La Commissione Ue proporrà ai 27 di chiudere la procedura di deficit eccessivo raccomandando all'Italia di andare avanti sulla strada del risanamento dei conti pubblici. E' quanto emerge dalla bozza del documento con le 'raccomandazioni' Ue che dovrebbe essere approvata mercoledì prossimo dalla Commissione europea
Letta all'Ue: fare di più per il lavoro - Il paletto del rapporto deficit/Pil al 3% resta invalicabile, ma al suo interno si possono sfruttare i margini concessi dal Patto di Stabilità ai Paesi virtuosi; se tuttavia questa flessibilità non dovesse bastare per realizzare tutti i provvedimenti annunciati il governo dovrà decidere a quali misure dare la priorità. Fonti di governo riassumono così la linea tracciata durante il vertice convocato da Enrico Letta a palazzo Chigi, per fare il punto con il vicepremier Angelino Alfano e il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni sulla situazione economica.
Per quanto concerne il lavoro, la partita si giocherà soprattutto al vertice Ue di fine giugno. Letta ha illustrato il percorso in vista di quell'appuntamento, riferendo anche del lungo incontro avuto ieri sera con i ministri Giovannini (Lavoro) e Moavero (Affari Europei). Il premier ha poi illustrato le proposte con cui intende presentarsi al tavolo europeo: ed in particolare, oltre all'uso del fondo sociale e all'anticipazione del piano Ue per l'occupazione giovanile, la possibilità di scorporare dai bilanci le spese nazionali concordate con l'Ue per il rilancio dell'occupazione.
Premier Letta scrive a Van Rompuy - Avere finanze pubbliche sane serve. Ma se l'Ue ''non è capace di intervenire per risolvere la disoccupazione, finirà per alimentare sentimenti di frustrazione e risentimento'' facendo crescere ''movimenti populisti ed antieuropei''. Lo scrive Enrico Letta a Van Rompuy chiedendo di fare di piu' per la lotta alla disoccupazione.
Il presidente del consiglio, Enrico Letta, ha infatti risposto alla lettera con la quale il presidente del consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha annunciato che la lotta alla disoccupazione, specie quella giovanile, sarà al centro del prossimo vertice europeo di giugno. "La lotta alla disoccupazione giovanile - scrive Letta - rappresenta la sfida prioritaria, per l'Italia e per l'Europa" anche alla luce degli ultimi dati che "dimostrano che il problema ha raggiunto livelli allarmanti praticamente in tutti gli Stati membri". Pur riconoscendo che sulla questione sono stati fatti "passi avanti importanti" questi, sottolinea, "non sufficienti. Vi sono diversi fronti - avverte - su cui dobbiamo e possiamo fare di più".
La Commissione Ue proporrà ai 27 di chiudere la procedura di deficit eccessivo raccomandando all'Italia di andare avanti sulla strada del risanamento dei conti pubblici. E' quanto emerge dalla bozza del documento con le 'raccomandazioni' Ue che dovrebbe essere approvata mercoledì prossimo dalla Commissione europea
domenica 26 maggio 2013
Ministro del lavoro Enrico Giovannini e il capitolo pensioni
Per le pensioni c’è l’ipotesi uscite flessibili per risolvere il duro nodo sugli esodati.
Infatti, con le penalizzazioni il governo Letta punta a svuotare la platea dei senza tutele. Ma c’è il nodo del livello dei disincentivi: il 2% l’anno potrebbe non bastare.
Un modello di pensionamento flessibile ancora da definire nei suoi contorni esatti, ma che in prospettiva potrebbe anche disinnescare la mina degli esodati, i lavoratori da salvaguardare rispetto alle conseguenze della riforma Fornero. Al ministero del lavoro i dossier aperti sono tanti, da quello relativo agli sgravi per l’assunzione di giovani agli aggiustamenti alle norme sul mercato del lavoro.
Sul fronte della previdenza si sta lavorando soprattutto a due progetti: da una parte la cosiddetta staffetta
generazionale tra giovani e anziani, dall’altra il possibile abbassamento, con penalizzazione, dell’età minima di uscita. Progetti entrambi non semplici e potenzialmente costosi per il bilancio dello Stato; ma in grado di ammorbidire le conseguenze delle regole pensionistiche introdotte a fine 2011 sull’onda dell’emergenza finanziaria.
La legge Fornero-Monti sulle pensioni ha di fatto spostato in avanti la data dell’uscita del lavoro, anche di molti anni, creando come effetto parallelo una considerevole porzione di lavoratori che si ritrovano o si ritroveranno senza stipendio ma anche senza pensione: perché l’azienda li ha messi fuori, o loro stessi si sono dimessi, in previsione di un’andata a riposo che poi si è rivelata un traguardo lontano o lontanissimo. Finora per tutelare queste persone si è scelta la strada dell’eccezione rispetto ai vincoli stringenti della riforma: in più riprese 130 mila persone sono state ammesse a usufruire delle vecchie regole.
Si sta lavorando per estendere la platea, probabilmente non in modo particolarmente incisivo visto anche l’esiguità delle risorse a disposizione; ma il problema verrà affrontato anche da un altro lato proprio attraverso il pensionamento flessibile. 62 anni erano l’età richiesta per l’uscita, insieme a 35 di contributi, con le norme precedenti alla riforma Fornero: la famosa “quota 97” che sarebbe dovuta scattare nel 2013.
Quindi lasciare il lavoro con questi requisiti, seppur con una penalizzazione economica, la gran parte dei lavoratori coinvolti ritroverebbe il percorso segnato negli anni passati.
I tempi saranno forse un po’ più ravvicinati per il progetto della staffetta generazionale, ossia la possibilità per i lavoratori più anziani di svolgere a tempo parziale gli ultimi anni di lavoro, in cambio dell’assunzione di giovani. C’è però un problema di costi: anche escludendo specifici incentivi retributivi, il solo costo della contribuzione figurativa a carico dello Stato si aggira sugli 8 mila euro l’anno per ciascun interessato, nell’ipotesi di un reddito medio basso. Se i lavoratori coinvolti fossero centomila la spesa sarebbe di 800 milioni il primo anno, indirizzata poi a crescere negli anni successivi.
Vediamo le ipotesi della flessibilità in uscita. La riforma Dini (1995) prevedeva una flessibilità in uscita tra i 57 e i 65 anni, misurata su un sistema di penalizzazioni o premi per indurre al posticipo basata sui coefficienti di trasformazione del montante contributivo in pensioni. Visse per poco tempo quel sistema, messo a punto dal ministro del Lavoro, Tiziano Treu. In pochissimi lo utilizzarono davvero per scegliere il momento del pensionamento. Appena entrata in vigore la riforma che ci avrebbe proiettato nel sistema contributivo puro, arrivarono nuovi Governi con nuove soluzioni: Antonio Bassolino e Cesare Salvi con i decreti per le pensioni anticipate dei lavoratori impegnati in attività usuranti spostarono l'attenzione su platee particolari di beneficiari. E poi arrivò Roberto Maroni, che quasi accantonò la flessibilità e reintrodusse elementi retributivi con i nuovi requisiti per l'anzianità incrementati (il famoso scalone), successivamente mitigati ma non cancellati dalle "quote" di Cesare Damiano. Ci siamo affrontati con un susseguirsi di interventi, proseguito con le "finestre mobili" di Maurizio Sacconi e che si sarebbe concluso con la riforma Fornero dell'autunno 2011.
L'attuale sistema, che il Governo Letta intende correggere, prevede il superamento delle anzianità e il pensionamento di vecchiaia a 66 anni con 20 anni minimi di contributi. Il nuovo requisito viene innalzato gradualmente per le lavoratrici private ma entro il 2021 per tutti varrà il requisito dei 67 anni, raggiunto con l'aggancio del pensionamento effettivo alle aspettative di vita. La flessibilità in uscita c'è ma prevede delle penalizzazione: fino al 2014 gli uomini con 42 anni e tre mesi di versamenti (41 e tre mesi per le donne) possono andare in pensione anche prima del 62 anni, ma perdono l'1% della pensione per ogni anno di anticipo (entro un massimo di due anni) e del 2% per ogni anno ulteriore rispetto ai primi due. Per esempio se un lavoratore con 42 anni e 2 mesi decidesse quest'anno di andare in pensione a 58 anni perde il 6% della pensione.
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Rapporto annuale dell'ISTAT: lo stipendio medio è mille euro
Le differenze permangono anche a parità di caratteristiche e aumentano col crescere dell'anzianità lavorativa, poiché al precario non si applicano gli scatti di anzianità. "La differenza è di 85 euro per chi una carriera lavorativa di 20 anni e oltre, non necessariamente tutta da atipico" ha precisato l'Istat nel suo rapporto annuale.
Nel 2012 la retribuzione mensile di un dipendente a termine è 1.070 euro, 355 euro in meno rispetto a chi ha il posto fisso.
Il lavoro del precario vale meno: in media chi non ha un posto fisso prende uno stipendio più basso del 25% rispetto agli altri lavoratori. A certificarlo è l'Istat nel Rapporto annuale. Nel 2012 la retribuzione media mensile netta di un dipendente a termine che lavora a tempo pieno si ferma a 1.070 euro, 355 euro in meno rispetto a un dipendente assunto a tempo indeterminato.
L'ISTAT parla di lavoratore "atipico", comprendendo in questa categoria chi vive di contratti a termine e collaborazioni. E spiega nel Rapporto come «un indicatore importante dello svantaggio del lavoro atipico è dato dal differenziale retributivo con l'occupazione standard», ovvero stabile e senza riduzioni d'orario. Guardando solo a chi è full time, tra un dipendente a tempo determinato e uno a tempo indeterminato il divario, pari in media a un quarto, è dovuto a più ragioni, anche se ormai può essere considerato una costante.
«Il differenziale è in parte spiegato da effetti di composizione, quali l'età, il settore di attività, la professione. Ma – ha sottolineato l'Istituto - le differenze permangono anche a parità di caratteristiche e aumentano al crescere dell'anzianità lavorativa, poiché al tempo determinato non si applicano gli scatti di anzianità». Ecco che, evidenzia, «la differenza è di 85 euro per chi lavora da appena due anni e cresce a 392 euro per chi ha una carriera lavorativa di 20 anni e oltre, non necessariamente tutta da atipico».
Nel 2012 la retribuzione mensile di un dipendente a termine è 1.070 euro, 355 euro in meno rispetto a chi ha il posto fisso.
Il lavoro del precario vale meno: in media chi non ha un posto fisso prende uno stipendio più basso del 25% rispetto agli altri lavoratori. A certificarlo è l'Istat nel Rapporto annuale. Nel 2012 la retribuzione media mensile netta di un dipendente a termine che lavora a tempo pieno si ferma a 1.070 euro, 355 euro in meno rispetto a un dipendente assunto a tempo indeterminato.
L'ISTAT parla di lavoratore "atipico", comprendendo in questa categoria chi vive di contratti a termine e collaborazioni. E spiega nel Rapporto come «un indicatore importante dello svantaggio del lavoro atipico è dato dal differenziale retributivo con l'occupazione standard», ovvero stabile e senza riduzioni d'orario. Guardando solo a chi è full time, tra un dipendente a tempo determinato e uno a tempo indeterminato il divario, pari in media a un quarto, è dovuto a più ragioni, anche se ormai può essere considerato una costante.
«Il differenziale è in parte spiegato da effetti di composizione, quali l'età, il settore di attività, la professione. Ma – ha sottolineato l'Istituto - le differenze permangono anche a parità di caratteristiche e aumentano al crescere dell'anzianità lavorativa, poiché al tempo determinato non si applicano gli scatti di anzianità». Ecco che, evidenzia, «la differenza è di 85 euro per chi lavora da appena due anni e cresce a 392 euro per chi ha una carriera lavorativa di 20 anni e oltre, non necessariamente tutta da atipico».
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