martedì 19 giugno 2018

Lo stipendio può essere pignorato?



Se un lavoratore ha dei debiti e non ha intenzione di saldarli, ogni creditore potrà chiedere il pignoramento dello stipendio per soddisfare i propri crediti. La normativa, infatti, consente al creditore di aggredire anche quei beni che pur appartenendo al debitore non sono ancora nelle sue disponibilità, quale appunto lo stipendio, ma anche la pensione o il TFR. Con il pignoramento presso terzi, infatti, il creditore - su disposizione del giudice incaricato - si rivolge direttamente al datore di lavoro del debitore, il quale avrà il dovere di corrispondergli una parte di retribuzione del dipendente ai fini del soddisfacimento del credito.

Non tutto lo stipendio può essere pignorato, però, poiché al lavoratore va comunque garantito un minimo vitale. Nel dettaglio il pignoramento dello stipendio può riguardare solamente 1/5 dell'importo mensile netto. Quindi tutti gli stipendi sono pignorabili, ma l'importo varia a seconda della retribuzione percepita. Ad esempio, per uno stipendio mensile di 2.000 euro netti il pignoramento è consentito nel limite di 400 euro, mentre per uno stipendio di 500 euro si scende a 100 euro.

Discorso differente per il pignoramento dello stipendio già accreditato in banca. In questo caso, infatti, la procedura per il pignoramento è la stessa ma a cambiare sono i limiti. Dal momento che non è possibile calcolare nel dettaglio quali redditi presenti su conto corrente derivano dalla retribuzione percepita, il legislatore ha stabilito che sono pignorabili le somme depositate sul conto pari a tre volte l'assegno sociale. Quindi, considerando che questo ha un importo pari a 453 euro, il pignoramento può riguardare solamente gli importi che eccedono i 1359 euro. Sotto questa soglia, il patrimonio del debitore è al sicuro da qualsiasi aggressione.

Il calcolo del TFR è l'importo che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore al termine del rapporto di lavoro e a richiesta dopo un periodo (anticipazione del TFR), di solito 8 anni di servizio nella stessa azienda in determinati casi stabiliti dalla legge come, ad esempio, la necessità di affrontare importanti spese medico-sanitarie. L'anticipazione è limitata al 70% dell'importo liquidato in caso di risoluzione del contratto di lavoro.

La cessione del quinto è una tipologia di prestito rivolta ai lavoratori dipendenti (pubblici, statali, di enti parastatali, di aziende private) e da qualche anno a questa parte ai lavoratori in pensione definita cessione del quinto pensionati, ovvero ai soggetti che possono contare su una busta paga o una pensione su cui può essere addebitata la rata del finanziamento.

Nella miriade di offerte che ci sono nella galassia dei prestiti personali un italiano su quattro si affida alla cessione del quinto dello stipendio. Sono questi i risultati di un'indagine svolta dai portali Facile.it e Prestiti.it, secondo cui a richiedere questa forma di prestito sono soprattutto dipendenti e pensionati.

La cessione del quinto della pensione deve essere un prestito personale a tasso fisso e rata costante, da estinguersi mediante cessione pro solvendo di una quota della pensione fino al quinto della stessa, valutato al netto delle ritenute fiscali e fatto salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo, per periodi non superiori a dieci anni.



lunedì 4 giugno 2018

Pensioni quota 100 cosa c'è da sapere




Pensioni quota 100, in pratica è la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell'età anagrafica e quella degli anni di contributi versati dal lavoratore è almeno pari a 100 (ad esempio: si potrà uscire dal lavoro con 36 anni di contributi e 64 anni d'età). L'espressione si riferisce alla somma di età anagrafica e contributiva che potrebbe essere necessaria per andare in pensione“. Le pensioni a quota 100 (uscita con un mix di età anagrafica, partendo da almeno 64 anni, e contributiva) e quota 41 anni (a prescindere dall'anzianità contributiva) da estendere a tutti i lavoratori a differenza di quanto previsto attualmente con la possibilità di uscita anticipata per il soli “precoci”.

Questo sistema conviene soprattutto a chi ha accumulato molti anni di contributi, perché gli consentirà di andare in pensione prima rispetto a quanto ora previsto con la legge Fornero.

Ma in cosa consiste quota 100 e come funziona? Si tratta della possibilità per i lavoratori di andare in pensione quando la somma dell'età anagrafica e degli anni di contributi versati è pari almeno a 100. Possono poi essere previsti dei paletti riguardo all'età minima di uscita e a un minimo di anni di contribuzione.
Nel contratto pentaleghista c'è l'impegno a "provvedere all’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti dalla riforma delle pensioni cd. 'Fornero', stanziando 5 miliardi per agevolare l’uscita dal mercato del lavoro delle categorie ad oggi escluse".
"Daremo fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro - si legge nel testo - quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti".
Nel contratto si parla anche della necessità di "riordinare il sistema del welfare prevedendo la separazione tra previdenza e assistenza". "Prorogheremo - scrivono 5S e Lega - la misura sperimentale 'opzione donna' che permette alle lavoratrici con 57-58 anni e 35 anni di contributi di andare in quiescenza subito, optando in toto per il regime contributivo".
Sui costi della riforma pensionistica lanciata da 5 Stelle e Lega è intervenuto nelle scorse settimane il presidente dell'InpsTito Boeri. Permettere di andare in pensione con quota 100 tra età e contributi, come previsto dal contratto di governo, avrebbe un costo, secondo la stima di Boeri, di 15 miliardi per il primo anno e di un massimo di 20 miliardi all'anno per i successivi.

“L’idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi, oppure 41 anni e mezzo di contributi”. Alberto Brambilla, esperto di previdenza e già sottosegretario al Welfare nei governi Berlusconi tra il 2001 e il 2005, ha scritto la parte del contratto di governo Lega-M5s sul “superamento della legge Fornero”. In breve, la «quota 100» si raggiunge con la somma di 36 anni di contributi e almeno 64 anni di anzianità. Se invece si hanno 41 anni di contributi versati, la soglia minima di età per andare in pensi ne non viene considerata. Tutto questo, come da contratto, verrebbe portato avanti «tenuto conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti». Il riferimento è all’Ape sociale, che permette di andare in pensione a 63 o addirittura a 62 anni, e che quindi non dovrebbe essere toccata.

I canali di uscita saranno due. Il primo, la cosiddetta quota 100, richiederà che l'interessato abbia maturato contemporaneamente un requisito di età e uno di contribuzione, il cui totale in anni deve appunto dare 100. Ma proprio per limitare le uscite è previsto un requisito minimo di età a 64 anni. Quindi 64 più 36 di contributi, ma non 63+37: eventualmente potrebbe essere prevista anche la possibilità di lasciare con 65+35, considerando che 35 anni di contribuzione è il limite minimo sempre richiesto anche per la pensione di anzianità prima della Fornero.



Articolo 18: obblighi dell’azienda in caso di lavoratore ingiustamente licenziato



La Corte Costituzionale salva il nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La violazione dell'ordine provvisorio di riassunzione espone l'azienda a risarcire i danni. Con la sentenza n. 86/2018, l'organo di garanzia costituzionale riconosce, la natura risarcitoria, e non retributiva, all'indennità che spetta al lavoratore che non venga immediatamente reintegrato nel posto di lavoro per ordine del giudice. L'indennità va restituita in caso di successiva riforma del provvedimento. Tuttavia, il datore di lavoro che non esegue l’ordine di reintegrazione provvisoriamente esecutivo, perché preferisce puntare sulla sua successiva riforma, può essere messo in mora dal dipendente e andare incontro al risarcimento del danno per la mancata reintegrazione, da quando è stato emesso l’ordine a quando è stato riformato.

La sentenza è tornata ad analizzare l’articolo 18 dello Statuto, come indicato dalla legge 92/2012. La questione interessa perciò i vecchi assunti, non le nuove tutele crescenti introdotte dal Jobs act dal 7 marzo 2015; la riforma del governo Monti, che ha operato una prima limatura alla tutela reale, ha previsto, in caso di recesso datoriale ingiustificato, accanto alla reintegra, il pagamento di un’indennità monetaria (entro il tetto delle 12 mensilità) per favorire il lavoratore nel periodo intercorrente tra la pronuncia e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Ebbene, il Tribunale di Trento ha messo nel mirino la norma, evidenziando come la qualificazione dell’indennità come risarcitoria «sarebbe irragionevole», in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, determinando «un’ingiustificata disparità di trattamento» in relazione alla repetibilità delle somme assegnate al lavoratore, tra la posizione del datore che ottemperi all’ordine di reintegra, e quella dell’imprenditore che non vi dia esecuzione.

Per capire meglio la portata della decisione di cui alla sentenza 86/2018 riportiamo di seguito il comunicato della Corte Costituzionale del 23 aprile 2018.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”.

Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato. La Corte, però, ha aggiunto che “scommettere” sulla riforma dell’ordine di reintegrazione – senza eseguirlo – può essere fonte di risarcimento dei danni da parte dell’azienda. Il lavoratore, infatti, può mettere in mora il datore di lavoro che si rifiuti di adempiere l’ordine di riassunzione provvisoriamente esecutivo. E la messa in mora – nello speciale contesto della disciplina di favore del lavoratore – gli consentirà di chiedere all’azienda, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni subiti per il mancato reintegro, da quando è stato emesso l’ordine provvisoriamente esecutivo a quando è stato riformato.

Per la Corte la questione «è infondata»: l’inadempimento datoriale configura, infatti, un «illecito istantaneo ad effetti permanenti», da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno. La norma denunciata, pertanto, non è irragionevole ma «coerente al contesto della fattispecie disciplinata» perché, spiega la Corte, l’indennità è collegata a una «condotta contra ius del datore e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente». Di qui la sua natura risarcitoria (e non retributiva).

La Consulta ha poi concluso che “scommettere” sulla riforma della pronuncia di reintegra, senza eseguirla, può essere fonte di risarcimento danni da parte dell’azienda (il lavoratore può mettere in mora l’impresa e chiedere i danni in via riconvenzionale).

«La pronuncia della Corte – ha commentato Sandro Mainardi dell'Università di Bologna) fa chiarezza, esattamente qualificando l’«indennità risarcitoria» dovuta per la mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione quale «risarcimento del danno» per condotta contra ius e non, come nel regime previgente, quale corrispettivo collegato alla mancata prestazione di lavoro da parte del dipendente. La soluzione di ritenere non fondata la questione appare quindi coerente con il quadro normativo introdotto dalla riforma del 2012, ad esempio con riguardo alla deduzione dell’aliunde perceptum; ed anche equilibrata rispetto alle posizioni assunte dalle parti a seguito dell’ordine di reintegrazione».

Non reintegrare un lavoratore nel suo posto di lavoro a seguito di una sentenza esecutiva provvisoria, potrebbe costare caro all'azienda. È questo l'effetto pratico della sentenza della Corte, risarcimento danni. L'argomento è da sempre fonte di polemiche. Il Jobs act ha infatti abolito la tutela della reintegra stabilita dall'articolo 18 in caso di licenziamento ingiusto, prevedendo un indennizzo.



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