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lunedì 6 gennaio 2014
Tasse sul lavoro sopra la media europea
La tassazione sul lavoro in Italia è al top dell’Eurozona e sopra la media Ue. L’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sui redditi da lavoro, misurata con l’aliquota implicita, è stata infatti nel 2011 seconda solo al Belgio: 42,3% contro il 42,8%. E contro il 37,7% dell’Eurozona e il 35,8% dell’Ue-27. È quanto emerge da una nota del Centro studi Confindustria, indicando con l’aliquota implicita (data dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile) l’onere medio effettivamente pagato.
I più importanti partner europei hanno registrato valori molto inferiori all’Italia: Francia 38,6%, Germania 37,1%, Spagna 33,2%, Regno Unito 26,0%. In Italia ai contributi sociali più elevati che altrove e legati all’ingente spesa pensionistica, sottolinea il Csc, si aggiunge a carico delle imprese anche la quota di Irap calcolata sul costo del lavoro. Ciò determina un onere per le imprese che, nel 2011, è stato pari al 10,7% del Pil, inferiore solo a quello registrato in Francia (12,9%) ed Estonia (11,2%); con un aumento in Italia del 2,2% nel periodo 1995-2011. Mentre a carico dei lavoratori, sempre nel 2011, è stato pari all’8,4% (+0,7%).
Il livello dell’imposizione sul lavoro in Italia da metà degli anni 90 «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese», evidenzia il Centro studi.
Con l’insorgere della crisi, l’aliquota implicita sul lavoro è cresciuta ancora, toccando il picco del 42,9% nel 2008, per poi tornare nel 2011 al livello del 2007. Negli altri principali paesi europei e in media nell’Eurozona, nel 2011 l’aliquota implicita era invece ad un livello inferiore a quello registrato nel 2007: «Ciò significa che il divario tra l’Italia e gli altri paesi, con la crisi, si è ampliato, seppure le tendenze più recenti sembrino indicare una convergenza».
In Italia l’economia sommersa nel 2012 era pari al 21,6% del Pil, il valore più elevato dell’Eurozona (dopo Estonia e Cipro), secondo la stima dell’economista Friedrich Shneider. «Considerando questa entità di sommerso la pressione fiscale effettiva che grava sui contribuenti onesti in Italia sarebbe pari al 56,2% del Pil».
L'inasprimento del fisco ha colpito il 95% delle aziende presenti in Italia. Lo rileva la Cgia di Mestre secondo la quale la pressione fiscale su queste aziende oscilla tra il 53 e il 63%.
Per le microimprese, ribadisce l'associazione, si è appena concluso un anno caratterizzato dall'ennesimo aumento delle tasse. Rispetto al 2012, le attività fino ai 10 addetti hanno subito un aggravio che va dai 270 ai 1.000 euro. Importi non particolarmente pesanti, che tuttavia si sono aggiunti ad un carico fiscale complessivo che per le attività di questa dimensione si attesta, secondo gli Artigiani di Mestre, attorno a un dato medio che oscilla tra il 53 e il 63%. Un livello che in passato non era mai stato raggiunto.
«Se nel 2013 una parte delle famiglie italiane ha beneficiato di un lieve calo della tassazione - osserva il segretario Giuseppe Bortolussi - per le piccolissime imprese le cose sono andate diversamente. L'inasprimento fiscale ha interessato tutte le aziende con meno di 10 addetti che, ricordo, costituiscono il 95% delle imprese presenti nel nostro Paese».
Un artigiano che lavora da solo (reddito annuo di 35.000 euro) con una pressione fiscale che nel 2013 si è attestata al 53%, rispetto al 2012 ha pagato 319 euro in più. Complessivamente ha versato allo Stato e agli Enti locali 18.564 euro. Anche per il 2014 le tasse sono destinate ad aumentare: nel pagherà 154 euro in più e rispetto al 2011 (ultimo anno di applicazione dell'Ici) l'aggravio sarà di ben 1.216 euro.
Un commerciante senza dipendenti (reddito annuo di 30.000 euro) con una pressione fiscale che nel 2013 ha quasi raggiunto la soglia del 53%, rispetto al 2012 ha versato 329 euro in più. Tra tasse, imposte e contributi ha pagato complessivamente 15.882 euro. Nel 2014 il peso fiscale è destinato ad aumentare di altri 184 euro. Se il confronto viene fatto tra il 2014 e il 2011, la maggiore tassazione a suo carico è di 1.362 euro.
La Cgia mette in evidenza che oltre il 70% degli artigiani e dei commercianti presenti nel nostro Paese lavora da solo. Un'impresa artigiana composta da 2 soci e 5 dipendenti (reddito annuo di 80.000 euro), con un peso fiscale che nel 2013 ha sfiorato il 59%, l'aggravio subito nel 2013 è stato di 273 euro. Complessivamente il carico di tasse e imposte versate è stato di 46.882 euro. Nel 2014 ci sarà un ulteriore incremento di 423 euro. Se il confronto viene fatto tra il 2014 e il 2011, l'inasprimento sarà di 1.191 euro Una piccola impresa con 2 soci e 10 dipendenti (reddito di 100.000 euro al lordo dei compensi degli amministratori pari a 60.000 euro), la pressione fiscale su questa attività ha toccato il 63,4%. Rispetto al 2012 ha pagato 1.022 euro in più, mentre quest'anno pagherà altri 285 euro aggiuntivi. L'ammontare delle tasse e dei contributi versati nel 2013 è stato di 63.424 euro. Tra il 2014 e il 2011, l'inasprimento è stato di 2.016 euro.
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sabato 2 marzo 2013
Tasse sul lavoro 2013 calcolo imponibile in busta paga
Per conoscere le contingenze fiscali che girano con la busta paga per chi ha un lavoro dipendente o di collaborazione e’ importante chiarire che il calcolo sull'imponibile fa riferimento alle normative e alla tassazione relativa al reddito da lavoro.
A questo proposito, serve per conoscere quanto percepisce in busta paga un lavoratore con busta paga, conoscendo il suo reddito annuo lordo e la sua situazione familiare.
Vediamo i parametri su cui tale calcolo si fonda, con lo scopo di dare delucidazioni a chi ha intenzione di verificare la sua busta paga, ma anche di tentare di scoprire come cambierebbe il suo stipendio a fronte ad esempio di un aumento della sua retribuzione annua lorda.
Vediamo innanzitutto di dare delle risposte.
Che cosa è imponibile previdenziale?
L'imponibile previdenziale è quell'importo su cui sono calcolati i contributi (soldi pagati sia dal datore di lavoro che dal lavoratore per finanziare l'INPS). Quindi rappresenta la percentuale del reddito lordo a carico del lavoratore che deve essere versata mensilmente agli istituti previdenziali di competenza ossia quella parte del reddito che viene accantonato ogni mese e, assieme ai contributi versati dal nostro datore di lavoro, concorrerà alla formazione della pensione.
L'imponibile previdenziale è dato dalla somma delle voci presenti in busta paga nella colonna competenze. Però pur trovandosi nella colonna competenze, non entrano a far parte dell'imponibile previdenziale, oltre alle voci figurative:
Malattia c/INPS; Maternità c/INPS; Donazione di sangue; Assegno Nucleo Familiare (ANF)
questo perché sono soldi che sono corrisposti direttamente dall'INPS e quindi l'INPS non chiede vi si paghino i contributi.
Che cosa sono i contributi?
I contributi sono dei soldi che vengono versati ogni mese sia dal dipendente che dal datore di lavoro per finanziare l'INPS. I contributi versati dal datore di lavoro NON si vedono in busta paga. I contributi versati dal lavoratore sono indicati in busta paga nella casella “contributi”. Sono calcolati come percentuale dell'imponibile previdenziale: per gli apprendisti questa percentuale è pari al 5,84% (per gli altri lavoratori è il 9,19%, per alcuni il 9,49%).
CONTRIBUTI c/DIPENDENTE= 5,84% x IMPONIBILE PREVIDENZIALE
Che cosa è imponibile fiscale?
L'Irpef (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) rappresenta la tassazione cui è soggetto il reddito da lavoro dipendente. Si applica non sull'intero reddito annuo lordo, bensì su una parte di tale reddito, detta imponibile fiscale netto o imponibile fiscale o imponibile Irpef o semplicemente imponibile. E' quella parte di reddito su cui si pagano le tasse. Quindi possiamo definire l'imponibile fiscale come la grandezza di riferimento per calcolare le imposte, tasse).
L'Irpef costituisce una percentuale della base imponibile, diversa a seconda di quanto sia l'ammontare di tale base. Si utilizza un sistema a scaglioni, con le seguenti aliquote:
Scaglione (in €) Aliquota
fino a 15000 23%
da 15000,01 a 28000 27%
da 28000,01 a 55000 38%
da 55000,01 a 75000 41%
oltre i 75000 43%
L'imponibile fiscale si calcola sottraendo dall'imponibile previdenziale i contributi c/dipendente
IMPONIBILE PREVIDENZIALE – CONTRIBUTI c/DIPENDENTE= IMPONIBILE FISCALE
Per calcolare quanto incidono le nostre tasse in busta paga, innanzitutto si deve stabilire a quale fasce appartenga il nostro reddito imponibile, quindi si applica l'aliquota corrispondente solo sulla parte di reddito che rientra interamente in tale fascia, quella cioè che eccede il limite massimo relativo alla fascia immediatamente inferiore. Anche per quest'ultima si ripete lo stesso ragionamento: in caso ci siano ancora altre fasce di reddito inferiore, l'aliquota indicata si applica solo alla quota in essa contenuta, e così via, sino ad arrivare alla prima fascia. Sommando tutti i contributi, uno per fascia, si ottiene la cosiddetta irpef lorda.
Che cosa sono le addizionali Irpef
Sono previste due quote, l'addizionale regionale e l'addizionale comunale, che vanno a sommarsi alla componente principale di Irpef. Mentre quest'ultima è di competenza statale, le due addizionali spettano rispettivamente alla regione e al comune di residenza del lavoratore.
Il datore di lavoro (sostituto d'imposta) tiene conto di tali addizionali all'atto di effettuare le operazioni di conguaglio di fine anno, a valere sulle rate trattenute nell'anno successivo. Volendo esemplificare, la quota di Irpef a favore della regione e del comune calcolata sul reddito del 2012 viene effettivamente pagata nel corso del 2013.
Mentre per detrazione fiscale si deve intendere la sottrazione di una data quantità di denaro dall'imposta lorda per determinare l'imposta netta effettivamente dovuta. Nel caso dello stipendio, si parla di detrazioni Irpef, nel senso che vanno a sottrarsi all'imposta lorda data dai due contributi di tassazione appena visti (Irpef base + addizionali). In parole semplici, tali detrazioni riducono le tasse che dobbiamo pagare sul reddito.
Vediamo un esempio di come si calcola il reddito complessivo se si possiede un reddito complessivo di euro 20.000 annui, su tale importo vengono trattenuti euro 2.500 per ritenute previdenziali, si ottiene quindi un reddito base di euro 17.500, ulteriormente da questa cifra è possibile detrarre tutta una serie di oneri deducibili (assegni periodici al coniuge, contributi per pensioni integrative ed altri), che si presuppongono per euro 2.500; l’importo che ne deriva pari a euro 15.000 è il reddito imponibile. E’ su tale cifra che si pagano l'Irpef e le addizionali regionali e comunali (se il comune di residenza le ha deliberate). Una volta determinata l’Irpef lorda dovuta in base agli scaglioni e le aliquote progressive si possono effettuare le detrazioni di imposta per carichi di famiglia (figli o moglie), per tipologia di reddito (dipendente, pensione o d’impresa) e per particolari oneri sostenuti (19% delle spese mediche o di premi assicurativi ed altri).
A questo proposito, serve per conoscere quanto percepisce in busta paga un lavoratore con busta paga, conoscendo il suo reddito annuo lordo e la sua situazione familiare.
Vediamo i parametri su cui tale calcolo si fonda, con lo scopo di dare delucidazioni a chi ha intenzione di verificare la sua busta paga, ma anche di tentare di scoprire come cambierebbe il suo stipendio a fronte ad esempio di un aumento della sua retribuzione annua lorda.
Vediamo innanzitutto di dare delle risposte.
Che cosa è imponibile previdenziale?
L'imponibile previdenziale è quell'importo su cui sono calcolati i contributi (soldi pagati sia dal datore di lavoro che dal lavoratore per finanziare l'INPS). Quindi rappresenta la percentuale del reddito lordo a carico del lavoratore che deve essere versata mensilmente agli istituti previdenziali di competenza ossia quella parte del reddito che viene accantonato ogni mese e, assieme ai contributi versati dal nostro datore di lavoro, concorrerà alla formazione della pensione.
L'imponibile previdenziale è dato dalla somma delle voci presenti in busta paga nella colonna competenze. Però pur trovandosi nella colonna competenze, non entrano a far parte dell'imponibile previdenziale, oltre alle voci figurative:
Malattia c/INPS; Maternità c/INPS; Donazione di sangue; Assegno Nucleo Familiare (ANF)
questo perché sono soldi che sono corrisposti direttamente dall'INPS e quindi l'INPS non chiede vi si paghino i contributi.
Che cosa sono i contributi?
I contributi sono dei soldi che vengono versati ogni mese sia dal dipendente che dal datore di lavoro per finanziare l'INPS. I contributi versati dal datore di lavoro NON si vedono in busta paga. I contributi versati dal lavoratore sono indicati in busta paga nella casella “contributi”. Sono calcolati come percentuale dell'imponibile previdenziale: per gli apprendisti questa percentuale è pari al 5,84% (per gli altri lavoratori è il 9,19%, per alcuni il 9,49%).
CONTRIBUTI c/DIPENDENTE= 5,84% x IMPONIBILE PREVIDENZIALE
Che cosa è imponibile fiscale?
L'Irpef (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) rappresenta la tassazione cui è soggetto il reddito da lavoro dipendente. Si applica non sull'intero reddito annuo lordo, bensì su una parte di tale reddito, detta imponibile fiscale netto o imponibile fiscale o imponibile Irpef o semplicemente imponibile. E' quella parte di reddito su cui si pagano le tasse. Quindi possiamo definire l'imponibile fiscale come la grandezza di riferimento per calcolare le imposte, tasse).
L'Irpef costituisce una percentuale della base imponibile, diversa a seconda di quanto sia l'ammontare di tale base. Si utilizza un sistema a scaglioni, con le seguenti aliquote:
Scaglione (in €) Aliquota
fino a 15000 23%
da 15000,01 a 28000 27%
da 28000,01 a 55000 38%
da 55000,01 a 75000 41%
oltre i 75000 43%
L'imponibile fiscale si calcola sottraendo dall'imponibile previdenziale i contributi c/dipendente
IMPONIBILE PREVIDENZIALE – CONTRIBUTI c/DIPENDENTE= IMPONIBILE FISCALE
Per calcolare quanto incidono le nostre tasse in busta paga, innanzitutto si deve stabilire a quale fasce appartenga il nostro reddito imponibile, quindi si applica l'aliquota corrispondente solo sulla parte di reddito che rientra interamente in tale fascia, quella cioè che eccede il limite massimo relativo alla fascia immediatamente inferiore. Anche per quest'ultima si ripete lo stesso ragionamento: in caso ci siano ancora altre fasce di reddito inferiore, l'aliquota indicata si applica solo alla quota in essa contenuta, e così via, sino ad arrivare alla prima fascia. Sommando tutti i contributi, uno per fascia, si ottiene la cosiddetta irpef lorda.
Che cosa sono le addizionali Irpef
Sono previste due quote, l'addizionale regionale e l'addizionale comunale, che vanno a sommarsi alla componente principale di Irpef. Mentre quest'ultima è di competenza statale, le due addizionali spettano rispettivamente alla regione e al comune di residenza del lavoratore.
Il datore di lavoro (sostituto d'imposta) tiene conto di tali addizionali all'atto di effettuare le operazioni di conguaglio di fine anno, a valere sulle rate trattenute nell'anno successivo. Volendo esemplificare, la quota di Irpef a favore della regione e del comune calcolata sul reddito del 2012 viene effettivamente pagata nel corso del 2013.
Mentre per detrazione fiscale si deve intendere la sottrazione di una data quantità di denaro dall'imposta lorda per determinare l'imposta netta effettivamente dovuta. Nel caso dello stipendio, si parla di detrazioni Irpef, nel senso che vanno a sottrarsi all'imposta lorda data dai due contributi di tassazione appena visti (Irpef base + addizionali). In parole semplici, tali detrazioni riducono le tasse che dobbiamo pagare sul reddito.
Vediamo un esempio di come si calcola il reddito complessivo se si possiede un reddito complessivo di euro 20.000 annui, su tale importo vengono trattenuti euro 2.500 per ritenute previdenziali, si ottiene quindi un reddito base di euro 17.500, ulteriormente da questa cifra è possibile detrarre tutta una serie di oneri deducibili (assegni periodici al coniuge, contributi per pensioni integrative ed altri), che si presuppongono per euro 2.500; l’importo che ne deriva pari a euro 15.000 è il reddito imponibile. E’ su tale cifra che si pagano l'Irpef e le addizionali regionali e comunali (se il comune di residenza le ha deliberate). Una volta determinata l’Irpef lorda dovuta in base agli scaglioni e le aliquote progressive si possono effettuare le detrazioni di imposta per carichi di famiglia (figli o moglie), per tipologia di reddito (dipendente, pensione o d’impresa) e per particolari oneri sostenuti (19% delle spese mediche o di premi assicurativi ed altri).
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sabato 1 dicembre 2012
Lavoro, tasse e IMU. Addio tredicesima di dicembre 2012
A dicembre il saldo dell'Imu rischia di mangiarsi tutta la tredicesima. E' quanto ha reso noto l'Osservatorio periodico sulla fiscalità locale della Uil, secondo cui, il 17 dicembre, il saldo medio dell'Imposta municipale sugli immobili per la prima casa sarà di 136 euro, con punte di 470 euro, mentre per le seconde case sarà di 372 euro, con punte addirittura di 1.209 euro.
In arrivo la stangata del saldo Imu che per molte famiglie assorbirà l'intera tredicesima del 2012. La seconda tranche dell'imposta sarà particolarmente pesante sulle seconde case (soprattutto nelle grandi città, prima tra tutte la Capitale), dal momento che potrà arrivare fino a 1.209 euro. Tariffe più contenute per la prima casa, con punte fino a 470 euro. Sono questi i dati che emergono da uno studio dell'Osservatorio periodico sulla fiscalità locale della Uil Servizio Politiche Territoriali, che ha esaminato le delibere dei 6.169 Comuni pubblicate sul sito del ministero dell'Economia. I calcoli sono sul 76,2% dei Comuni e dunque molto vicini a quello definitivo reale, tanto che la Uil calcola anche il gettito complessivo finale: 23,2 miliardi di euro, un paio in più rispetto a quelli che erano stati preventivati con il Salva-Italia (21 miliardi). Ma di questi 23,2 miliardi di euro di gettito (3,8 per la prima casa), 14,8 miliardi di euro saranno incassati dai Comuni, mentre lo Stato incasserà 8,4 miliardi di euro.
''Sarà, dunque, un Natale amaro – ha commentato Guglielmo Loy - per lavoratori dipendenti e pensionati, in quanto dovranno far fronte alla rata di saldo dell'Imu con le tredicesime.
Infatti, con il saldo a dicembre, le famiglie italiane dovranno versare ai Comuni e allo Stato, ancora 13,6 miliardi di euro, che si aggiungono ai 9,6 miliardi di euro già pagati con l'acconto di giugno. E purtroppo l'Imu è solo la punta dell'iceberg tra le voci di erosione nelle buste paga, già alleggerite da tutti gli aumenti delle Addizionali Regionali e Comunali IRPEF e dalla Tassa/Tariffa sui rifiuti''.
Quindi questo difficile anno di crisi economica finirà con una forte stangata e le tredicesime tanto sognate ed aspettate verranno in gran parte utilizzate per pagare la tassa sulla casa.
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sabato 22 settembre 2012
Tasse sul lavoro e sulle imprese si devono ridurre
Ricordiamo che le tasse tedesche, inglesi, e soprattutto quelle spagnole hanno un alleato nel regime fiscale del paese in cui operano: meno tasse quindi più utili, un vantaggio competitivo incolmabile rispetto a italiane e francesi.
Facciamo un esempio. Una azienda che chiude il bilancio con circa 380mila euro di utile netto ne avrebbe guadagnati molti di più, diciamo quasi 600mila, se avesse avuto sede in Spagna. Il difetto è di una tassazione effettiva complessiva che sfiora il 58% dell'imponibile, che si sarebbe fermata al 29% se invece che italiana fosse stata una impresa spagnola. Questi sono i calcoli di Confindustria, che da tempo sollecita una riforma che alleggerisca il peso del fisco su "chi tiene in piedi il Paese", sia aziende che lavoratori.
Da questo studio emerge che le imprese tedesche, le inglesi, e soprattutto le spagnole, hanno un amico nel regime fiscale del paese dove operano: meno tasse quindi più utili, un vantaggio competitivo profondo rispetto a quello che si verifica in Italia e Francia. "L'imposizione fiscale complessiva in rapporto al reddito imponibile (effective tax rate) - spiega il rapporto - è decisamente superiore in Italia (58%) rispetto alla Germania (43%), al Regno Unito (40%) e alla Spagna (29%). Di poco diversa la situazione della Francia, dove il carico fiscale complessivo (60%) risulta lievemente superiore a quello italiano per effetto dell'indeducibilità del compenso corrisposto ad amministratori esterni all'impresa".
Lo studio che Confindustria ha elaborato in collaborazione con Deloitte, calcola l'onere fiscale complessivo di una società per azioni italiana (oltre alle imposte sul reddito, anche le altre principali forme di imposizione: ad esempio, le imposte locali sugli affari, sugli immobili, di solidarietà sociale, ed altre specifiche imposte locali) e l'ipotetico onere che la stessa impresa avrebbe subito se fosse stata localizzata in uno degli altri tre Paesi presi in esame.
La società presa in esame, come esempio dallo studio (ha un fatturato di 27,7 milioni di euro, esercita attività di ricerca e sviluppo nel campo dell'automazione di processi industriali e del testing di componenti e prodotti finiti, ha 180 dipendenti, ed esporta circa il 65% delle esportazioni), una volta pagate le tasse su un utile ante imposte di 986.503 chiude il bilancio (come regime si ipotizza quello del 2009) con un utile netto di circa 383mila euro in Italia, che sarebbe più basso dell'8% se l'azienda fosse in Francia, e più alto del 20% in Germania, del 37% in Gran Bretagna, e ben del 58% in Spagna dove supererebbe quota 600mila euro (605.347).
Lo studio prende anche in esame la tassazione del reddito in capo ai soci dell'azienda per l'utile distribuito dalla società, per verificare il diverso modo di affrontare il problema della doppia imposizione e l'effettivo onere fiscale complessivo nei diversi Paesi. Ed anche in questo caso la graduatoria è confermata. Il rapporto esamina diverse ipotesi di distribuzione di un dividendo. E nel caso sia pari al 50% dell'utile distribuibile in Italia, per esempio, l'imposizione fiscale sul socio sarebbe al 71% il Francia, al 66% in Italia, al 47% in Germania, al 38% in Gran Bretagna, al 27% in Spagna.
Vediamo quali potrebbero gli obiettivi da perseguire per dare un taglio alle tasse sia sul lavoro che sulle imprese.
In linea generale, cui deve essere un tentativo di concedere benefici fiscali sugli stipendi, privilegiando la parte variabile legata alla produttività e di introdurre elementi di maggior flessibilità in termini di orario e organizzazione del lavoro. E si dovrebbe pensare sia a misure che riducano la quota fissa dello stipendio aumentando il cosiddetto salario di produttività, a misure di defiscalizzaizone presenti nelle voci della busta paga, alla riduzione del cuneo fiscale, a incentivi all’assunzione dei giovani.
Ricordiamo che in questa disputa tra tasse ed “intenzioni” di abbassarle vi è un forte disaccordo tra chi muove le leve della politica e chi difende in principi dei lavoratori e delle aziende. Infatti Mario Monti ha bocciato l'ipotesi di abbassare l'irpef, mentre il ministro del lavoro Elsa Fornero ha ribadito la necessità di ridurre le tasse sulle retribuzioni senza però intaccare il gettito, cioè le entrate complessive dello stato. Non va dimenticato, poi, che l'ultima riforma del lavoro si è mossa invece nella direzione opposta: per finanziare i nuovi sussidi alla disoccupazione e scoraggiare l'utilizzo dei contratti precari, i contributi sulle busta paga verranno infatti innalzati nei prossimi anni, piuttosto che ridotti.
L'Italia ostenta da tempo un record negativo in Europa: quello di essere uno dei paesi con il costo del lavoro lordo più alto e con le retribuzioni nette (sottratti i contributi e le tasse) meno elevate. Secondo le rilevazioni dell'Ocse il salario medio netto di un lavoratore senza figli a carico è di poco superiore a 27.700 dollari, contro gli oltre 38mila della Gran Bretagna e i 33mila circa della Germania. E nello stesso tempo le retribuzioni lorde che incidono sui conti delle imprese non sono a buon mercato, ma mettono l'Italia ai vertici della classifica europea. Colpa delle tasse e dei contributi che, secondo le statistiche dell'Ocse, nel nostro paese pesano sui salari per quasi il 47%, 1 o 2 punti in meno della Francia o alla Germania ma quasi il 10-15% in più della Gran Bretagna e alla Spagna a addirittura oltre il 20% in più rispetto agli Stati Uniti e alla Svizzera.
Questo è uno dei motivi che un lavoratore italiano che percepisce uno stipendio medio-basso, pesa sui conti della sua azienda per una cifra più che doppia. Secondo le stime del Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro, una busta paga netta di 1.300 euro al mese, comporta per l'impresa un esborso di oltre 2.700 euro ogni 30 giorni. A divorare le retribuzioni c'è una lunga sfilza di tasse e soprattutto di contributi. In primis quelli pensionistici che arrivano sino al 33% del salario (23% circa a carico delle imprese e oltre il 9% a carico del lavoratore), a cui va aggiunto un altro 7% circa per il Tfr (trattamento di fine rapporto), cioè la quota di stipendio accantonata tradizionalmente per la liquidazione (che può arrivare anche al 9-10%, con un contributo aggiuntivo, se il dipendente sceglie di destinare i soldi a un fondo della previdenza complementare). Qualche altro punto percentuale dello stipendio se ne va per i contributi sociali alla maternità e alla disoccupazione (variabili a seconda dei settori), mentre le aziende devono pagare pure l'IRAP (imposta regionale sulle attività produttive), che è legata anche al numero dei dipendenti dell'impresa.
Poi c’è l'IRPEF, (imposta sui redditi delle persone fisiche), che colpisce la busta paga (in questo caso al netto dei contributi) ed è una tassa progressiva, con aliquote comprese tra il 23 e il 43%, che crescono con l’aumento della retribuzione.
Comunque se effettivamente si vuole ridurre le tasse o i contributi sugli stipendi, il governo non avrà che l'imbarazzo della scelta, sempre che i vincoli del bilancio pubblico lo permettano e che sia la volontà di dare un aiuto concreto ai lavoratori e alle imprese.
Facciamo un esempio. Una azienda che chiude il bilancio con circa 380mila euro di utile netto ne avrebbe guadagnati molti di più, diciamo quasi 600mila, se avesse avuto sede in Spagna. Il difetto è di una tassazione effettiva complessiva che sfiora il 58% dell'imponibile, che si sarebbe fermata al 29% se invece che italiana fosse stata una impresa spagnola. Questi sono i calcoli di Confindustria, che da tempo sollecita una riforma che alleggerisca il peso del fisco su "chi tiene in piedi il Paese", sia aziende che lavoratori.
Da questo studio emerge che le imprese tedesche, le inglesi, e soprattutto le spagnole, hanno un amico nel regime fiscale del paese dove operano: meno tasse quindi più utili, un vantaggio competitivo profondo rispetto a quello che si verifica in Italia e Francia. "L'imposizione fiscale complessiva in rapporto al reddito imponibile (effective tax rate) - spiega il rapporto - è decisamente superiore in Italia (58%) rispetto alla Germania (43%), al Regno Unito (40%) e alla Spagna (29%). Di poco diversa la situazione della Francia, dove il carico fiscale complessivo (60%) risulta lievemente superiore a quello italiano per effetto dell'indeducibilità del compenso corrisposto ad amministratori esterni all'impresa".
Lo studio che Confindustria ha elaborato in collaborazione con Deloitte, calcola l'onere fiscale complessivo di una società per azioni italiana (oltre alle imposte sul reddito, anche le altre principali forme di imposizione: ad esempio, le imposte locali sugli affari, sugli immobili, di solidarietà sociale, ed altre specifiche imposte locali) e l'ipotetico onere che la stessa impresa avrebbe subito se fosse stata localizzata in uno degli altri tre Paesi presi in esame.
La società presa in esame, come esempio dallo studio (ha un fatturato di 27,7 milioni di euro, esercita attività di ricerca e sviluppo nel campo dell'automazione di processi industriali e del testing di componenti e prodotti finiti, ha 180 dipendenti, ed esporta circa il 65% delle esportazioni), una volta pagate le tasse su un utile ante imposte di 986.503 chiude il bilancio (come regime si ipotizza quello del 2009) con un utile netto di circa 383mila euro in Italia, che sarebbe più basso dell'8% se l'azienda fosse in Francia, e più alto del 20% in Germania, del 37% in Gran Bretagna, e ben del 58% in Spagna dove supererebbe quota 600mila euro (605.347).
Lo studio prende anche in esame la tassazione del reddito in capo ai soci dell'azienda per l'utile distribuito dalla società, per verificare il diverso modo di affrontare il problema della doppia imposizione e l'effettivo onere fiscale complessivo nei diversi Paesi. Ed anche in questo caso la graduatoria è confermata. Il rapporto esamina diverse ipotesi di distribuzione di un dividendo. E nel caso sia pari al 50% dell'utile distribuibile in Italia, per esempio, l'imposizione fiscale sul socio sarebbe al 71% il Francia, al 66% in Italia, al 47% in Germania, al 38% in Gran Bretagna, al 27% in Spagna.
Vediamo quali potrebbero gli obiettivi da perseguire per dare un taglio alle tasse sia sul lavoro che sulle imprese.
In linea generale, cui deve essere un tentativo di concedere benefici fiscali sugli stipendi, privilegiando la parte variabile legata alla produttività e di introdurre elementi di maggior flessibilità in termini di orario e organizzazione del lavoro. E si dovrebbe pensare sia a misure che riducano la quota fissa dello stipendio aumentando il cosiddetto salario di produttività, a misure di defiscalizzaizone presenti nelle voci della busta paga, alla riduzione del cuneo fiscale, a incentivi all’assunzione dei giovani.
Ricordiamo che in questa disputa tra tasse ed “intenzioni” di abbassarle vi è un forte disaccordo tra chi muove le leve della politica e chi difende in principi dei lavoratori e delle aziende. Infatti Mario Monti ha bocciato l'ipotesi di abbassare l'irpef, mentre il ministro del lavoro Elsa Fornero ha ribadito la necessità di ridurre le tasse sulle retribuzioni senza però intaccare il gettito, cioè le entrate complessive dello stato. Non va dimenticato, poi, che l'ultima riforma del lavoro si è mossa invece nella direzione opposta: per finanziare i nuovi sussidi alla disoccupazione e scoraggiare l'utilizzo dei contratti precari, i contributi sulle busta paga verranno infatti innalzati nei prossimi anni, piuttosto che ridotti.
L'Italia ostenta da tempo un record negativo in Europa: quello di essere uno dei paesi con il costo del lavoro lordo più alto e con le retribuzioni nette (sottratti i contributi e le tasse) meno elevate. Secondo le rilevazioni dell'Ocse il salario medio netto di un lavoratore senza figli a carico è di poco superiore a 27.700 dollari, contro gli oltre 38mila della Gran Bretagna e i 33mila circa della Germania. E nello stesso tempo le retribuzioni lorde che incidono sui conti delle imprese non sono a buon mercato, ma mettono l'Italia ai vertici della classifica europea. Colpa delle tasse e dei contributi che, secondo le statistiche dell'Ocse, nel nostro paese pesano sui salari per quasi il 47%, 1 o 2 punti in meno della Francia o alla Germania ma quasi il 10-15% in più della Gran Bretagna e alla Spagna a addirittura oltre il 20% in più rispetto agli Stati Uniti e alla Svizzera.
Questo è uno dei motivi che un lavoratore italiano che percepisce uno stipendio medio-basso, pesa sui conti della sua azienda per una cifra più che doppia. Secondo le stime del Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro, una busta paga netta di 1.300 euro al mese, comporta per l'impresa un esborso di oltre 2.700 euro ogni 30 giorni. A divorare le retribuzioni c'è una lunga sfilza di tasse e soprattutto di contributi. In primis quelli pensionistici che arrivano sino al 33% del salario (23% circa a carico delle imprese e oltre il 9% a carico del lavoratore), a cui va aggiunto un altro 7% circa per il Tfr (trattamento di fine rapporto), cioè la quota di stipendio accantonata tradizionalmente per la liquidazione (che può arrivare anche al 9-10%, con un contributo aggiuntivo, se il dipendente sceglie di destinare i soldi a un fondo della previdenza complementare). Qualche altro punto percentuale dello stipendio se ne va per i contributi sociali alla maternità e alla disoccupazione (variabili a seconda dei settori), mentre le aziende devono pagare pure l'IRAP (imposta regionale sulle attività produttive), che è legata anche al numero dei dipendenti dell'impresa.
Poi c’è l'IRPEF, (imposta sui redditi delle persone fisiche), che colpisce la busta paga (in questo caso al netto dei contributi) ed è una tassa progressiva, con aliquote comprese tra il 23 e il 43%, che crescono con l’aumento della retribuzione.
Comunque se effettivamente si vuole ridurre le tasse o i contributi sugli stipendi, il governo non avrà che l'imbarazzo della scelta, sempre che i vincoli del bilancio pubblico lo permettano e che sia la volontà di dare un aiuto concreto ai lavoratori e alle imprese.
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lunedì 21 maggio 2012
Tasse sul lavoro Italia al top
Eurostat ha diffuso i dati relativi alla pressione fiscale dei vari stati sui contribuenti europei; tra i dati si evidenziano inoltre quelli relativi al costo sul lavoro, ossia la pressione fiscale dello Stato sulle aziende per i lavoratori occupati. Purtroppo l’Italia questa volta esce vincitrice, o di nuovo sconfitta a seconda di come si vuol leggere la classifica.
Nel 2010, in base ai dati resi noti oggi, il peso 'implicito' - ovvero tasse più oneri sociali - dello Stato sul costo del lavoro è salito dal 42,3 del 2009 al 42,6%. Nei 17 Paesi dell'Eurozona il tasso medio è stato del 34%.
Quest'anno il peso del fisco sulle spalle degli italiani - persone fisiche - è destinato a crescere di quasi due punti percentuali passando dal 45,6 al 47,3%. Lo ha reso noto oggi Eurostat, secondo il quale resterà invece ferma al 31,4% la pressione sulle aziende.
L'Italia era al settimo posto nella graduatoria europea del 2007 per pressione fiscale apparente e passa al quinto nel 2012 per effetto di un incremento di pressione e per il fatto che Danimarca, Svezia e Belgio riducono la propria pressione. È quanto emerge dallo studio di Confcommercio presentato al Forum di Cernobbio su «Le prospettive economiche dell'Italia nel breve-medio termine».
I lavoratori italiani sono quelli che pagano più tasse in Europa. Ma non solo, la pressione fiscale è aumentata.
I dati Eurostat relativi al biennio 2009-2010 diffusi oggi parlano chiaro: la media europea di contributi da lavoro dipendente con l’aggiunta degli oneri sociali si attestano al 34 per cento della retribuzione, mentre in Italia si è saliti dal 42,3 per cento del 2009 al 42,6 per cento del 2010.
Nel 2010, in base ai dati resi noti oggi, il peso 'implicito' - ovvero tasse più oneri sociali - dello Stato sul costo del lavoro è salito dal 42,3 del 2009 al 42,6%. Nei 17 Paesi dell'Eurozona il tasso medio è stato del 34%.
Quest'anno il peso del fisco sulle spalle degli italiani - persone fisiche - è destinato a crescere di quasi due punti percentuali passando dal 45,6 al 47,3%. Lo ha reso noto oggi Eurostat, secondo il quale resterà invece ferma al 31,4% la pressione sulle aziende.
L'Italia era al settimo posto nella graduatoria europea del 2007 per pressione fiscale apparente e passa al quinto nel 2012 per effetto di un incremento di pressione e per il fatto che Danimarca, Svezia e Belgio riducono la propria pressione. È quanto emerge dallo studio di Confcommercio presentato al Forum di Cernobbio su «Le prospettive economiche dell'Italia nel breve-medio termine».
I lavoratori italiani sono quelli che pagano più tasse in Europa. Ma non solo, la pressione fiscale è aumentata.
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