domenica 16 novembre 2014

Contratto di lavoro con tutele crescenti



L’introduzione del contratto unico a tutele crescenti è stabilita dall’articolo 4 della Delega. L’iter parlamentare e il dibattito politico hanno già modificato l’ipotesi originaria di applicarlo solo agli ingressi nel mondo del lavoro (giovani al primo impiego), prevedendo il contratto indeterminato a tutele crescenti per tutti i lavoratori che stipulano un nuovo contratto con un’azienda. Sarebbe quindi esteso a tutte le assunzioni di personale (passaggi da un’azienda all’altra, riassorbimento disoccupati e via dicendo) a tempo indeterminato.

"Il contratto a tutele crescenti è il primo obiettivo che vogliamo portare in porto per fine anno". Lo ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.

Un obiettivo che il ministro Poletti indica per far sì che "a gennaio le imprese e i lavoratori possano utilizzare le scelte che abbiamo fatto nella legge di stabilità di ridurre il costo del lavoro in modo che la percentuale di contratti a tempo indeterminato cresca in maniera importante". Il ministro del Lavoro a proposito del tempi indeterminati ha ricordato che oggi sono il 15% dei nuovi avviamenti: "un numero troppo basso. Noi vogliamo che aumentino percentualmente i contratti a tempo indeterminato a tutela crescente e quindi lo faremo sicuramente per l'inizio dell'anno".

Taddei, conflitto con sindacati non ci fa desistere -  Oggi è in corso "un conflitto un pò troppo intenso, forse, con le organizzazioni sindacali, ma ciò non ci fa desistere. Non siamo spaventati dal pagare quello che può apparire un piccolo prezzo di consenso nel breve periodo, per realizzare il cambiamento". E' quanto sottolinea il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, intervenendo all'assemblea dell'associazione 'Libertà eguale'. Le riforme del governo, non sono "solo veloci, ma hanno il capitale politico del consenso", aggiunge.

Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.

Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque - sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani - i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.

Certo, ma a tutele crescenti, che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro).

La necessità di far passare una ulteriore riforma dell’articolo 18 attraverso le maglie di un nuovo “tipo contrattuale”, quale sarebbe il “contratto di lavoro a tutele crescenti”, complicherebbe invece le cose: non solo, sul piano sistematico, per la difficoltà di concepire un contratto la cui “tipicità” o “specialità” consista nella ridotta applicazione di un importante segmento di disciplina, anziché in una diversa struttura causale o anche solo tipologica; ma anche, sul piano normativo, per la difficoltà di immaginare un regime di maggior protezione, che dovrebbe operare al momento della maturazione del “picco massimo” delle tutele, e che non consista nel ripristino sic et simpliciter del vecchio articolo 18 (quello, beninteso, anteriore alla riforma Fornero).

La veicolazione della riforma dell’articolo 18 attraverso la figura del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, insomma, per un verso esaspera la carenza di tutele nella fase della “crescita delle tutele”, e per l’altro irrigidisce eccessivamente le tutele da riconoscersi al termine della fase di “crescita”.

Si tratta, a ben vedere, di un’idea che presuppone il superamento della logica gradualistica insita nella riforma Fornero: una logica ragionevole e praticabile, che è stata, forse, affossata dalle resistenze opposte da una parte importante della dottrina e della giurisprudenza.



giovedì 13 novembre 2014

Ultima busta paga a dipendente dimesso



Ogni lavoratore ha la facoltà di recedere dal contratto di lavoro stipulato col datore di lavoro trasmettendogli una lettera di dimissioni scritta in forma libera.

Il datore di lavoro deve provvedere al pagamento del T.F.R. attraverso la busta paga con la quale eroga l’ultima retribuzione, che, ovviamente, deve essere corrisposto al termine effettivo del rapporto di lavoro e, quindi, con le stesse modalità seguite fino ad oggi, a meno che le parti non si mettano d’accordo diversamente, ma sempre consegnando la busta paga al lavoratore.

Solitamente, nel giro di due o tre mesi, il datore di lavoro provvede a regolarizzare la posizione del dipendente dimesso, quindi, trascorso tale periodo, le consiglio di metterlo ufficialmente in mora a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.

Essendosi dimesso, inoltre, non potrà ottenere l’indennità di disoccupazione, la quale spetta, nel caso di recesso dal rapporto di lavoro da parte del dipendente, solo quando le dimissioni sono sorrette da giusta causa, ma non è questo il suo caso, tanto è vero che ha concesso il preavviso.

Potrà, dunque, solamente rivolgersi a un Centro per l’impiego, al fine di iscriversi al cosiddetto Elenco anagrafico dei lavoratori, anche se non attenderei troppo fiduciosamente di essere “chiamato” per riprendere a lavorare a breve.

Le competenze di fine rapporto, vengono generalmente erogate entro il mese successivo alla fine del rapporto di lavoro. Le consiglio al momento della riscossione, di non firmare alcun documento se non, per "presa visione". E' un suo diritto far controllare sia il TFR che le competenze di Fine Rapporto. Lei ha 5 anni di tempo per far controllare le sue spettanze. Se ci fa sapere in quale settore lavora, potremmo indirizzarla ad una ns. struttura nella sua città.

In realtà, l’ultimo stipendio dovrebbe essere erogato al termine del rapporto di lavoro o comunque entro i tempi tecnici necessari al datore di lavoro per provvedere al pagamento e all’emissione della relativa busta paga, quantificabile, in genere, in circa tre mesi. Al posto suo, se entro giugno non mi fosse corrisposta la retribuzione, mi rivolgerei a un avvocato per chiedere al giudice del lavoro un decreto ingiuntivo.

Per quanto riguarda, invece, le ore di lavoro straordinario, è lei che dovrebbe sapere se può dimostrarlo. Le posso solo dire che la relativa prova può essere offerta non solo tramite dei documenti (per i quali si può chiedere al giudice anche un ordine di esibizione se fossero in possesso solo del datore), ma anche attraverso testimoni.

Il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) è un elemento della retribuzione la cui erogazione è differita al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Un tempo si chiamava indennità di anzianità proprio perché il suo scopo era quello di fungere da buonuscita, premiando i lavoratori che restavano di più in azienda.

La busta paga TFR non è altro che il cedolino che riepiloga sinteticamente le principali componenti della liquidazione del dipendente e ne mette in evidenza le rivalutazioni ISTAT, le ritenute fiscali, le eventuali anticipazioni erogate in costanza di rapporto, gli acconti e naturalmente l'importo netto finale spettante.

Nella prassi aziendale la busta paga TFR viene emessa materialmente sia al momento della cessazione finale del rapporto di lavoro, sia al momento della corresponsione di una anticipazione, se il lavoratore o la lavoratrice ne hanno diritto, in costanza di rapporto di lavoro.



domenica 9 novembre 2014

Contratto a tempo determinato si cambia entro dicembre 2014



Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato, nel quale esiste un tempo ben preciso di durata del contratto con una data che indica la fine del rapporto.

L’apposizione del termine, a pena di nullità, deve risultare dall’atto scritto, direttamente (data, evento) o indirettamente dal contesto complessivo dell’atto medesimo.

Nel nostro ordinamento, il rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un datore di lavoro, trova la sua forma comune nel contratto a tempo indeterminato, cioè in un contratto che non prevede l’indicazione di una data di conclusione del rapporto, determinando un miglioramento della qualità della vita, anche psicologica, e di stabilità economica dei lavoratori.

Quale è il vantaggio che offre, invece, un contratto di lavoro a tempo determinato? Sicuramente, tale tipologia contrattuale risponde, in determinate circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori in maniera più efficace rispetto ad un contratto a tempo indeterminato.

Il contratto di lavoro a tempo determinato, inserito in un contesto in cui è possibile una partecipazione continua al mercato del lavoro con la percezione di un reddito adeguato per la pianificazione della propria vita, può costituire espressione della c.d.“flessibilità buona” per il lavoratore e per il datore di lavoro.

I chiarimenti in merito alle trasformazioni di contratti di lavoro a tempo determinato e alle sanzioni che verranno applicate in caso di superamento dei limiti.

Il Dl n.34/14 ha imposto nuove regole in termini di limite massimo di contratti a termine che può stipulare un’azienda ma, in caso di rapporti di lavoro già in essere prima dell’entrata in vigore del Decreto, alle aziende che sforano il tetto del 20% di contratti a tempo determinato non verranno applicate sanzioni amministrative.

I datori di lavoro che al 21 marzo 2014 avevano già in essere un numero di contratti a termine oltre il tetto limite del 20% consentito dall’attuale legge dovranno mettersi in regola entro il 31 dicembre 2014. Dopo tale scadenza ai datori di lavoro fuori norma verrà impedita la possibilità di avviare ulteriori rapporti a termine fino a quando non rientrerà nel limite percentuale, ma non verrà applicata la sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro (art. 5, co. 4-septies, D.Lgs. n. 368/2001).

Ricordiamo che ai fini del calcolo del tetto limite di contratti a termine stipulati è necessario fare riferimento ai contratti di lavoro in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione escluse tutte le forme di lavoro non subordinato, mentre non rilevano tutte le successive variazioni in aumento o in diminuzione della forza lavoro che intervengono in corso di anno, e che per i datori che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.

Cosa succede se, invece, il rapporto di lavoro oltrepassa questo breve periodo “cuscinetto” di 30 o 50 giorni?

Il contratto si considera trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato a far data da tale sconfinamento. Per non cadere nel regime sanzionatorio del contratto a termine, è necessario, inoltre, che trascorra un lasso di tempo tra il primo e il secondo contratto a termine, stipulato tra le stesse parti contrattuali:

intervallo di 10 giorni se la durata del primo contratto è inferiore ai 6 mesi

intervallo di 20 giorni se la durata del primo contratto è superiore ai 6 mesi.

Anche il mancato rispetto di queste interruzioni temporali determina la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

Raggiunti i 36 mesi cumulativi di tutti i periodi di lavoro a termine, compresi eventuali periodi di lavoro svolti in somministrazione, aventi ad oggetto mansioni equivalenti, il datore di lavoro ed il lavoratore possono decidere di stipulare un ulteriore rapporto di lavoro a termine.

Tale nuovo contratto di lavoro dovrà però essere sottoscritto in regime di “deroga assistita” presso la Direzione territoriale competente, con la presenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

A ciascun datore di lavoro è consentito stipulare un numero complessivo di contratti a tempo determinato che non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°gennaio dell’anno di assunzione; per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è in ogni caso possibile stipulare almeno un contratto di lavoro a tempo determinato. I contratti collettivi nazionali hanno, comunque, la facoltà di individuare limiti quantitativi diversi per il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato.

Per le ipotesi di violazione del limite percentuale, si stabilisce soltanto una sanzione amministrativa – i cui introiti confluiscono nel Fondo sociale per occupazione e formazione - a carico del datore di lavoro pari:

al  20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, qualora la violazione si riferisca ad un solo lavoratore assunto in eccedenza al predetto limite;

al 50% della retribuzione, qualora la violazione si riferisca a due o più lavoratori assunti in eccedenza.

In ogni caso non sono soggetti a limitazioni quantitative i contratti a termine conclusi nella fase di avvio di nuove attività per i periodi individuati dalla contrattazione collettiva, per sostituzione di personale assente, per attività stagionali, per spettacoli o programmi radiofonici o televisivi, nonché quelli conclusi con lavoratori di età superiore a 55 anni.

Tali limitazioni non si applicano nemmeno ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra enti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica o di coordinamento e direzione della stessa.

Una novità di primo piano è quella dell’eliminazione dell’obbligo di specificare la causale, vale a dire la motivazione che giustifica l’apposizione del termine: il datore di lavoro, in virtù della nuova disciplina legislativa, non deve più indicare le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che lo hanno indotto ad utilizzare la forma contrattuale a tempo determinato.

Si parla, quindi, di contratto a termine a-causale, che può essere concluso tra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a termine sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.

Il contratto a termine a-causale non può avere una durata superiore a trentasei mesi ed è prorogabile, con il consenso del lavoratore e nei limiti della durata massima prevista (36 mesi), fino a un massimo di cinque volte, indipendentemente dal numero dei rinnovi.

La proroga, per la quale è necessaria la forma scritta, è ammessa a condizione che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto a tempo determinato è stato stipulato, senza l’onere, a carico del datore di lavoro, di fornire la prova della causale che giustifica la prosecuzione del rapporto.

L’apposizione del termine, a pena di nullità, deve risultare dall’atto scritto, direttamente (data, evento) o indirettamente dal contesto complessivo dell’atto medesimo.

La contrattazione collettiva può tuttavia stabilire:

un termine di rientro più favorevole per il datore di lavoro, rispetto a quello del 31 dicembre;

un limite quantitativo meno restrittivo del 20%;

una durata complessiva del rapporto a termine (comprensiva di proroghe e rinnovi) superiore al tetto legale dei 36 mesi, stabilito con la stessa norma di revisione del tempo determinato, prevedendo la possibilità di stipulare contratti a termine privi di causale nel limite di 36 mesi, proroghe incluse.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
BlogItalia - La directory italiana dei blog