domenica 15 dicembre 2013

Posti di lavoro Google con il turismo online




Uno dei dati presentati al 'Buy tourism on line' dalla ricerca realizzata per Google da Oxford Economics, con l'incremento di contenuti turistici on line in Italia si potrebbe dare un impulso all'economia per 250 mila posti di lavoro in più. E' uno dei dati presentati oggi al sesto 'Buy tourism on line' a Firenze dalla ricerca realizzata per Google da Oxford Economics, che ha studiato i casi di Grecia, Italia e Spagna sul tema del Travel 2.0.

Se l'Italia puntasse sul turismo online, il "premio" potrebbe essere di circa 250 mila posti di lavoro in più. È quanto emerge da una ricerca realizzata per Google da Oxford Economics, che ha studiato i casi di Grecia, Italia e Spagna sul Travel 2.0. "Con l'incremento di contenuti turistici online in Italia si potrebbe dare un impulso all'economia per 250 mila posti di lavoro", sostiene la ricerca.

Mentre, in Grecia - si legge nella ricerca presentata da Diego Ciulli, senior policy analyst di Google Italy- sarebbero 100.000 i posti di lavoro in più se si incrementasse l'utilizzo di internet nel settore del turismo e 50.000 in Spagna. Questo poterà a una crescita del pil del 3% in Grecia, del 1% in Italia e dello 0,5 in Spagna".

"Internet è sottoutilizzato -continua- nei paesi presi in considerazione dalla ricerca. Il 76% dei nuclei familiari sono on line e ben il 51% usa internet per viaggiare. La percentuale di ricerche su destinazioni di viaggio legate alla cultura sono: il 45% in Grecia, il 31 in Italia e il 44 % in Spagna. Internet svolge un ruolo vitale e sempre crescente nel settore dei viaggi europei. Infatti, secondo la ricerca, tra le fonti di informazione più importanti sono in primis i suggerimenti degli amici e al secondo posto la fonte più utilizzata è la rete".

"Tuttavia, anche se la domanda di turismo -osserva Ciulli- si sta orientando sempre di più verso l'ambiente on line, e la cultura è un fattore motivante, solo una proporzione relativamente bassa di operatori in Spagna, Italia e Grecia usa il commercio elettronico per entrare in contatto con potenziali clienti. Un tale squilibrio presenta una significativa opportunità per incrementare le vendite mediante un'adozione più ampia da parte del settore delle piattaforme di vendita e di marketing via Internet".

"L'Italia può contare su un brand fatto di prodotti, di stile di vita, di cultura apprezzato e ricercato all'estero, il Made in Italy, ancora poco presente on line. In questo senso internet può rappresentare uno straordinario volano di crescita per far conoscere le eccellenze del nostro Paese e proprio per questo, come ha annunciato Eric Schmidt a Roma lo scorso ottobre, Google ha deciso di investire in un progetto sul made in Italy".

Uno dei suoi programmi più noti è il «20% time project», tempo libero puro per lavorare allo sviluppo di idee proprie. Ma c’è anche il TGIF (Thanks God it’s Friday - Grazie a Dio è Venerdì), momento in cui Larry Page e Sergey Brin rispondono alle domande dei dipendenti senza esclusione di colpi (a seguire birra). Non c’è da sorprendersi dunque se quest’anno, a scalare la classifica dei migliori posti di lavoro nel mondo, ci sia proprio Google. E non tanto per la birra e il «20% project» che ha fatto nascere Gmail («mai abolito» fanno sapere dall’azienda), quanto per l’appeal del motore di ricerca e la soddisfazione dei googler, i lavoratori del colosso di Mountain View.

Google è infatti stata incoronata da Great place to work la «best multinational workplace». È la prima volta da quando la società americana ha avviato l’indagine a livello globale. Al secondo posto Sas Institute e al terzo gradino Netapp, tutte aziende del settore information technology. «È un comparto tendenzialmente giovane — spiega Alessandro Zollo, amministratore delegato di Great Place to Work Italia — che ha un approccio alle risorse umane un po’ diverso da quello tradizionale, tende a liberare creatività e ingegno». E non si tratta del calcio balilla o degli uffici open space “alternativi” dov’è possibile portarsi dietro pure il cane, come succede per i lavoratori di Mountain View. «È il differente approccio — fanno sapere dalla società che stila la graduatoria — sempre teso a conquistare la fiducia e la soddisfazione dei dipendenti con strategie di welfare e di conciliazione dei tempi vita-lavoro». Come dimostrano i programmi valutati da GPTW: dai premi per l’eccellenza di Marriott alla settimana in famiglia di Autodesk concessa, fuori dal monte ferie, durante il periodo delle feste natalizie per consentire ai dipendenti di trascorrere ulteriore tempo con le famiglie.

E così, mentre al Pil si vanno affiancando sempre più calcoli di benessere che scattano fotografie dei Paesi più virtuosi del mondo, allo stesso modo il fattore di gratificazione continua ad essere seriamente preso in considerazione da molte multinazionali. Superfluo citare gli innumerevoli studi secondo cui i dipendenti felici hanno una produttività addirittura del 31% superiore alla media. Molte cercano di adottare strategie tese all’ascolto e alla fiducia indipendentemente da questo fa parte della loro cultura, ci credono. E non hanno paura di essere sottoposte al giudizio dei lavoratori: circa 6200, quest’anno, le società che hanno partecipato alla ricerca e tre milioni i dipendenti coinvolti. Il podio che ne viene fuori è tutto a stelle e strisce: dalle californiane Google, Sas e NetApp si passa a Microsoft che dal quinto posto del 2012 avanza di un gradino incassando quest’anno la medaglia di legno. L’azienda di Bill Gates ha del resto ben altre questioni da affrontare in questo momento e dopo l’acquisizione di Nokia è alla ricerca di un sostituto di Steve Ballmer per la poltrona di amministratore delegato.

E l’Italia? Come per l’indagine europea, il nostro paese resta completamente fuori dalla classifica Great place to work: nessuna delle imprese made in Italy ha raggiunto il range dei 25 migliori luoghi di lavoro. E diminuiscono pure le sedi italiane delle multinazionali presenti in graduatoria (erano dodici nel 2011, oggi sono otto).

mercoledì 11 dicembre 2013

Lavoratore dipendente in ferie: nessun obbligo di reperibilità




Il lavoratore dipendente è libero di scegliere le modalità e le località per usufruire di un periodo di ferie che ritenga più utili”. E la sua reperibilità “può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio, ma non già del lavoratore in ferie.

La Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro può sospendere le ferie solo prima della partenza per le vacanze. In sostanza la Suprema Corte protegge il posto di lavoro per i dipendenti che sono in ferie e per le neo spose durante il primo anno di nozze.

Con due sentenze depositatela numero 27057 e 27055, i giudici, annullano similmente licenziamenti bollandoli come illegittimi. Nel primo caso la massima sanzione era stata disposta nei confronti di un tecnico del Comune colpevole di essersi reso introvabile durante le ferie, ignorando l'ordine di rientrare in servizio. Secondo il datore l'obbligo di rispondere derivava da una precisa norma del contratto collettivo che imponeva la reperibilità e poco importava che le comunicazioni non fossero mai state ritirate.

Dal canto suo l'ente locale rivendicava il diritto di revocare le ferie già concesse e affermava il dovere del dipendente di interrompere gli "ozi" e presentarsi in ufficio.

La Cassazione invita a leggere correttamente le norme ossia CCNL. Non c'è dubbio che il datore debba essere informato del luogo in cui inviare le comunicazioni al suo dipendente, ma il diritto non si estende ai periodi di ferie, che sono un bene costituzionalmente tutelato. Esiste poi anche un'esigenza di privacy, coniugata con l'assoluta libertà per il lavoratore di andare dove vuole a recuperare le sue energie psicofisiche. Impresa difficile se si è obbligati a sopportare lo stress di dare le coordinate dei propri spostamenti.

Il datore, per esigenze organizzative, può modificare i periodi di ferie ma deve farlo, con un congruo preavviso, prima che queste abbiano inizio. La norma invocata specifica il diritto al rimborso delle spese documentate del viaggio interrotto per motivi di servizio, ma non fa alcun riferimento alle modalità con cui l'interruzione può essere adottata. Al contrario la giurisprudenza ha affermato il dovere di una comunicazione tempestiva ed efficace prima che il lavoratore abbia fatto le valige, momento dal quale cessa ogni obbligo di reperibilità.

Un'altra lancia contro i licenziamenti, in questo caso discriminatori, la Cassazione la spezza in favore delle neo spose (sentenza 27055). Il divieto di licenziare la lavoratrice che ha detto sì vale per l'intero anno delle nozze. Né il licenziamento può essere giustificato da ragioni di ristrutturazione e di ridimensionamento dell'organico, essendo la deroga al divieto ammessa solo in caso di cessazione dell'attività dell'azienda. La garanzia, assicurata dalla legge 7 del 1973 ha la stessa finalità della legge 1204/1971 che impedisce il licenziamento della lavoratrice madre. «Si tratta di provvedimenti legislativi che nel loro insieme - si legge nella sentenza - tendono a rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di passaggio "esistenziale" particolarmente importanti».

Per questo alla lavoratrice è risparmiato anche l'onere di provare il carattere discriminatorio del licenziamento, mentre spetta al datore dimostrare il contrario.

In base queste delucidazioni Un’eventuale opposta interpretazione delle norme sarebbe, infatti, “una compressione del diritto alla ferie - conclude la Suprema Corte - costringendo il lavoratore in viaggio non solo a far conoscere al datore di lavoro i luoghi e i tempi dei suoi spostamenti, ma anche ad un’inammissibile e gravosa attività di comunicazione formale, magari giornaliera, dei suoi spostamenti”.


Tasse un vero incubo, addizionali per 503 euro



Conto salato per gli italiani sul fronte delle addizionali comunali e regionali Irpef. In cinque anni, dal 2009 al 2013, il gettito è aumentato del 36%, passando in media da 391 a 503 euro a testa.

In cinque anni, dal 2009 al 2013, il gettito delle addizionali comunali e regionali è aumentato del 36%, passando in media da 391 a 503 euro, appunto. Nello stesso quinquennio i prezzi sono aumentati di circa l’11%. Una bella stangata, dunque. Che l’anno prossimo potrebbe ripetersi. Nello stesso quinquennio i prezzi sono aumentati di circa l’11%. Una bella stangata, dunque. Che l’anno prossimo potrebbe ripetersi.

Per il 2014, infatti, le Regioni potranno decidere ulteriori incrementi del balzello Irpef di loro competenza fino a 0,6 punti, portando l’aliquota al 2,33%, che significherebbe altri 141 euro in più a testa, che diventerebbero 153 calcolando anche 12 euro aggiuntivi di addizionale comunale se i municipi che ancora non l’hanno fatto decidessero di deliberare l’aliquota massima dello 0,8%.

I calcoli li ha fatti il dipartimento Politiche territoriali della Uil, che ha preso in esame le aliquote deliberate dalle Regioni e dai Comuni e le ha rapportate all’imponibile medio ai fini delle addizionali, che risulta, secondo i dati del ministero dell’Economia, di 23mila euro lordi pro capite. I risultati sono allarmanti, dice il segretario confederale Guglielmo Loy, che osserva: «I comuni si stanno affrettando a disporre aumenti generalizzati delle aliquote. Ciò accade anche per effetto dell’incertezza che domina sulle risorse, sopratutto per quanto riguarda l’Imu». I sindaci, insomma, non sapendo bene come andrà a finire la partita sulla seconda rata dell’Imu, sfruttano i margini di aumento delle addizionali 2013, benché l’anno sia quasi finito. Hanno ancora tre settimane di tempo per farlo e chiudere i bilanci. Ma il sistema è talmente assurdo che quello che i comuni devono approvare entro il 30 novembre è il bilancio preventivo (sic!) 2013. Comunque sia, il gettito delle addizionali vale ormai quasi 15 miliardi e mezzo (11,5 quello delle regionali e 4 quello delle comunali), con un aumento di oltre 4 miliardi sul 2009.

A livello regionale quest’anno l’aliquota Irpef aumenta in Toscana (1,43% fino a 15mila euro, 1,73% oltre) e Abruzzo (1,73%). Ma le aliquote massime restano nelle tre Regioni con i peggiori bilanci sanitari: Campania, Calabria e Molise, dove siamo al 2,03%. Sono invece solo 5 le aree che applicano l’aliquota di base dell’1,23%: Val d’Aosta, Bolzano, Trento, Veneto e Sardegna. Sommando addizionali regionali e comunali, la classifica dei più tartassati vede in testa Campobasso, Napoli e Salerno con 651 euro, seguite da Roma con 605 euro e da Chieti, Genova, Imperia, Messina, Palermo e Teramo con 582.

Le addizionali comunali Irpef furono istituite dal governo Prodi nel 1997 e si pagano dal 1999. L’idea era che a fronte del gettito dovesse esservi un corrispettivo in termini di servizi, secondo un principio di responsabilità e verifica, per evitare quanto aveva denunciato la Corte dei Conti, cioè che dal 1991 al 1996 le imposte comunali fossero aumentate del 124% senza che si capisse il perché. Una corsa che non si è fermata. Nel 2003 il gettito delle addizionali Irpef regionale e comunale fu di 6,8 miliardi. Dieci anni dopo siamo a 15 milardi e mezzo. E non è finita. L’anno prossimo dovrebbe arrivare la Tasi, la nuova tassa sui servizi indivisibili: illuminazione pubblica, polizia locale, strade, ecc. Come se finora i contribuenti non fossero stati spremuti anche per finanziare questi servizi. Della serie «non basta mai».

Per l’addizionale Irpef comunale gli italiani pagheranno quest’anno in media 140 euro a testa contro i 129 del 2012, l’8,5% in più, mentre per l’addizionale Irpef regionale, il conto sale dell’1,1%, e pesa in media per 363 euro. Insomma un bel salasso.

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