giovedì 17 agosto 2017

Guida alla conciliazione dopo il licenziamento





Proponiamo una guida alle tre procedure di conciliazione previste in caso di licenziamento del lavoratore dipendente alla luce della legge vigente.

In caso di licenziamento di un lavoratore è necessario ricorrere alla procedura di conciliazione introdotta dal Jobs Act (Decreto Legislativo n. 23/2015): questo meccanismo è previsto in caso di contenzioso sul lavoro. Alla luce delle diverse normative in vigore, la conciliazione può dunque essere facoltativa, preventiva (nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo) e a “tutele crescenti”.

Vediamole nel dettaglio.

Conciliazione facoltativa
Dal 24 novembre 2010 il tentativo di conciliazione dinanzi alla Commissione della Direzione Provinciale del Lavoro è tornato facoltativo, non più necessariamente propedeutico al ricorso al tribunale (Dlgls 183/2010). Così, in caso di controversia individuale, le parti possono rivolgersi o meno al giudice se la vertenza ha come oggetto:

impugnazione del licenziamento;

pretesa retributiva;

costituzione del rapporto di lavoro;

violazione del dovere di fedeltà;

risarcimento danni;

violazione del patto di non concorrenza;

violazione di obblighi di sicurezza e igiene sul lavoro;

illegittime modalità di attuazione del diritto di sciopero.

La conciliazione facoltativa prevede che il proponente (lavoratore o datore di lavoro) presenti domanda, presso la Segreteria delle Commissioni provinciali, indicando:

generalità delle parti;

luogo della conciliazione;

luogo delle comunicazioni;

esposizione dei fatti;

ragioni che li sostengono.

I funzionari della DTL devono verificare i dati essenziali: se insufficienti vanno integrati, se omessi la procedura non va avanti. Se i dati sono corretti, entro 20 giorni dalla richiesta o dalla ricezione dell’istanza al convenuto, la controparte può depositare le proprie memorie con le contro-difese ed eventuali domande in via riconvenzionale. Nei successivi 10 giorni, i funzionari della DPL devono convocare le parti dinanzi alla commissione o sottocommissione di conciliazione e poi, entro 30 giorni dalla convocazione, deve svolgersi il tentativo di conciliazione.

Nel caso in cui venga espletato, se la conciliazione viene raggiunta anche parzialmente, viene redatto un verbale sottoscritto dalle parti e il giudice del lavoro, su istanza di parte, rende esecutivo il decreto. Se non si raggiunge l’accordo conciliativo, la commissione deve sottoporre alle parti una proposta conciliativa da inserire obbligatoriamente a verbale, con indicazione delle posizioni delle singole parti.

Conciliazione preventiva
La Riforma Fornero (Legge 92/2012) ha modificato l’articolo 7 della legge 604/1966: prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro che abbia i requisiti dimensionali (più di 15 dipendenti nella singola unità produttiva o nell’ambito comunale o più di 60 nell’ambito nazionale) deve esperire una procedura di conciliazione volta all’esame congiunto dei motivi posti a base del recesso e finalizzata al raggiungimento di un eventuale accordo tra le parti (condizione di procedibilità ai fini dell’intimazione del licenziamento: in caso di violazione della suddetta procedura, il licenziamento è illegittimo).

Il datore di lavoro invia alla DTL una comunicazione in cui dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento, indicando motivi e misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore. La comunicazione viene trasmessa per conoscenza anche al lavoratore e in seguito la DTL convoca le parti entro 7 giorni dalla ricezione della richiesta. In caso di mancata convocazione entro 7 giorni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento. Diversamente, l’incontro si svolge dinanzi alla Commissione di Conciliazione e la procedura deve concludersi entro 20 giorni dalla trasmissione della convocazione, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo.

Se il tentativo di conciliazione ha esito negativo, viene redatto un verbale e il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. Il Giudice, nell’ipotesi in cui dovesse ritenere illegittimo il licenziamento, procederà a determinate l’indennità risarcitoria.

Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore (in deroga alla disciplina ordinaria) avrà diritto alla nuova disoccupazione NASPI (sostitutiva dell’indennità di disoccupazione).


Conciliazione a tutele crescenti
Introdotta dal Jobs Act, si applica ai contenziosi sorti esclusivamente per lavoratori:

assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

trasformati da lavoro a termine a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

qualificati da un rapporto di apprendistato dal 7 marzo 2015.

Qualora il datore di lavoro abbia intimato il licenziamento nei confronti di un lavoratore assunto a tutele crescenti, può offrirgli entro 60 giorni, al fine di evitare di andare in giudizio, un importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’importo non costituisce reddito imponibile ai fini fiscali, né è assoggettato a contribuzione previdenziale. Se il lavoratore accetta, il rapporto si estingue e si rinuncia ad eventuale impugnazione anche qualora il lavoratore l’abbia già proposto. Se il datore di lavoro utilizza questa offerta quale che sia l’esito, è tenuto ad effettuare una comunicazione obbligatoria tramite procedura “UNILAV – Conciliazione“ sul portale Cliclavoro, nella sezione “adempimenti”.







Pensione di invalidità le nuove regole ecco cosa cambia



Nuove regole per la pensione di invalidità. Nella verifica dei redditi per la liquidazione delle prestazioni di invalidità civile i pagamenti arretrati soggetti a tassazione separata non devono più essere computati sulla base del principio di cassa, cioè nel loro importo complessivo, ma sulla base dei ratei maturati in ciascun anno di competenza. Lo specifica l'INPS nel messaggio 3098/2017, nel quale l'Istituto si conforma all'orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione.

Con tale messaggio l’INPS chiarisce le modalità di computo del reddito per l’erogazione delle prestazioni previdenziali ed assistenziali, distinguendo la procedura da seguire per i periodi futuri da quelli che riguardano le istanze già presentate. L'INPS che, acquisito il parere favorevole del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel suo messaggio ha stabilito, che nel computo dei redditi in tema di liquidazione delle prestazioni di invalidità civile gli arretrati siano calcolati non nel loro importo complessivo, ma sulla base dei ratei maturati in ciascun anno di competenza a prescindere dall'anno di competenza.

L’INPS ha stabilito che, a partire dal 25 luglio 2017, nel computo dei redditi in tema di liquidazione delle prestazioni di invalidità civile gli arretrati siano calcolati non nel loro importo complessivo, ma sulla base dei ratei maturati in ciascun anno di competenza. Di conseguenza le sedi, al fine di dare applicazione alla suddetta disposizione, in fase di acquisizione dei redditi, dovranno ripartire manualmente gli importi arretrati per anno di competenza.

Coloro che hanno ricevuto in passato una risposta negativa alla domanda di pensione, motivata dall’applicazione del principio di cassa, per ottenere le pensioni invalidità devono presentare specifica istanza.

Nuovo quadro normativo
Fino a ad oggi, le regole INPS per assegno sociale e prestazioni di invalidità civile si riferivano alla circolare del 2010 (126/2010), secondo cui:

per l’assegno sociale, nel calcolo dei redditi – ai fini del riconoscimento dell’assegno – si applicava il criterio di competenza;

per le pensioni di invalidità civile, tutti gli arretrati soggetti a tassazione separata, a prescindere dall’anno di competenza (criterio di cassa).

Sulla differenziazione è sorto un contenzioso giudiziario, concluso con sentenza di Cassazione 12796/2005 a sezioni unite, che ha dato torto all’INPS: per entrambe le tipologie di prestazione si applica il criterio di competenza.

Revisione domande
Le nuove domande vengono da oggi in poi lavorate in base al dettato della sentenza, recepita dal Messaggio copra citato. Per quanto riguarda istanze in precedenza respinte, ma che applicando l’orientamento accolto dalla Cassazione avrebbero avuto esito positivo, l’INPS di comporta nel seguente modo:

domanda respinta per la quale è pendente istanza di riesame: risposta positiva alla domanda;

domanda respinta per la quale è pendente ricorso amministrativo al Comitato provinciale: la sede INPS dovrà riconoscere la prestazione in autotutela;

domanda respinta per la quale, a seguito di ricorso al Comitato provinciale e di accoglimento dello stesso, il Direttore di Sede abbia sospeso la delibera di esecuzione: dopo la trasmissione della sospensiva alla Direzione centrale sostegno alla non autosufficienza, invalidità civile e altre prestazioni, la medesima Direzione trasmetterà alla Sede competente formale invito di accogliere l’istanza in autotutela.

Se la domanda era stata respinta e non c’è stato nessun seguito, il contribuente ripresenta domanda all’INPS, che dovrà accoglierla.



venerdì 28 luglio 2017

APE Sociale: decadenza, compatibilità e incompatibilità



L'Ape Sociale è un’indennità garantita dallo Stato ed erogata dall’INPS a lavoratori in stato di bisogno che chiedano di andare in pensione in anticipata, ovvero è un anticipo pensionistico, cioè una prestazione che conduce l’interessato dalla data di uscita dal lavoro (o, comunque, dalla data in cui si presenta la domanda per ottenere il trattamento), sino alla data di maturazione dei requisiti per la pensione. Questo anticipo pensionistico lo possono utilizzare dipendenti pubblici e privati e lavoratori autonomi con 63 anni di età a cui mancano tre anni e sette mesi per il raggiungimento della pensione di vecchiaia, con almeno 20 anni di contributi.

L'indennità non spetta ai titolari di un trattamento pensionistico diretto in Italia o all'estero, ed è subordinata alla residenza in Italia e alla condizione che il soggetto abbia cessato l'attività di lavoro dipendente, autonomo e parasubordinato svolta in Italia o all'estero.

L'indennità è inoltre incompatibile con i trattamenti a sostegno del reddito connessi allo stato di disoccupazione involontaria, con il trattamento Asdi e con l'indennizzo per cessazione attività commerciale.

Il beneficiario dell'Ape sociale può svolgere un'attività lavorativa, in Italia o all'estero, durante il godimento dell'indennità purché i redditi da lavoro dipendente o da collaborazione coordinata e continuativa percepiti non superino gli 8.000 euro lordi annui, e quelli derivanti da lavoro autonomo non superino i 4.800 euro lordi annui. In caso di superamento dei limiti annui, il soggetto decade dall'Ape sociale, l'indennità percepita nel corso dell'anno diviene indebita e la Sede Inps procede al relativo recupero.

L’APe Sociale prosegue fino al raggiungimento della pensione di vecchiaia e a quel punto si interrompe automaticamente, senza presentare nuove istanze, mentre per la pensione anticipata rileva il momento in cui decorre il trattamento e non quello di maturazione del requisito: l’indennità è incompatibile con qualsiasi altra forma di trattamento previdenziale, mentre si può sommare ad altre tipologie di trattamento assistenziale, come ad esempio l’assegno sociale.

Decadenza
 La legge prevede che l’APe sociale prosegua “fino al conseguimento dell’età anagrafica prevista per l’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia”. Nel momento in cui viene liquidata l’indennità, spiega l’INPS, l’operatore inserisce anche la data di raggiungimento del requisito anagrafico previsto dall’articolo 24 della legge 214/2011 per l’accesso alla pensione di vecchiaia.

Quindi, il pagamento dell’APE Sociale (salvo che non intervengano ipotesi di decadenza dal beneficio) cesserà automaticamente dal mese successivo alla predetta scadenza “naturale”. Significa che il pensionato non deve fare ulteriori pratiche e nemmeno l’INPS deve procedere alla revoca del trattamento, che appunto cessa automaticamente.

La Legge di Bilancio 2017 prevede però che, se prima del raggiungimento dell’età per la pensione di vecchiaia il lavoratore matura il requisito per la pensione anticipata, decade dal diritto all’APE Sociale. In questo caso c’è un problema interpretativo, perché la legge si riferisce, testualmente, al “raggiungimento dei requisiti per il pensionamento anticipato”, mentre il decreto ministeriale attuativo, all’articolo 8 comma 2, parla di decorrenza della pensione anticipata.

L’INPS con la circolare 100/2017 ha chiarito che rileva la decorrenza e non la maturazione del diritto, in modo che l’assicurato possa percepire la pensione subito dopo la fine dell’APe, non restando mai senza un assegno.

Incompatibilità
Come detto, l’APe non può essere sommato con nessun’altra prestazione previdenziale o con ammortizzatori sociali. Quindi, è incompatibile con assegno ordinario di invalidità, indennizzo cessazione attività commerciale, trattamenti di disoccupazione (ASDI, NASPI, e via dicendo).

E’ invece compatibile con l’assegno sociale, che non è una prestazione previdenziale. Significa che il titolare dell’assegno sociale può chiedere l’accesso all’APE e il titolare dell’APE Sociale può chiedere l’assegno sociale. In entrambi i casi, ai fini del calcolo del tetto di reddito di 1500 euro, si calcolano entrambi i trattamenti: quindi l’assegno sociale viene ridotto, oppure revocato nel caso in cui l’APe comporti il superamento del limite reddituale consentito.

Quindi concludendo l’Ape sociale è incompatibile con le prestazioni a sostegno del reddito conseguenti allo stato di disoccupazione.

In particolare è incompatibile:

con la Naspi (l’indennità di disoccupazione che spetta ai dipendenti);

con l’Asdi (l’assegno di disoccupazione, erogato ad alcuni soggetti, una volta terminata la Naspi);

con l’indennizzo per i commercianti (corrisposto, in determinati casi, per accompagnare alla pensione il commerciante che cede l’attività).

È invece compatibile:

con attività lavorativa dipendente o parasubordinata, se il reddito che ne deriva non supera 8.000 euro all’anno;

con attività di lavoro autonomo, se il reddito che ne deriva non supera 4.800 euro annui.

Inoltre, si decade dal diritto all’indennità se si raggiungono i requisiti della pensione anticipata.




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