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domenica 17 novembre 2013

Prepensionamento anticipato lo paga l'azienda


Pensione con scivolo fino a quattro anni. E’ quanto ha indicato la legge n. 92 del 2012.

Prepensionamenti: la parola magica per milioni di italiani, via d’uscita per ogni azienda in crisi, torna a splendere nel nostro firmamento, anche se costerà caro.

I requisiti per il pensionamento debbono essere verificati dall’Inps con riferimento alle regole vigenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Detti requisiti vengono validati sempre dall’Inps tramite una serie di operazioni quali:

l’emissione di un estratto conto certificato;
la validazione delle singole posizioni individuali;
l’importo iniziale della prestazione “retribuzione-pensione”;
l’onere della contribuzione figurativa da versare a carico del datore di lavoro.

Per dare efficacia all’accordo è previsto che il datore di lavoro presenti una istanza all’Inps comprensiva dei lavoratori coinvolti ed interessati, accompagnata da una fideiussione bancaria finalizzata a garantire la solvibilità nel tempo degli obblighi che assume su se stesso.

Ai lavoratori interessati l’azienda deve infatti garantire di:
pagare un’indennità (retribuzione-pensione) pari alla pensione che hanno maturato in base ai contributi versati fino a quel momento;
versare i contributi all’Inps durante questo arco temporale, massimo di quattro anni, come se gli interessati continuassero a lavorare.

Le aziende possono decidere di mandare in prepensionamento il personale che, a causa della crisi economica o per altri motivi, risulta in eccedenza. Ma devono pagare un prezzo piuttosto alto.

Questo novo tipo di prepensionamento è previsto nella riforma Fornero e ora l’ Inps ha diffuso le regole applicative.

Nel linguaggio dell’Istituto di Previdenza per antonomasia si chiama procedura di esodo volontario.

Oggi, le aziende possono anticipare di quattro anni il pensionamento dei propri dipendenti (se questi sono d’accordo), ma dovranno versare all’Inps ogni mese l’importo dell’assegno che l’Inps girerà all’ex dipendente fino al raggiungimento del diritto ordinario alla pensione, più il 33% dei contributi previdenziali calcolati sul valore precedente.

E’ una tombola per l’azienda. Ma al costo elevato corrisponderà la certezza che il dipendente è uscito, che la riorganizzazione può procedere senza persone che remano contro e che il costo avrà un termine, anche se dopo 4 anni.

Il lavoratore dipendente uscirà dall’azienda, ma potrà cumulare l’assegno Inps con eventuali altre retribuzioni, nel caso riuscisse a trovare un nuovo impiego; o lo potrà cumulare con il reddito di lavoro autonomo, laddove dovesse decidere di fare impresa o consulenza da sé (anche co.co.co.)”.

Per anni i prepensionamenti sono stati una valvola di sfogo importante, in molti casi anzi si traducevano in una specie di bonus, come accade per i lavoratori poligrafici (quelli dei giornali) che alla pensione Inps potevano aggiungere quella di un loro fondo integrativo. Alla fine si ritrovavano in prepensionamento in età giovanile: gente che aveva cominciato al lavorare a 14 anni nelle tipografie, andava in pensione a 50 anni mettendo assieme più del ricco stipendio della categoria  integrato da straordinari.

La nuova strada imboccata dall’Inps ha un fondo di giustizia, perché fa pagare il costo della ristrutturazione aziendale e del prepensionamento a chi ne trarrà il maggior beneficio, l’azienda.

Comunque le aziende continuano a pagare le quote contributive che una volta erano destinate a coprire eventi quali la mobilità o la cassa integrazione o la disoccupazione. Ma ora, dopo tutte le riforme degli ultimi anni, quelle prestazioni sono state ridotte o annullate, mentre l’Inps continua comunque a incassare i contributi, sotto altre voci, senza che ci sia più un controprestazione da erogare.

La domanda che segue è perché l’Inps non abbia ridotto i contributi. La risposta è da cercare nella grande massa dei dipendenti pubblici, per i quali il sistema privato è chiamato a pagare ancora una volta. L’Inps ha un buco di 23 miliardi causato dai debiti dell’Inpdap, la Cassa di previdenza dei dipendenti pubblici, che ha assorbito. Alla fine, “a pagare il conto saranno, naturalmente, i lavoratori e le imprese.




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