142/17) ha stabilito i cinque fattori principali che devono sussistere affinché si possa parlare di mobbing:

1) Comportamenti ostili in serie;

2) La ripetitività delle vessazioni per un congruo periodo di tempo: è stato ritenuto congruo un periodo pari a circa sei mesi;

3) La lesione della salute e della dignità del dipendente (ad esempio il disturbo di adattamento o la depressione);

4) Un rapporto di causa-effetto tra le condotte del datore e il danno subito dalla vittima: il secondo deve cioè essere conseguenza delle prime e di nient'altro;

5) L'intento persecutorio che collega tutti i comportamenti illeciti.

La sentenza specifica che il mobbing esiste nel caso di condotte poste in essere "con dolo specifico, ovvero con la volontà di nuocere, infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini del suo allontanamento dall'impresa". Tra i casi di mobbing vi sono il demansionamento, per cui il lavoratore viene costretto a svolgere mansioni di livello inferiore rispetto a quelle per cui è stato assunto, l'emarginazione sul lavoro, le continue critiche, la persecuzione sistematica, l'irrogazione di sanzioni disciplinari e le limitazioni alla possibilità di carriera.

Il lavoratore che vuole agire contro l'azienda per mobbing deve provare la volontà persecutoria e il piano vessatorio messo in atto dal datore di lavoro o dai colleghi. Dal punto di vista difensivo - spiega ancora il sito di consulenza legale - il dipendente può ricorrere a diverse strategie: dimettersi per giusta causa e ottenere l'assegno di disoccupazione, rifiutarsi di lavorare oppure presentare un ricorso urgente in tribunale (cosiddetto articolo 700 del codice di procedura civile) chiedendo il risarcimento del danno.

Sono 7 i parametri del mobbing secondo la Corte di Cassazione che, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing  per provare di essere stati danneggiati sul lavoro:
ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.


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mercoledì 4 gennaio 2017

Pensioni d’oro dei sindacalisti? C’è lo stop della Corte dei Conti



I diritti acquisiti di una fetta di sindacalisti privilegiati sono stati infine toccati, da una sentenza della Corte dei Conti. La quale ha stabilito che no, il meccanismo delle «contribuzioni aggiuntive», per anni all'origine di improvvise e a volte strabilianti impennate nelle pensioni di alcune categorie di rappresentanti sindacali, non va bene affatto e deve esser tutto ricalcolato.

Per capirci: mai più casi clamorosi come quello di Raffaele Bonanni che, sommando i contributi originari del suo lavoro con quelli di sindacalista a tempo pieno e per quasi un decennio segretario della Cisl, si era elevato negli ultimi anni da 75.223 a 336.260 euro l’anno di stipendio tirandosi poi dietro, grazie anche ai contributi aggiuntivi, una pensione netta di 5.391 euro mensili. Subito infilzata dalle rabbiose contestazioni di migliaia di lavoratori.

La sentenza 491/2016 del 10 ottobre 2016, emessa dalla III Sezione giurisdizionale d’Appello,  partiva dal ricorso di un maestro elementare, da anni sindacalista, che si lamentava di una «valorizzazione della contribuzione aggiuntiva» solamente «parziale» nel calcolo della pensione. Secondo lui, infatti, il decreto legislativo 564/1996 non prevedeva «alcuna limitazione in ordine al numero degli incarichi dirigenziali che possono formare oggetto di retribuzione aggiuntiva». Non solo: l’Inps non avrebbe, secondo lui, alcun «titolo per sindacare quanto deliberato, in merito ai relativi compensi, dagli organi statutari delle organizzazioni sindacali».

Che cosa sono i contributi aggiuntivi? Lo sportello online dell’Inps definisce: «La contribuzione aggiuntiva è una contribuzione di natura volontaria destinata a integrare la contribuzione figurativa o effettiva versata a favore dei lavoratori dipendenti, che siano dirigenti sindacali». E aggiunge: «In particolare a favore dei lavoratori collocati in aspettativa, possa essere versata, facoltativamente, una contribuzione aggiuntiva sull'eventuale differenza tra le somme corrisposte per lo svolgimento dell’attività sindacale e la retribuzione di riferimento per il calcolo della contribuzione figurativa. Come detto, la retribuzione figurativa corrisponde alla retribuzione commisurata a quella cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in base ai contratti collettivi di categoria» senza però «quegli emolumenti collegati all’effettiva prestazione lavorativa o condizionati da una determinata produttività, né incrementi retributivi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell’anzianità di servizio».

Dopo questa sentenza i sindacati, per i loro rappresentanti in aspettativa o distacco sindacale dal posto di lavoro, possono versare contributi aggiuntivi sui compensi ricevuti per l’attività sindacale. Questi «aggiuntivi» non incidono sulla data di pensionamento ma hanno avuto negli anni, «un peso rilevante sull’importo delle pensioni dei dipendenti dell’amministrazione pubblica o appartenenti ad alcune categorie di lavoratori (autoferrotranvieri, elettrici, telefonici…) del settore privato che si trovavano nel regime misto o in regime retributivo, prima della riforma Fornero».

«Questa contribuzione aggiuntiva veniva inserita, fino a oggi, nella quota di pensione relativa alle anzianità maturate fino al ‘92 (la cosiddetta quota A che in teoria dovrebbe contenere solo voci della retribuzione “fisse e continuative” negli anni). La quota A di pensione è calcolata sulla base della retribuzione percepita l’ultimo mese di servizio ed è quindi soggetta a regole molto più generose rispetto a quelle applicate dal ‘92 in poi per il calcolo della quota B, che considera la media delle retribuzioni percepite in un periodo più lungo».

La decisione
Bene: la sentenza che dicevamo della Corte dei Conti nota appunto che «i compensi corrisposti per l’attività sindacale espletata» dal maestro sindacalista «hanno subito un incremento invero assai cospicuo in un lasso di tempo piuttosto breve, passando nell’arco di quattordici mesi dall’iniziale compenso mensile di euro 2.000 (periodo settembre-dicembre 2009), ai 4.000 euro mensili corrisposti nel periodo gennaio-giugno 2010, agli 8.000 euro corrisposti nel periodo luglio-agosto 2010, a ridosso del collocamento in quiescenza, senza che in tale breve arco di tempo, risultino essersi verificate variazioni negli incarichi di dirigenza sindacale». Come non immaginare che si trattasse di aumenti dovuti alla scelta di preparare all’interessato una pensione più alta a carico dell’Inps e cioè, essendo assai inferiori i contributi precedenti, a carico dei cittadini?

Risultato: dopo questa storica sentenza, si dà per scontato che una nuova circolare dell’INPS possa aggiornare le modalità con le quali si determinano le quote di pensioni dei sindacalisti e ricalcolarle. Toccando per la prima volta «un privilegio acquisito non solo sulle pensioni future ancora da liquidare ma anche su alcune delle pensioni in essere». Una trentina di casi, sembra, per ora, sul passato. Ma almeno milletrecento nel futuro più o meno prossimo. Scommettiamo? Barricate.

Speriamo che ora si occupino anche delle doppie e triple pensioni.

Nelle premesse della sentenza leggiamo:

Come è noto, l’articolo 13 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, ha stabilito che: “Per i lavoratori dipendenti iscritti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ed alle forme sostitutive ed esclusive della medesima, e per i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali amministrate dall’INPS, l’importo della pensione è determinato dalla somma:

A) della quota di pensione corrispondente all’importo relativo alle anzianità contributive acquisite anteriormente all’1 gennaio 1993, calcolato con riferimento alla data di decorrenza della pensione secondo la normativa vigente precedentemente alla data anzidetta che a tal fine resta confermata in via transitoria, anche per quanto concerne il periodo di riferimento per la determinazione della retribuzione pensionabile;

B) della quota di pensione corrispondente all’importo del trattamento pensionistico relativo alle anzianità contributive acquisite a decorrere dall’1 gennaio 1993, calcolato secondo le norme di cui al presente decreto”.

In concreto, nella determinazione della pensione per il personale destinatario del succitato complesso normativo, sono computabili in quota A, dopo l’entrata in vigore della legge n. 335 del 1995: gli assegni già espressamente dichiarati pensionabili dallo stesso d.P.R. n. 1092 del 1973; gli assegni già dichiarati pensionabili da altre disposizioni precedenti la legge n. 335/1995; gli assegni dichiarati pensionabili in quota A da disposizioni di legge successive alla legge n. 335 del 1995. Gli emolumenti divenuti pensionabili solo con la legge n. 335 del 1995 vanno invece considerati unicamente nella quota B della pensione.

L’art. 3, comma 5 del d. lgs 564/96 stabilisce che “può essere versata, facoltativamente, una contribuzione aggiuntiva sull'eventuale differenza tra le somme corrisposte per lo svolgimento dell'attività' sindacale ai lavoratori collocati in aspettativa ai sensi dell'art. 31 della citata legge n. 300 del 1970 e la retribuzione di riferimento per il calcolo del contributo figurativo di cui all'art. 8, ottavo comma, della citata legge n. 155 del 1981. La facoltà può essere esercitata dalla organizzazione sindacale, previa richiesta di autorizzazione al fondo o regime pensionistico di appartenenza del lavoratore. Il contributo aggiuntivo va versato entro lo stesso termine previsto per la domanda di accredito figurativo di cui al comma 3 ed è pari all'aliquota di finanziamento del regime pensionistico a cui il lavoratore e' iscritto ed e' riferito alla differenza tra le somme corrisposte dall'organizzazione sindacale e la retribuzione figurativa accreditata”.

Il successivo comma 6, a sua volta, stabilisce che “La facoltà di cui al comma 5 può' essere esercitata negli stessi termini e con le stesse modalità' ivi previste per gli emolumenti e le indennità' corrisposti dall'organizzazione sindacale ai lavoratori collocati in distacco sindacale con diritto alla retribuzione erogata dal proprio datore di lavoro”.

Nella fattispecie presa in esame i caratteri di “fissità e continuità” degli emolumenti risultano palesemente mancanti pertanto la Corte ritenendo che l’interpretazione caldeggiata dall'appellante “legittimerebbe il riconoscimento di una posizione di ingiustificabile privilegio non solo rispetto alla generalità dei lavoratori per i quali il computo nella quota a) di pensione è ammesso per le sole retribuzioni erogate con carattere di fissità e continuità, ma anche a quei lavoratori, collocati come l’odierno ricorrente in posizione di distacco, che abbiano cessato di ricoprire le funzioni retribuite di rappresentanza o dirigenza sindacale prima dell’accesso al pensionamento. Per questi ultimi, infatti, la computabilità degli emolumenti percepiti dall'organizzazione sindacale nella prima quota di pensione dipenderebbe dalla circostanza, del tutto casuale, di essere collocati in quiescenza nel corso dell’espletamento dell’ incarico sindacale”,) l’appello va respinto.



venerdì 25 marzo 2016

Legge n. 104, licenziamento legittimo per chi usa alcune ore per fini personali


Legittimo il licenziamento per il beneficiario dei permessi della legge 104 che utilizzi una parte del tempo non per assistere il congiunto malato ma per propri interessi, ovvero è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore, il quale, fruendo dei permessi retribuiti previsti dalla legge 104 del 1992 e anche in assenza di un comportamento ambiguo, usufruisca solo parzialmente del tempo totale concesso per l'assistenza al parente. A dirlo è la sentenza 5574/16 della Corte di Cassazione, depositata il 22 marzo 2016.

La natura illecita dell'abuso del diritto a fruire dei permessi per l'assistenza dei congiunti e il ragionevole sospetto che il lavoratore ne abbia abusato, legittimano il ricorso al controllo occulto c.d. "difensivo" ad opera del datore di lavoro.

Ricordiamo che anche dopo la riforma del 2010, il lavoratore dipendente può chiedere i permessi retribuiti, come previsti dalla legge, solo a condizione che presti assistenza continuativa ed esclusiva ad un familiare disabile. Egli deve utilizzare tutto il giorno per sopperire alle esigenze del familiare bisognoso, non potendo invece adempiere, nello stesso tempo, anche solo in minima parte, ad necessità proprie.

Pertanto, chiunque utilizzi i permessi mensili per scopi personali o comunque estranei a quelli per i quali sono stati concessi (appunto l’assistenza al parente), manifesta disinteresse verso le esigenze aziendali e verso i principi di correttezza e buona fede previsti dal contratto di lavoro.

Con una importante sentenza, la Cassazione ha ribadito un interessante principio in tema di licenziamento disciplinare, affermando che deve ritenersi legittimo il recesso datoriale a fronte della condotta di un dipendente che, autorizzato a fruire dei permessi per l’assistenza al familiare disabile, a fronte di 24 ore di permessi retribuiti concessi, tenga una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali poste a sostegno della richiesta solo per poche ore rispetto al tempo totale; ed invero, tale condotta, dimostrando un sostanziale disinteresse del lavoratore per le esigenze aziendali, è idonea ad integrare una grave.

Non serve a giustificare il fatto di aver assolto, anche solo in parte, all’obbligo dell’assistenza del familiare con l’handicap. Questo aspetto – si legge in sentenza – non connota di minore gravità la condotta del dipendente “bugiardo”. Il licenziamento è ugualmente valido. La condotta di chi utilizzi anche solo alcune delle ore dei permessi per scopi personali è – secondo la Corte – oggettivamente grave, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita di fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il licenziamento senza preavviso (cosiddetto licenziamento per giusta causa).

In verità, nella vicenda, il lavoratore si era limitato a fare assistenza al familiare solo per 4 ore e 13 minuti al giorno, pari al 17,5% del tempo totale. Sembra essere proprio questo l’elemento che più pesi nella valutazione dei giudici sulla legittimità del licenziamento, facendo quasi ritenere che una assistenza più intensa avrebbe evitato tanti problemi al lavoratore. La Corte, insomma, sottolinea, nel caso di specie, soprattutto l’irregolarità, sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza presso il familiare. Quattro ore – pari a tutta la mattinata – vengono ritenute del tutto insufficienti per adempiere ai propri obblighi. Sarebbe stata necessaria una maggiore presenza.

Una condotta di abuso a cui il lavoratore aveva fatto ricorso e che aveva considerato, quindi, legittimo il recesso datoriale per giusta causa. La tesi del Giudice di primo grado era stata fatta poi propria anche dalla Corte d'appello, a cui il lavoratore si era rivolto. Per il Giudice di secondo grado, in particolare, la sanzione irrogata doveva ritenersi “proporzionata all'evidente intenzionalità della condotta e alla natura della stessa, indicativa di un sostanziale e reiterato disinteresse del lavoratore rispetto alle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare in senso contrario, stante l'idoneità della condotta a ledere il rapporto fiduciario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell'obbligo assistenziale”.

Nel valutare i motivi di ricorso del lavoratore licenziato, tutti respinti, la Cassazione si è concentrata in particolare sul rilievo secondo cui in appello sarebbe stato trascurato il fatto che il dipendente non aveva avuto alcuna intenzione di non prestare assistenza al familiare, essendosi anzi regolarmente recato da lui e non essendosi allontanato dalla propria abitazione per momenti di svago o per andare a svolgere altre attività lavorativa, con ciò violando il disposto degli articoli 1175, 1375 e 2119 del codice civile. Secondo il ricorrente, in buona sostanza, la condotta da lui posta in essere, qualora fosse “suscettibile, per ipotesi, di rilievo disciplinare, non poteva certamente, in assenza di un consapevole intento elusivo, condurre all'applicazione della sanzione espulsiva”.

Una censura a cui per i giudici la sentenza di appello si sottrae dal momento che la sussistenza dei requisiti per la concessione dei permessi e la valutazione della condotta successiva del tenuta del lavoratore che li ha ottenuti restano due elementi distinti, “ben potendo il datore di lavoro procedere a una propria autonoma valutazione di tale condotta nell'ottica del rispetto del canone di buona fede che presiede all'esecuzione del contratto di lavoro”. In questo contesto il fatto che il lavoratore abbia tenuta una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali alla base delle legge non incide sulla giusta causa di recesso datoriale, “risultando dagli indici di fatto accertati nella sentenza impugnata, sia relativi alla percentuale del tempo destinato all'attività di assistenza rispetto a quella totale dei permessi, sia relativi ad altre modalità temporali in cui tale attività risulta prestata” la presenza di “un evidente, quanto anch'essa incontestata irregolarità sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza”.

In conclusione l'uso improprio del permesso per l'assistenza dei congiunti giustifica il licenziamento per giusta causa in quanto compromette irrimediabilmente il vincolo fiduciario indispensabile per la prosecuzione del rapporto di lavoro.


domenica 28 luglio 2013

La sentenza della Corte Costituzionale: «L’articolo 19 lede la libertà sindacale»

Secondo Corte Costituzionale la norma viola i principi costituzionali Fiat: «Abbiamo soltanto applicato la legge».

Consentire la costituzione delle Rsa, le rappresentanze sindacali aziendali, solo ai sindacati firmatari del contratto applicato in azienda lede i "valori del pluralismo e della libertà di azione" dei sindacati. E' con questa motivazione che la Corte Costituzionale ha 'bocciato' l'articolo 19 dello statuto dei lavoratori, con una sentenza - la 231/2013, relatore il giudice Morelli - che segna una vittoria netta della Fiom sulla Fiat. Immediate e pesanti le reazioni.

Così la Consulta nella sentenza sul giudizio di illegittimità dell’art. 19 comma 1 dello Statuto. La sentenza, i cui contenuti essenziali erano stati resi noti il 3 luglio, è stata depositata oggi. Alla base il ricorso della Fiom contro la Fiat. Redattore della sentenza - la 231/2013 - il giudice Mario Rosario Morelli. Il comma 1 dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori è stato dichiarato illegittimo perché appunto se si consentisse la rappresentanza sindacale aziendale (Rsa) solo ai sindacati firmatari del contratto applicato nell’unità produttiva, i sindacati «sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa», spiega la sentenza.

E se «il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, della Costituzione, per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale». Questo si traduce «in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum».

«Ora la Fiat applichi la sentenza della Corte costituzionale. Si ripristinino in tutti gli stabilimenti del Gruppo i diritti, le libertà sindacali e le pari agibilità per tutte le organizzazioni». A chiederlo è Maurizio Landini, segretario della Fiom che chiede un incontro con l'azienda e lancia un appello al governo: «Convochi un tavolo nazionale sulle prospettive occupazionali e gli investimenti del gruppo Fiat in Italia e si faccia garante della piena applicazione della sentenza anche attraverso una legge sulla rappresentanza».

Il succo della decisione della Consulta era già stato reso noto il 3 luglio. Ora vengono spiegati i motivi della decisione. Alla base del pronunciamento, la questione di legittimità sollevata dai tribunali di Modena, Vercelli e Torino nelle cause che vedono contrapposte appunto Fiat e Fiom. I dubbi riguardano il comma 1 dell'art. 19 dello statuto dei lavoratori, che pone dei paletti alle Rsa, consentendole solo alle sigle firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda. Un limite che la Consulta ha giudicato in contrasto con tre articoli della Carta Costituzionale. Perché quando il criterio della sottoscrizione dell'accordo applicato in azienda - spiega la sentenza - "viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività" e "si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo o comunque significativamente rappresentativo", allora quel criterio entra "inevitabilmente in collisione con i precetti degli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione": il primo tutela i diritti inviolabili dell'uomo come singolo e nelle formazioni sociali; il secondo l'uguaglianza dei cittadini; l'ultimo la libertà di organizzazione sindacale.

Se si consentissero la Rsa solo nei limiti fissati dallo statuto ora censurato, spiegano i giudici, i sindacati "sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori", "bensì del rapporto con l'azienda". Il "dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa" finirebbe quindi col pesare sulle relazioni sindacali e sulla capacità di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori.

mercoledì 28 novembre 2012

Produttività del lavoro 2013: demansionamento, dequalificazione e mobbing


Con la recente sentenza n. 2711 del /2012 la Corte di Cassazione ha stabilito che, per poter definire lesiva la condotta del datore di lavoro, devono diventare rilevanti: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o leciti posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo contro il dipendente con intento vessatorio; che l’evento lesivo incida sulla salute e personalità del lavoratore dipendente, minandone l’integrità psico-fisica; che si evidenzi la volontà persecutoria.

Pertanto, ai fini dell’accertamento del mobbing e del conseguente diritto al risarcimento del danno, il lavoratore deve individuare nominativamente gli autori degli attacchi e descrivere gli episodi che si sono verificati nel tempo e il modo con il quale si sono svolti, in maniera tale che possa essere espletata agli stessi una prova testimoniale. Quindi, ha concluso la sentenza, i singoli comportamenti non avevano in sé, congiuntamente e isolatamente considerati, contenuto mobbizzante, sicché dalla loro somma, mancando una qualsiasi prova dell'esercizio abusivo del diritto, non si poteva desumere un disegno persecutorio, fonte di risarcimento.

Tra i temi che entreranno nella contrattazione collettiva futura c'è anche quello della flessibilità nelle mansioni dei lavoratori dipendenti. Quanto previsto dall'accordo sulla produttività, è doveroso mettere in evidenza il principio sul termine  demansionamento, e come viene inteso nelle aule di giustizia, soprattutto per rappresentarne la linea di delimitazione rispetto al mobbing. Molto spesso, le due figure vengono richiamate insieme, anche se vanno tenute distinte. La differenza tra la dequalificazione professionale e il mobbing si gioca in realtà sul piano della prova. È necessario chiedersi quale può essere l'elemento di distinzione, indispensabile anche per quantificare l'eventuale risarcimento del danno subito.

La giurisprudenza ha precisato che la dequalificazione non è necessariamente mobbing se non si prova l'intento persecutorio dell'azienda. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12770 del 23 luglio 2012, ha affermato che la dequalificazione professionale non è prova certa di una volontà oppressiva e vessatoria del datore di lavoro. Non si può escludere, tuttavia, solo per questo, il riconoscimento di un indennizzo per il danno morale, biologico e professionale subìto, poiché il demansionamento del lavoratore comporta comunque uno svilimento della professionalità acquisita dal dipendente.

Ed inoltre la Corte nel decidere una domanda di risarcimento dei danni alla professionalità e all'immagine, del danno morale e di quello biologico, in conseguenza di lamentati comportamenti del datore di lavoro di dequalificazione e di "mobbing", nonché dei danni scaturenti dal licenziamento, non ha perso l’occasione per richiamare la massima di Cass. sez. lav. n. 19785 del 1779/2010, secondo cui ‘in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio - dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicchè non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale’”.
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