domenica 10 gennaio 2016

Lavoro: il mobbing secondo la Corte Cassazione


La Corte di Cassazione ha indicato gli elementi necessari per configurare un caso di mobbing durante un rapporto lavorativo: ecco quando può azionarsi la denuncia e il risarcimento dei danni per condotta lesiva. Per ottenere il risarcimento stabiliti i parametri: tutti i requisiti devono essere provati. Si deve trattare di azioni ostili, premeditate e persecutorie.

Appurato che un capo insopportabile giorni alterni e dei colleghi tenacemente molesti sei su sette (senza una corrispettiva voce a parte in busta paga) sono afflizioni comuni alla gran parte dei lavoratori dipendenti, non tutte le prepotenze patite in ufficio da parte di superiori o di pari grado possono qualificarsi come mobbing. E garantire il diritto al risarcimento. Per disincentivare azioni legali avventate di mobbizzati immaginari e offrire ai giudici di merito un prontuario garantito, in mancanza di una normativa specifica, la Corte di cassazione, con sentenza ha individuato delle linee guida ed i parametri per riconoscere il vero mobbing.

Sono 7 i parametri del mobbing secondo la Corte di Cassazione che, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing  per provare di essere stati danneggiati sul lavoro:
ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.

Perché si configuri il mobbing devono ricorrere tutti e sette, non uno di meno.

Nel caso per cui si è arrivati alla Corte di Cassazione, che riguardava un impiegato pubblico, i sette elementi chiave c’erano tutti. Il ricorrente era stato demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all’altro senza motivo, schiacciato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare. Già nel merito, dopo perizie e testimonianze, era stata riconosciuta l’esistenza del mobbing (verticale, ossia messo in pratica dal superiore, quello orizzontale è tra colleghi), confermato poi anche nel giudizio di legittimità.

Il mobbing è molto più diffuso di quanto non emerga dai dati ufficiali, perché è difficile individuare le cause o gli elementi che possono portare ad una causa in tribunale. Illuminante può essere la sentenza n.87 del 10 gennaio 2012 emessa dalla Corte di Cassazione, che evidenzia i comportamenti che possono essere considerati di mobbing. Una volta che la situazione di disagio si configuri come tale, la condotta lesiva giustifica infatti la causa ed il conseguente risarcimento del danno.

Definizione di mobbing
Come ricorda la Cassazione, il mobbing si definisce come:
«una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambienti di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterarti comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e della sua personalità».

Elementi probatori
Tra gli elementi riconosciuti dalla Corte di Cassazione come mobbing sul lavoro, e quindi necessari affinché si prefiguri un’accusa, sono:
molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio;
evento lesivo della salute;
nesso tra la condotta del datore di lavoro ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica;
prova dell’intento persecutorio.

In conclusione possiamo sottolineare questi atteggiamenti:
Le vessazioni devono avvenire sul luogo di lavoro. I contrasti, le mortificazioni o quant’altro devono durare per un congruo periodo di tempo e essere non episodiche ma reiterate e molteplici. Deve trattarsi di più azioni ostili, almeno due di queste:  attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce. Occorre il dislivello tra gli antagonisti, con l’inferiorità manifesta del ricorrente. La vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing, sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro. Bisogna che vi sia l’intento persecutorio, ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente.
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Crediti da lavoro a lunga scadenza


Soluzioni forti come il sequestro dei salari, è perseguibile penalmente. La presentazione di una querela, può costare più soldi rispetto al valore del debito. Questo significa che la prospettiva per il successo dipende dalla volontà del dipendente nel collaborare con il datore di lavoro. In questa guida, saranno illustrate tutte le indicazioni utili, su come recuperare completamente o in parte, i crediti da lavoro dipendente.


Una sentenza del Tribunale di Milano, depositata il 16 dicembre, offre lo spunto per soffermarsi sul tema del decorso del termine di prescrizione dei crediti di lavoro, alla luce delle sostanziali modifiche apportate dalla legge 92/2012 al regime di tutele di cui all’articolo 18 dello Statuto.


La pronuncia trae origine dalla richiesta, avanzata da alcuni lavoratori part-time, di vedersi riconosciute le differenze retributive maturate da luglio 2007 (quale effetto dell’adozione, nei loro confronti, di un sistema di computo di talune voci retributive più sfavorevole rispetto a quello applicato ai colleghi full-time). Rispetto a tale pretesa il datore di lavoro aveva eccepito che essa non fosse più azionabile per effetto della prescrizione quinquennale.


Il Tribunale di Milano ha rigettato l’eccezione di parte datoriale, rilevando come, dal 18 luglio 2012 (giorno di entrata in vigore della Riforma Fornero), anche nelle imprese sottoposte all’articolo 18 dello Statuto il termine di prescrizione quinquennale dei crediti retributivi decorra solo a partire dalla cessazione del rapporto, e non invece in costanza di esso. Applicando il principio statuito dal Tribunale di Milano, è lecito concludere che nel caso di diritti retributivi sorti anteriormente al 18 luglio 2012, la prescrizione decorra regolarmente fino a tale data, per poi essere sospesa successivamente a essa e fino alla data di cessazione del rapporto (momento dal quale tornerà a decorrere per la residua durata rispetto all’originario termine quinquennale).


Per comprendere la portata di tale pronuncia (che è una delle prime sul punto) occorre ricordare come, per effetto di alcune storiche sentenze della Corte costituzionale risalenti agli anni ’60-’70, il termine di decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti retributivi, anteriormente alla riforma Fornero, fosse differenziato in base al regime di tutela, reale (con reintegrazione nel posto di lavoro) od obbligatoria, applicabile al rapporto di lavoro. In particolare, per i lavoratori delle imprese di minori dimensioni e per i dirigenti, il termine di prescrizione dei crediti retributivi doveva ritenersi congelato sino alla cessazione del rapporto di lavoro, stante il rischio che tali lavoratori fossero indotti a non esercitare il loro diritto per timore di essere licenziati per “ritorsione”. Al contrario, per i lavoratori in regime di tutela reale, il termine di prescrizione dei crediti retributivi decorreva anche in costanza di rapporto.


Con la riforma dell’articolo 18 sono state articolate e graduate le sanzioni per il licenziamento illegittimo, cosicché la reintegrazione risulta oggi relegata alle sole ipotesi più gravi, mentre in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento trovano applicazione sanzioni indennitarie di misura variabile.


La conseguenza è che l'articolo 18 non appare più idoneo a garantire un sistema di tutela (quale quello offerto dalla stabilità reale del rapporto di lavoro) che, nel sistema elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, permetteva al lavoratore di esercitare i propri diritti senza timore del licenziamento.


La pronuncia di Milano appare dunque fare coerente applicazione dei principi sanciti dalla Corte costituzionale, riconoscendo, a fronte del venir meno di un forte regime di stabilità reale del rapporto di lavoro, un regime di decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi di maggior tutela per i lavoratori.


In proposito, non è difficile prevedere che il principio troverà applicazione, a fortiori, anche con riferimento ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, soggetti al regime di tutele crescenti introdotto dal Jobs Act, essendo ancor più marginali, per tali lavoratori, le ipotesi di illegittimità del licenziamento per le quali è prevista la reintegra.


Secondo l'opinione ormai nettamente dominante tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale - ed, in particolare, i crediti di retribuzione - si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell'art. 2948, n. 4, c.c. Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte, in virtù dell'art. 2948, n. 5, c.c., le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l'indennità di mancato preavviso e l'indennità per causa di morte).

venerdì 8 gennaio 2016

Agenzia del lavoro: approvato lo statuto


Prende forma la nuova Agenzia unica per le ispezioni sul lavoro istituita dal Jobs Act.

L’ANPAL (Agenzia nazionale per le politiche attive), sono stati fatti accordi con le Regioni per il rafforzamento dei centri per l’impiego con tanto di assegno di ricollocamento, riconosciuto a chi dopo quattro mesi di NASPI non ha ancora trovato lavoro, per aiutare a trovare una nuova occupazione.

L’ANPAL coordina la nuova Rete Nazionale dei Servizi per le Politiche Attive del Territorio e coinvolge i principali enti impegnati nell’erogazione degli ammortizzatori sociali, come INPS, INAIL, le Camere di Commercio, ma anche soggetti operanti come intermediatori nel mondo del lavoro, quali scuole e università e sarà strutturata su base regionale e coadiuvata dall’INPS e INAIL, dalle Agenzie per il Lavoro e da tutti i soggetti attualmente accreditati alle attività di intermediazione, dagli enti di formazione, da Italia Lavoro e ISFOL.

Fra i compiti dell’ANPAL ci sono quello di stabilire i programmi delle politiche attive, finanziati dall’FSE (Fondo Sociale Europeo), supervisionare la Rete Nazionale, archiviare tutti i fascicoli personali dei lavoratori e tenere un albo delle agenzie private del lavoro.

Ciò che rileva per i cittadini è che solo con l’iscrizione all’ANPAL il disoccupato (che sia stato licenziato o che abbia rassegnato le dimissioni per giusta causa) può aver diritto alla Naspi.

L’iscrizione all’ANPAL viene effettuata dai Centri per l’Impiego, durante un colloquio con il disoccupato : dalla data di licenziamento (o dimissioni per giusta causa) il Centro per l’Impiego ha 2 mesi di tempo per convocare il lavoratore, dalla convocazione il disoccupato ha tempo 15 giorni per presentarsi al Centro per l’Impiego, pena la perdita di un quarto dell’assegno di disoccupazione.

Nel corso del colloquio al Centro per l’Impiego, il disoccupato dovrà anche sottoscrivere un patto di servizio, cioè un programma che mira al ricollocamento dello stesso nel mondo del lavoro. Fino a che il disoccupato non troverà un nuovo impiego, il suo impegno nella formazione e ricollocazione professionale viene monitorato da un tutor.

Nello specifico lo schema di statuto disciplina il funzionamento e definisce le competenze dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Agenzia unica per le ispezioni del lavoro), la cui istituzione è prevista dal decreto legislativo 149 del 14 settembre 2015 al fine di razionalizzare e semplificare l’attività ispettiva. L' Agenzia avrà la funzione di coordinare, sulla base di direttive emanate dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, la vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria, svolgendo le attività ispettive già esercitate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dall’INPS e dall’INAIL. L’Ispettorato ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotato di autonomia organizzativa e contabile. Gli organi dell’Ispettorato sono: il direttore; il consiglio di amministrazione; il collegio dei revisori. Restano in carica tre anni, e sono rinnovabili per una sola volta.

Lo schema di statuto dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro disciplina il funzionamento e definisce le competenze dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro che avrà il compito di coordinare la rete dei servizi per le politiche attive del lavoro, attuando le linee di indirizzo triennali e gli obiettivi annuali in materia di politiche attive, nonché la specificazione dei livelli essenziali delle prestazioni da erogare su tutto il territorio nazionale così come stabiliti dal Ministero del lavoro.

L’Agenzia ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotata di autonomia organizzativa, regolamentare, amministrativa, contabile e di bilancio.

Gli organi dell’Agenzia che restano in carica tre anni rinnovabili per una sola volta, sono:
- il Presidente;
- il Consiglio di amministrazione;
- il Consiglio di vigilanza;
- il Collegio dei revisori.

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