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martedì 20 marzo 2018

Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato



Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.

Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.

Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.

Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.

Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.

Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.

I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.

Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.

Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.

I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.

Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.

Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.

Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.

Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.

Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti  manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.

Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.

Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.

Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.



mercoledì 14 dicembre 2016

Lavoro: referendum sul Jobs Act



La Consulta esaminerà l'ammissibilità del referendum l'11 gennaio. Il referendum sono stati proposti dalla Cgil, che ha raccolto oltre 3 milioni di firme a sostegno l'ammissibilità delle richieste relative a tre referendum abrogativi tutte concernenti disposizioni in materia di lavoro, comprese misure presenti nel Jobs Act. Le richieste sono già state dichiarate conformi a legge dall'Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione, con ordinanza depositata il 9 dicembre 2016.

I referendum sono stati proposti dalla Cgil, che ha raccolto oltre 3 milioni di firme a sostegno. L'obiettivo è quello di cancellare le norme del Jobs Act che hanno modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la possibilità di licenziamento; di abrogare le disposizioni che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore; e di eliminare i cosiddetti voucher, ossia i buoni lavoro per il pagamento delle prestazioni accessorie.

L’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha già dato il via libera. Ora spetta alla Corte Costituzionale pronunciarsi e nessuno dubita sull’ok della Consulta. Da quel momento il governo dovrà fissare una data per il referendum tra il 15 aprile e il 15 giugno. Tranne se in quel lasso di tempo non venissero indette elezioni anticipate: in quel caso la consultazione referendaria verrebbe rinviata di un anno. Ma il governo Gentiloni non ha una scadenza e non è prevedibile cosa accadrà nei prossimi mesi, allora a Palazzo Chigi è scattato l’allarme rosso. Le richieste di referendum, già vagliate dall'Ufficio centrale della Cassazione, riguardano le disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi e quelle inerenti il lavoro accessorio contenute nel Jobs Act, nonchè la norma, contenuta nel decreto per l'attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, riguardanti la responsabilità solidale in materia di appalti.

La bocciatura del Jobs Act, che decretò la storica abolizione dell’articolo 18, sconfesserebbe il triennio renziano a palazzo Chigi, azzopperebbe le possibilità di «rivincita» dell’ex premier e comprometterebbe la corsa del Pd e dei suoi alleati alle successive elezioni, spianando la strada delle forze antisistema verso la vittoria. Certo, la Consulta deve ancora pronunciarsi. Certo, il governo proverà a correggere parti della legge per tentare di far saltare il referendum. Certo, stavolta la consultazione per essere valida avrebbe bisogno di superare il quorum.
Ma a parte l’incognita della Corte, a parte l’impossibilità per l’esecutivo di reintrodurre l’articolo 18, a parte il nodo dell’affluenza alle urne, nella maggioranza si scorge il rischio.

Primo quesito (reintroduzione della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa e sua estensione alle imprese sopra i 5 addetti – “articolo 18”) 

«Volete voi l'abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante "Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183" nella sua interezza e dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" comma 1, limitatamente alle parole "previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 del codice civile"; - comma 4, limitatamente alle parole: "per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili," e alle parole ", nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto"; - comma 5 nella sua interezza; - comma 6, limitatamente alla parola "quinto" e alle parole ", ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi" e alle parole ", quinto o settimo"; - comma 7, limitatamente alle parole "che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" e alle parole "; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo"; - comma 8, limitatamente alle parole "in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento", alle parole "quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di" e alle parole ",anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti".».

Secondo quesito (eliminazione dei voucher) «Volete voi l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante "Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183"?».

Terzo quesito (responsabilità e controllo sugli appalti) «Volete voi l'abrogazione dell'art. 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, recante "Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30", comma 2, limitatamente alle parole "Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti," e alle parole "Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori”?»


domenica 10 gennaio 2016

Crediti da lavoro a lunga scadenza


Soluzioni forti come il sequestro dei salari, è perseguibile penalmente. La presentazione di una querela, può costare più soldi rispetto al valore del debito. Questo significa che la prospettiva per il successo dipende dalla volontà del dipendente nel collaborare con il datore di lavoro. In questa guida, saranno illustrate tutte le indicazioni utili, su come recuperare completamente o in parte, i crediti da lavoro dipendente.


Una sentenza del Tribunale di Milano, depositata il 16 dicembre, offre lo spunto per soffermarsi sul tema del decorso del termine di prescrizione dei crediti di lavoro, alla luce delle sostanziali modifiche apportate dalla legge 92/2012 al regime di tutele di cui all’articolo 18 dello Statuto.


La pronuncia trae origine dalla richiesta, avanzata da alcuni lavoratori part-time, di vedersi riconosciute le differenze retributive maturate da luglio 2007 (quale effetto dell’adozione, nei loro confronti, di un sistema di computo di talune voci retributive più sfavorevole rispetto a quello applicato ai colleghi full-time). Rispetto a tale pretesa il datore di lavoro aveva eccepito che essa non fosse più azionabile per effetto della prescrizione quinquennale.


Il Tribunale di Milano ha rigettato l’eccezione di parte datoriale, rilevando come, dal 18 luglio 2012 (giorno di entrata in vigore della Riforma Fornero), anche nelle imprese sottoposte all’articolo 18 dello Statuto il termine di prescrizione quinquennale dei crediti retributivi decorra solo a partire dalla cessazione del rapporto, e non invece in costanza di esso. Applicando il principio statuito dal Tribunale di Milano, è lecito concludere che nel caso di diritti retributivi sorti anteriormente al 18 luglio 2012, la prescrizione decorra regolarmente fino a tale data, per poi essere sospesa successivamente a essa e fino alla data di cessazione del rapporto (momento dal quale tornerà a decorrere per la residua durata rispetto all’originario termine quinquennale).


Per comprendere la portata di tale pronuncia (che è una delle prime sul punto) occorre ricordare come, per effetto di alcune storiche sentenze della Corte costituzionale risalenti agli anni ’60-’70, il termine di decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti retributivi, anteriormente alla riforma Fornero, fosse differenziato in base al regime di tutela, reale (con reintegrazione nel posto di lavoro) od obbligatoria, applicabile al rapporto di lavoro. In particolare, per i lavoratori delle imprese di minori dimensioni e per i dirigenti, il termine di prescrizione dei crediti retributivi doveva ritenersi congelato sino alla cessazione del rapporto di lavoro, stante il rischio che tali lavoratori fossero indotti a non esercitare il loro diritto per timore di essere licenziati per “ritorsione”. Al contrario, per i lavoratori in regime di tutela reale, il termine di prescrizione dei crediti retributivi decorreva anche in costanza di rapporto.


Con la riforma dell’articolo 18 sono state articolate e graduate le sanzioni per il licenziamento illegittimo, cosicché la reintegrazione risulta oggi relegata alle sole ipotesi più gravi, mentre in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento trovano applicazione sanzioni indennitarie di misura variabile.


La conseguenza è che l'articolo 18 non appare più idoneo a garantire un sistema di tutela (quale quello offerto dalla stabilità reale del rapporto di lavoro) che, nel sistema elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, permetteva al lavoratore di esercitare i propri diritti senza timore del licenziamento.


La pronuncia di Milano appare dunque fare coerente applicazione dei principi sanciti dalla Corte costituzionale, riconoscendo, a fronte del venir meno di un forte regime di stabilità reale del rapporto di lavoro, un regime di decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi di maggior tutela per i lavoratori.


In proposito, non è difficile prevedere che il principio troverà applicazione, a fortiori, anche con riferimento ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, soggetti al regime di tutele crescenti introdotto dal Jobs Act, essendo ancor più marginali, per tali lavoratori, le ipotesi di illegittimità del licenziamento per le quali è prevista la reintegra.


Secondo l'opinione ormai nettamente dominante tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale - ed, in particolare, i crediti di retribuzione - si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell'art. 2948, n. 4, c.c. Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte, in virtù dell'art. 2948, n. 5, c.c., le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l'indennità di mancato preavviso e l'indennità per causa di morte).

giovedì 25 dicembre 2014

Articolo 18 cosa cambia per il 2015



"Altro che rivoluzione copernicana", il governo Renzi "ha cancellato il lavoro a tempo indeterminato, generalizzando la precarizzazione". Così la leader della Cgil, Susanna Camusso, dopo l'ok del Cdm ai decreti attuativi del Jobs Act: norme "ingiuste, sbagliate e punitive". "Il governo ha accolto la nostra reiterata richiesta di un intervento pubblico per l'Ilva: è un fatto decisamente positivo", sostiene invece il segretario generale della Uil, Carmelo Barbagallo. Ma, aggiunge, "diverso è il nostro giudizio sul Jobs Act. Consideriamo infatti - spiega - negativamente la monetizzazione dei licenziamenti collettivi, fatto che non aiuterà il mondo del lavoro".

Contratto a tutele crescenti e indennizzi “da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mesi”. E poi niente ‘opting out’, cioè niente super-indennizzo per aggirare il reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente, e delega fiscale. E ancora le misure per Taranto e sull’Ilva, la legge Europea 2014 e la proroga dei contratti dei precari delle province. Sono tante e diverse le novità varate dal Consiglio dei Ministri della Vigilia. Nelle immagini una scheda riassuntiva dei principali provvedimenti.

Addio al reintegro nei licenziamenti economici e in una buona parte dei licenziamenti disciplinari. Per i neo assunti, dal 2015, scatterà il contratto a tutele crescenti, e le nuove norme, è una novità dell'ultim'ora, si estenderanno anche ai licenziamenti collettivi (che sono economici per definizione). È quanto prevede il Dlgs con la nuova normativa sul contratto a tutele crescenti appena varato dal Governo, assieme a una prima lettura del Dlgs sull'Aspi.

Nel testo che cambia l'articolo 18, è previsto che le tutele crescenti per i licenziamenti economici illegittimi partiranno da 2 mensilità per anno di servizio con un tetto di 24 mensilità. È prevista l'introduzione di un indennizzo minimo di 4 mensilità, da far scattare subito dopo il periodo di prova, con l'obiettivo di scoraggiare licenziamenti facili. Visto che i contratti a tutele crescenti godranno dei benefici fiscali e contributivi contenuti nella legge di stabilità. E' confermata la conciliazione veloce: qui il datore di lavoro può offrire una mensilità per anno di anzianità fino a un massimo di 18 mensilità, con un minimo di due.

Sul fronte disciplinari c'è un mini-restyling alla legge Fornero. La reintegra resterà per i soli casi di insussistenza materiale del fatto contestato. Non è più prevista la clausola dell'opting out, che avrebbe consentito al datore di lavoro di poter convertire la tutela reale in un indennizzo monetario. Oggi la tutela reale scatta in due casi: se il fatto non sussiste o se è punito con una sanzione conservativa nei CCNL. La differenza con la nuova normativa è questa: viene meno il riferimento ai CCNL e si delimita il fatto al solo fatto materiale. Non si eliminerà la discrezionalità dei giudici.

Solo un primo esame con approvazione “salvo intese” per il secondo decreto legislativo, quello che darà vita alla nuova Aspi. Evidentemente i problemi di copertura che fino a ieri avevano trattenuto i tecnici del ministero del Lavoro e di palazzo Chigi alla Ragioneria (mancherebbero circa 300 milioni) devono ancora essere superati. Il nuovo ammortizzatore universale per chi perde il lavoro dovrebbe entrare in funzione verso giugno prossimo e sarebbe accessibili con sole 13 settimane di contributi. Il sussidio dovrebbe crescere con la durata del contratto (detto appunto a tutele crescenti) fino a 24 mesi, ovvero 6 in più rispetto ai 18 previsti a regime dall'Aspi Fornero.


Non trapelano indicazioni sull'ammontare che non dovrebbe però superare il tetto del 1090 euro mensili. L'estensione della platea dovrebbe comprendere la transizione fino a esaurimento dei Cocopro. e i contratti in somministrazione, oltre a tutti i nuovi contratti a tutele crescenti, naturalmente, a prescindere dal settore di appartenenza. Resta l'idea di base di legare la durata del sussidio alla contribuzione pregressa (con scalettatura ancora da definire. come detto) e resta l'assegno di disoccupazione che scatta dopo l'esaurimento della nuova Aspi ma non è chiaro se sarà già contenuta in questo dlgs. Vi si accederebbe con un Isee basso, un ammortizzatore di ultima istanza che sarà legato a una condizionalità: la partecipazione del beneficiario a programmi di reinserimento lavorativo. Con la nuova Aspi, che armonizza l'attuale Aspi e l mini-Aspi non cambierà lo schema della contribuzione dovuta da datori e dipendenti (con un carico per due terzi sui primi e un terzo sui secondi): l'1,30% dovuto per la disoccupazione e l'1,4% per l'Aspi sui contratti a termine. Con l'evidente obiettivo di incentivare anche sotto questo profilo la migrazione dai contratti a termine verso i nuovi contratti a tutele crescenti.



venerdì 28 novembre 2014

Le modifiche all'articolo 18 e la nuova riforma del lavoro



L'articolo 18 dell'attuale Statuto dei Lavoratori, va a determinare nel sistema contrattuale italiano la cosiddetta tutela reale, in particolare ne disciplina il caso in cui il licenziamento di un singolo lavoratore è da considerarsi non legittimo, in quanto effettuato senza averne comunicato le motivazioni, oppure perché trattasi di licenziamento ingiustificato o discriminatorio.

E bene ricordare che il parlamento affiderà al governo una delega per intervenire sul mercato del lavoro, riformando gli ammortizzatori sociali, l’attività ispettiva, gli strumenti di tutela della maternità, ma soprattutto per riorganizzare i contratti, introducendo il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che avrà quindi bisogno di una riscrittura dell’art. 18, e introducendo un salario minimo («anche in via sperimentale»), e aprendo al demansionamento e al controllo a distanza dei lavoratori.

È utile fare un punto sulle differenze introdotte rispetto all’originaria disciplina e alle modifiche già introdotte dalla riforma Fornero. Il nuovo art.18 sarà applicato a chi firmerà un nuovo contratto, con la formula che il governo vorrebbe «prevalente», quello cioè a tempo indeterminato con tutele crescenti. Ci sono però tre tipi di licenziamenti: vediamo come funzionano nelle aziende con più di 15 dipendenti.

L’unico per cui non cambierà nulla è il licenziamento discriminatorio, quello cioè che un giudice stabilirà effettuato per motivi di religione, di orientamento sessuale, politici o sindacali, o ai danni di un lavoratore che si è sposato o che ha goduto di un congedo parentale. In questo caso il giudice dichiara nullo il licenziamento e impone di reintegrare il lavoratore e di corrispondere il pagamento degli stipendi persi dalla data di illegittima estromissione dal posto di lavoro. Era così prima della Fornero, sarà così dopo il Jobs act.

Il secondo tipo è il licenziamento disciplinare o per giustificato motivo soggettivo, quando cioè la responsabilità, sia legata a fatto specifico o al generale rendimento, viene imputata al lavoratore. Anche in questo caso il licenziamento può essere impugnato dal dipendente davanti a un giudice che dovrà stabilire se il fatto o la responsabilità imputata sussiste o meno. L’onere della prova è a carico del datore di lavoro. Se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, prima della riforma Fornero, il lavoratore aveva diritto ad essere reintegrato, nelle imprese con un numero di lavoratori superiore a 15 dipendenti mentre per quelle che impiegano un numero inferiori ai 15 dipendenti c'era una sanzione economica da un minimo di 2,5 mensilità ad un massimo di 6 mensilità.

Con la riforma Fornero si era mantenuto la possibilità di reintegro (solo per le imprese con un numero di lavoratori superiore a 15 dipendenti) ma con una formulazione più stringente e, ovviamente, nel caso in cui i contratti collettivi prevedano una diversa sanzione: non il licenziamento ma, ad esempio, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per alcuni giorni. Negli altri casi un giudice può soltanto condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore una indennità che va da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24 mensilità. Con il Jobs act, per questi licenziamenti, si vuole ridurre ulteriormente la discrezionalità del giudice.

Quello che cambierà di più è il licenziamento economico, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Prima della Fornero, anche in questo caso, se il datore di lavoro presentava una mutata esigenza produttiva, o una crisi, che il giudice valutava però non tale da giustificare il licenziamento, il lavoratore aveva diritto a ritornare al suo posto. Dopo Elsa Fornero il reintegro può avvenire solo se il motivo si rivela «manifestamente insussistente», con quindi una stretta anche in questo caso, altrimenti il lavoratore avrà diritto a un indennizzo economico compreso tra le 12 e le 24 mensilità.

Il Jobs act non prevede più il reintegro ma, con il contratto a tutele crescenti, vuole proprio evitare che per il licenziamenti economici si ricorra al giudice e quindi stabilirà nei decreti un’indennità prestabilita a cui il lavoratore avrà diritto in caso di licenziamento: crescerà al crescere dell’anzianità di servizio. Quindi con il contratto a tutele crescenti, le nuove regole escludono per i licenziamenti economici la possibilità della reintegra del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegra ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento). Saranno i decreti delegati a dover recepire questi principi. Con i decreti delegati dovrebbe arrivare, in sostanza, una tipizzazione delle fattispecie per arginare la discrezionalità dei giudici.

Obiettivo della delega è il riordino delle tipologie contrattuali esistenti. Per le nuove assunzioni ci sarà un contratto unico a tempo indeterminato a tutele crescenti in base all'anzianità di servizio. Mentre si punta a una riduzione delle altre forme contrattuali, a partire dai cocopro.

Il ddl delega parla di «universalizzazione» il sussidio di disoccupazione dell'Aspi (Assicurazione sociale per l'impiego), con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (fino al superamento di questa forma contrattuale). L'obiettivo è di estendere questa tutela a una platea di almeno 300mila collaboratori, compresi quelli con carriere molto discontinue (3-4 mesi di contratti in due anni). Verranno unificate Aspi e mini-Aspi, rapportando la durata del trattamento «alla pregressa storia contributiva del lavoratore». Ci sarà anche un incremento della durata massima del sussidio per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti.

Le nuove regole previste dalla delega per la «disciplina dei controlli a distanza» delle attività produttive sono soft. Il governo potrà aprire all'uso delle telecamere o altre strumentazioni tecnologiche sui luoghi di lavoro che oggi sono espressamente vietate dallo Statuto dei lavoratori. Ma i controlli dovranno essere sui macchinari. Previsto un ruolo speciale delle commissioni parlamentare sulla verifica dei testi dei decreti delegati.

Si punta ad eliminare la cassa integrazione in caso di «cessazione di attività aziendale o di un ramo» della stessa. Ma le cessazioni dovranno essere «definitive». Quindi se sussistono concrete prospettive di proseguimento o di ripresa dell'attività l'erogazione della cassa integrazione potrà proseguire.

L'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori prevede oggi che «il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito». La delega prevede, invece, la possibilità di una nuova disciplina delle mansioni, contemperando l'interesse dell'impresa all'utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto e della professionalità.


mercoledì 19 novembre 2014

Licenziamento la regola dell’indennizzo




Licenziamento la regola dell’indennizzo

Il diritto al reintegro nel posto di lavoro sarà limitato ai licenziamenti nulli e discriminatori e «a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Lo prevede l'emendamento che il Governo presenta oggi in commissione Lavoro alla Camera.

L’attuale emendamento esclude in modo esplicito per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenzi lenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinari ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento.

Reintegro per licenziamenti discriminatori e per precisi casi di licenziamento disciplinare ingiustificato. Ci sarà, quindi, soltanto un indennizzo economico per i lavoratori licenziati ingiustamente per motivi economici. Viene cioè esclusa "per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio". L'emendamento al comma 7 del ddl delega sul lavoro, quello che modifica appunto il 'famigerato' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, prevede infatti il reintegro solo "per specifici casi di licenziamento disciplinare ingiustificato". L'emendamento inoltre limita il diritto alla reintegrazione "ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato".

I licenziamenti economici, per quanto concerne il reintegro, restano quindi fuori: in quei casi si prevede esclusivamente un indennizzo crescente con l'anzianità di servizio. Il reintegro invece è previsto per i licenziamenti discriminatori e per i casi di licenziamenti disciplinari ingiustificati e assimilabili a quelli discriminatori. "Il governo - ha detto Maurizio Sacconi di Ncd - ha indicato correttamente la formulazione concordata che esplicitamente individua nell'indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio la sanzione ordinaria del licenziamento illegittimo tanto economico quanto disciplinare, con la sola eccezione per quest'ultimo di specifiche fattispecie.

Per i licenziamenti economici viene esclusa invece la possibilità del reintegro nel posto di lavoro prevedendo «un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio». Lo prevede ancora l'emendamento del governo. Per l'impugnazione del licenziamento verranno inoltre previsti «tempi certi».

L'emendamento del governo sul Jobs Act «non cambia la sostanza della legge delega. Renzi non concede nulla», afferma il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto, che ribadisce come sul provvedimento per la riforma del lavoro «Renzi ci mette la faccia, ma le politiche sono quelle di Sacconi». L'emendamento dell'esecutivo «non cambia nulla nemmeno sui licenziamenti discriminatori, perché per quelli c'è già la Costituzione», conclude Scotto.

L'emendamento recepisce l'intesa raggiunta sul reintegro dei lavoratori per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari, oltre che per quelli discriminatori. Ieri il sottosegretario al Lavoro Teresa Bellanova, che ha parlato di «riformulazione senza novità» del comma 7 della legge.

Per i licenziamenti economici viene esclusa invece la possibilità del reintegro nel posto di lavoro prevedendo «un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio».

Sebbene a livello internazionale esista una varietà di modelli di licenziamento, la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro da parte datoriale presenta, nei diversi ordinamenti giuridici, una caratteristica comune: la motivazione quale principale elemento discriminante tra un licenziamento legittimo e un licenziamento illegittimo. È così in tutti i Paesi europei, dalla Germania al Regno Unito, ma anche in Giappone e Cina. La sola eccezione è rappresentata dagli Stati Uniti, dove il licenziamento del lavoratore nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, può avvenire “at will”, ovvero a totale discrezione del datore di lavoro e a prescindere da una ragione giustificativa, ad esclusione del licenziamento discriminatorio.

La motivazione ha generalmente una dimensione soggettiva, riferibile al lavoratore e individuabile in comportamenti tali da rendere plausibile la cessazione del rapporto di lavoro, e una dimensione oggettiva, legata a motivi di ordine economico ed organizzativo. Ciononostante, il confine tra queste due categorie in alcuni Paesi, come ad esempio nel Regno Unito, non rileva, o comunque non è sempre netto. In Spagna, ad esempio, assieme ai motivi economici, produttivi e tecnologici, tra le cause oggettive che giustificano il licenziamento, figurano l’incapacità del lavoratore riscontrata al termine del periodo di prova, così come l’eccessivo tasso di assenteismo.

L’oggetto delle motivazioni varia nei diversi ordinamenti, come pure è variabile il grado di dettaglio con cui la legge interviene tipizzando le diverse macro categorie concettuali utili a descrivere il motivo giustificatorio del recesso legittimo. Un ruolo fondamentale nella specificazione delle motivazioni è ricoperto certo dalla contrattazione collettiva e dalla giurisprudenza. Gli Stati Uniti sono un caso emblematico che dimostra come, sebbene sulla carta la disciplina dei licenziamenti sia totalmente liberalizzata, nel tempo la giurisprudenza sul licenziamento ingiusto abbia nei fatti allineato gli indicatori di legittimità del licenziamento, agli standard dei Paesi più garantisti.

Accanto alla motivazione, il rispetto delle procedure previste dalla legge per licenziare un lavoratore determina la legittimità o meno del recesso. La principale regola di carattere procedurale riguarda il preavviso con cui il datore di lavoro comunica al lavoratore l’intenzione di terminare il rapporto di lavoro. In generale, possono essere distinti due gruppi di Paesi sulla base di un macro indicatore che è quello dell’obbligo alla reintegra (la “restituzione” del posto di lavoro), senza opzioni alternative, nella ipotesi di licenziamento discriminatorio, in quanto considerato nullo. Tra i Paesi analizzati, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito sono i sistemi che anche in caso di licenziamento discriminatorio, consentono al datore di lavoro di optare per l’indennizzo in luogo della reintegra.

Per quanto riguarda i criteri per la definizione dell’ammontare dell’indennizzo, possono essere distinti due ulteriori gruppi di Paesi: quelli che prevedono un sistema di indicizzazione dell’indennizzo all’anzianità di servizio (scala fissa, che cresce con l’aumentare degli anni che il lavoratore ha prestato servizio), e quelli dove l’ammontare è stabilito dal Giudice.




domenica 26 ottobre 2014

Politica del lavoro tra la Camusso e la Leopolda 2014




Da una parte i poteri forti e dall’altra chi ha difficoltà nel mondo del lavoro. Roma chiama, Firenze risponde. Tra le due “folle”, quella della Cgil e della Leopolda, è un montare di accuse, di attacchi, di polemiche. Come quella tra l’imprenditore Davide Serra e il leader della Cgil Susanna Camusso. Oggetto del contendere, neanche a dirlo, è il diritto allo sciopero dei lavori pubblici. Che il finanziere vicino al premier vorrebbe limitare, con il segretario del sindacato che rilancia lo sciopero generale. Il duello a distanza, però, è solo un esempio della forte contrapposizione delle due manifestazioni. Articolo 18, legge di Stabilità, rapporti con l’Europa: gli argomenti dei due palchi sono gli stessi, declinati però in maniera diametralmente opposta. E mentre a San Giovanni è Susanna Camusso a tener banco, nella stazione fiorentina è tutto un avvicendarsi di personalità del renzismo, sia politico che imprenditoriale.

«Siamo pronti ad andare avanti con la protesta per cambiare la politica del governo, anche con lo sciopero generale». Susanna Camusso avverte il premier Renzi: la battaglia sul Jobs Act e contro l'abolizione dell'articolo 18 va avanti. La Cgil riempie piazza San Giovanni a Roma: «Siamo oltre un milione» dicono dal sindacato. «Lavoro, dignità uguaglianza per cambiare l’Italia» lo slogan della manifestazione «con tanta gente che chiede lavoro e chiede di estendere i diritti».

Una cosa va detta subito, a onore di Matteo Renzi e della storia della sinistra democratica italiana: il superamento dell'articolo 18 per dar vita a un mercato del lavoro più flessibile a fronte dell'impegno dello Stato a farsi carico del lavoratore licenziato e del suo ricollocamento non è idea estemporanea del nostro giovane premier, né atto di obbedienza ai diktat dell' Unione europea, come sostengono i suoi oppositori esterni e interni. Il progetto della flexecurity, sul modello scandinavo era già, nero su bianco, nel programma di Renzi per le primarie per la premiership del 2012, quelle contro Pier Luigi Bersani. E il libro “Il lavoro e il mercato” del giuslavorista e già parlamentare del Pci (quindi non un esponente della destra radicale) Pietro Ichino - libro che per la prima volta portò in Italia il dibattito sulla flexsecurity e che fu molto apprezzato dall'allora leader del Pds Massimo D'Alema - è uscito non qualche settimana fa ma nel 1996, ormai quasi vent'anni fa.

La divisione delle due visioni delle politiche del lavoro che è andata in scena in questo fine settimana - con una parte sia pur minoritaria del Pd in piazza a Roma sotto le bandiere rosse della Cgil e della Fiom e l'altra parte alla Leopolda di Firenze. La divisione che è andata in scena nel fine settimana con accenti anche drammatici è fondamentalmente la stessa che attraversa il maggior partito della sinistra italiana da almeno vent’anni.

Un milione di persone, secondo gli organizzatori, sono scese in piazza con la Cgil a Roma per protestare contro il governo, il Jobs Act e la legge di Stabilità. Il segretario del sindacato, Susanna Camusso, dal palco: "Siamo pronti a tutto, anche allo sciopero generale. L'Articolo 18 non va abolito bensì esteso anche a chi non ce l'ha". Rosy Bindi attacca il premier, Matteo Renzi: "La Leopolda è una contro-manifestazione imbarazzante".

Camusso: "Articolo 18 non è un totem ideologico" - E' sull'Articolo 18 che la Camusso alza la voce, tra gli applausi della piazza: "L'Articolo 18 non va abolito bensì esteso anche a tutti coloro che non ce l'hanno. Nessuno in buona fede può pensare che licenziare senza una giusta causa sia un totem ideologico. E' invece una tutela concreta", dichiara il segretario. "La giornata di oggi non è solo una fermata. La Cgil è pronta a continuare la sua protesta per cambiare il Jobs act e la politica di questo governo. Anche con lo sciopero generale", avverte la Camusso.

Il numero uno della Cgil chiama poi direttamente in causa il premier e, non appena nomina Renzi, la piazza inizia a fischiare: "Vogliamo dire al premier Renzi: stai sereno, non abbiamo rimpianti sulla concertazione. Lunedì abbiamo l'incontro con il governo sulla legge di Stabilità, lui ha già richiuso la sala verde e ci dà appuntamento al ministero del Lavoro. Stia sereno, per fare la concertazione bisogna condividere gli obiettivi per il Paese e noi i suoi non li condividiamo".

Il giudizio del sindacato sulla Manovra è tutt'altro che positivo: "Crisi e rigore continueranno a tenere il Paese nella stagnazione e la legge di Stabilità non cambia verso - continua la Camusso - Forse qualcuno pensa che l'uguaglianza sia una parola antica, per noi non lo è". Poi la chiusura a effetto del comizio al grido di "Al lavoro, alla lotta", seguito da Bella Ciao.




giovedì 18 settembre 2014

Art 18 cosa accadrà al mercato del lavoro? la voce dei sindacati



Innanzitutto la parola “neoassunti” invece che “inserimento nel mondo del lavoro” nell’articolo 4 (riforma dei contratti) della Delega sul Lavoro apre la strada al superamento dell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori in tutti i contratti: è contenuta in un emendamento del Governo sul nuovo contratto unico a tutele crescenti, che rende anche possibile il demansionamento ed il controllo a distanza dei lavoratori. Una rivoluzione delle attuali tutele, a cui le aziende reagiscono con soddisfazione mentre i sindacati preparandosi allo sciopero generale.

Addio all’ Articolo 18 dello statuto dei lavoratori:

Testo originario: «l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti».

Emendamento: «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

La differenza fra le due stesure del secondo capitolo del Jobs Act è notevole. Nel primo caso le tutele crescenti si applicavano solo all’inserimento nel mondo del lavoro (giovani al primo impiego). Nel secondo si estende a tutti i contratti di assunzione, compreso il reinserimento di un disoccupato. Significa che per un determinato periodo di tempo (ipotesi di tre anni) qualunque contratto non sarà coperto dall’Articolo 18 (sostituendo il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa con un’indennità economica proporzionale all’anzianità di servizio. Il Governo accoglie quindi la proposta di “tutele crescenti”: l’emendamento non lo esplicita ma nei fatti va in questa direzione.

I sindacati, sono a questo punto sul piede di guerra, minacciano di fare sciopero. I sindacati non apprezzano: "Non ho mai letto che la Bce abbia chiesto l'abolizione dell'art. 18. Questa è solo una bandierina che il governo offre al Paese per depistare e arrivare allo scontro, non mi pare responsabile", ha ribadito il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni.

"Chiedo al governo della trasparenza e della comunicazione di dare i dati dell'art. 18 riformato due anni e mezzo fa da Monti, dicendo quanti sono i contenziosi e quanti quelli risolti con la conciliazione. Si noterebbe che non è questo il problema del lavoro nel Paese".

L'articolo 18 è un'ossessione, una discussione senza senso", ha detto ancora  il segretario generale della Cisl. "A Poletti e al governo intero chiedo che rassegni i dati pubblici sulla gestione dell'articolo 18 negli ultimi due anni, dopo la riforma Monti", ha aggiunto. "Dai nostri dati i casi sono pochi e tutti risolti bene.

Quindi cos'è questo articolo 18? Si vuole dare in pasto all'opinione pubblica una discussione che non ha senso. Il mio sindacato che è pragmatico prima di affrontare il problema vorrebbe, e lo chiediamo formalmente a Poletti, i dati su gestione art 18 ultimi 2 anni. Va bene invece il contratto a tutele crescenti "va bene" ma solo "a condizione che serva a far fuori tutte le truffe in cui sono incappati i giovani". Bisogna "eliminare quelle forme di lavoro truffa", "come le false partite Iva", avverte: "Diversamente sarebbe solo l'ennesimo contratto di lavoro e più di un milione di persone continueranno ad essere truffate".

La segreteria della Cgil, Susanna Camusso, a sorpresa, ha messo da parte gli intenti bellicosi della prima ora e ha chiesto al direttivo di avere il mandato per cercare una linea comune con Cisl e Uil. Niente mobilitazioni in solitaria, si cerca una piattaforma unica, alla faccia di chi come Maurizio Landini, il leader dei metalmeccanici della Cgil, sull'articolo 18 era già pronto alle barricate. La reazione di Cisl e Uil è stata di grande cautela. Dopo che è di fatto saltata la piattaforma su fisco e pensioni, i segretari di Cisl e Uil, rispettivamente Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, sulla riforma del lavoro vogliono vederci chiaro. A nessuno sta bene se il governo cancella le tutele contro i licenziamenti senza giusta causa dell'articolo 18, cosa diversa invece se si ragiona di un contratto di inserimento a tutele crescenti in cui alla fine scatta anche per i neoassunti l'articolo 18.

Il confine è sottile e Cisl e Uil non vogliono ritrovarsi poi invischiati in battaglie solo ideologiche. «La nostra disponibilità alla mobilitazione unitaria ci sarà solo se la proposta verterà su cose concrete, circoscritte e precise con le quali rispondere alle persone sia sul perché ci mobilitiamo sia su quali saranno i risultati. Altrimenti è solo ginnastica sindacale che non è più il tempo di fare», ha precisato Angeletti a margine del congresso della Uilm, il sindacato dei metalmeccanici.

Il contratto a tutele crescenti «va bene a condizione che serva a far fuori tutte le truffe in cui sono incappati i giovani», dice il segretario generale della Cisl. Bonanni chiede poi conto al ministro del lavoro di quanti casi ci siano stati di reintegro sul posto di lavoro dopo la riforma dell'articolo 18 fatta dal governo Monti, «sono pochi, pochissimi, ininfluenti rispetto ai licenziamenti che si fanno perché c'è crisi».


martedì 24 dicembre 2013

Lavoro: il ministro Giovannini, e la di proposta di Matteo Renzi sul contratto unico




Il governo è pronto ad una accelerazione sui temi del lavoro. A garantire un impegno forte già da gennaio è il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, che però frena Renzi. «La proposta del contratto unico - spiega - è una delle vie possibili, ma non è l’unica».

Su neoassunti non è idea nuova. ''Questa non è una proposta nuova: riuscire a rendere più stabile il lavoro è una delle esigenze che tutti abbiamo. Nella legge di stabilità abbiamo introdotto un incentivo per le imprese che trasformano in tempo indeterminato un contratto a tempo determinato. Solo un lavoro che ha un respiro a lungo termine consente di metter su famiglia, di avere dei piani di vita a lungo termine. Dobbiamo vederla la proposta che farà Renzi e il suo team perché ce ne sono varie di versioni''. Così il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini in un'intervista radiofonica alla Rai risponde alla richiesta di un commento sul piano del lavoro elaborato o in via di definizione da Renzi.

''Per esempio c'è chi dice facciamo questa eliminazione dell'articolo 18 solo per i primi 3 anni in cui l'impresa capirà se la persona è valida o meno e poi lo trasforma in tempo indeterminato. Altri invece nel passato hanno detto no, l'impresa deve avere libertà di licenziamento in cambio di un'indennità per tutta la vita lavorativa della persona", sottolinea. ''Ogni trimestre - afferma il ministro - noi abbiamo 2.500.000 contratti di lavoro, di questi 1 milione e 6 sono a tempo determinato e poi ci sono tutte le altre formule. E' chiaro che se trasformiamo quel 1.600.000 a tempo determinato in un contratto cosiddetto indeterminato a tutele progressive non è che abbiamo spostato chissà di che cosa il mercato del lavoro''.

Secondo Giovannini ''noi abbiamo bisogno di strumenti che aiutino sia le imprese che vogliono investire sul lungo termine sia imprese che ancora, in questa fragile ripresa, sono ancora incerti sul da farsi. C'è un po' di confusione e speriamo che a gennaio queste diventino molto più concrete. A proposito della Cig il responsabile del Welfare dice che ''molte imprese e molti lavoratori pagano la cassa integrazione di tasca propria. In altri termini ogni mesi viene accantonata presso l'Inps una certa somma che poi l'impresa utilizza quando, eventualmente, ne ha bisogno. Questo è il meccanismo ordinario. La cassa in deroga aiuta le persone che non hanno questo meccanismo e va a carico della fiscalità generale e quindi la paghiamo tutti. Quest'anno nel 2013 sono stati circa 2.800.000.000 una cifra molto alta. Intanto da gennaio il meccanismo cambia perché impresa e lavoratori per i vari settori devono fare i cosiddetti fondi bilaterali ovvero devono mettere insieme una parte di soldi per fronteggiare questi eventi per il futuro''. Il governo ha convocato le parti sociali per l'inizio dell'anno per discutere di come cambiare questi ammortizzatori perché ''è anche vero che la cassa integrazione e in deroga e soprattutto la mobilità in alcuni casi ha determinato degli abusi. Pensare ad un ammortizzatore generalizzato per tutti ha un costo molto elevato''.

Il responsabile del Lavoro chiama le parti sociali: «Abbiamo già convocato sindacati e imprese per discutere la riforma degli ammortizzatori sociali e sempre nel primo mese faremo la proposta per una legge delega di semplificazione normativa per le assunzioni». Giovannini ribadisce la volontà massima al dialogo: «Chiamerò e discuterò con i responsabili lavoro dei vari partiti».
Da Giovannini arriva però un altolà alla proposta di contratto unico avanzata da Renzi: «C’è un po’ di confusione e speriamo che a gennaio queste proposte diventino molto più concrete. Siamo pronti a discuterne ma senza una ripresa più forte di questi mesi è difficile creare lavoro». Le idee stanno piovendo sul tavolo del governo sia da destra che da sinistra. «Dobbiamo ricordare sempre che solo con la ripresa economica si crea nuovo lavoro. Pensare che una modifica normativa di per se produca immediatamente tanto lavoro mi sembra che sia un’aspettativa ingiustificata», dice ancora replicando alle domande su un possibile nuovo intervento sull’articolo 18 profilato dal segretario Pd, Matteo Renzi, mentre a proposito dei contratti individuali o aziendali ricorda come «la possibilità di prevedere deroghe alla contrattazione nazionale è già possibile con l’articolo 8 della manovra 2011». «Cambiando solo le regole comunque è difficile che si crei lavoro», ribadisce.

I punti in questione sono: «Flessibilità in entrata e in uscita» ma, nel caso di perdita di lavoro, «un sussidio unico statale» di due anni che consenta a chi non ha più un’occupazione di mantenere la famiglia e, nel frattempo, corsi di formazione, che lo agevolino nella ricerca di un nuovo impiego. Ancora una volta il segretario del PD ribadisce che il punto non è articolo 18 sì o no, perché se si inizia da questo «si torna alla casella di partenza». «La rivoluzione sul lavoro - evidenzia - è possibile se tutti abbandoniamo le certezze altrimenti se ripartiamo dal solito percorso perdiamo la strada per tornare a casa». La risposta di Letta è stata chiara: «A gennaio nel contratto di governo affronteremo tutte le proposte degli attori della maggioranza. Tutto ciò che aiuta nuova occupazione è benvenuta, dobbiamo creare occupazione buona e non senza diritti».




lunedì 23 dicembre 2013

Lavoro e articolo 18. Si torna a parlare dello Statuto dei lavoratori



E si torna a parlare dell' articolo 18 ...............

Il leader dei metalmeccanici Fiom Maurizio Landini ha chiesto a Matteo Renzi di battersi per ''ripristinare l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori per tutelarli dai licenziamenti ingiustificati''. Ed sembrea in risposta il neo segretario del Pd Matteo Renzi parlando di occupazione, ribadisce l'ipotesi di un sussidio di disoccupazione di due anni e sul articolo 18.

«La discussione solo articolo 18 sì o no ci riporta alla casella di partenza. Non è importante un articolo ma semplificare per dare garanzie a tutti» e creare possibilità di investimento.  «Non torniamo - è stato l' invito di Renzi- a discussioni ideologiche. La rivoluzione sul lavoro è possibile se tutti abbandoniamo le certezze altrimenti se ripartiamo da solito percorso perdiamo la strada per tornare a casa».

«Oggi  solo un lavoratore su tre ha la Cig, gli altri..... Abbiamo il 12,7% di disoccupazione. Io penso ad una maggiore flessibilità in uscita, ma lo Stato deve garantire una indennità per i primi due anni di disoccupazione per mantenere la famiglia e un sistema serio di formazione professionale».

Renzi conferma che il piano per il lavoro del Partito democratico «verrà presentato a gennaio». Ma Marianna Madia, che pure è la responsabile Pd per il lavoro, allarga le braccia sconsolata.

«Guardi, abbiamo fatto una riunione di segreteria ancora giovedì, l’altro ieri, proprio su questo: il piano-lavoro, che Renzi vorrebbe pronto entro un mese. E naturalmente di tutto abbiamo discusso meno che dell’abolizione dell’articolo 18. Ancora mi chiedo, anzi, chi ha messo in giro la notizia che noi si starebbe ragionando su questo: probabilmente, qualcuno che vuol mandare tutto a gambe all’aria».

Ora, dunque, la questione sarebbe addirittura il chi: cioè, chi è che nel Pd ha parlato dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? «Non Renzi - spiega Marianna Madia - che probabilmente non sarebbe contrario, ma ha chiaro che non è questo il tempo per una simile discussione, e infatti l’ha ripetuto anche alla presentazione del libro di Vespa». E se non Renzi, chi allora? Gutgeld, forse, solitamente definito consigliere economico del neo-segretario Pd? «Magari ne ha scritto - dice la Madia -. Ma naturalmente una cosa è quello che scrive Gutgeld e altra quello che decidiamo noi».

Ma tant’è che Stefano Fassina - viceministro all’Economia - prendesse il bastone e randellasse: il piano lavoro di Renzi «è inutile, se non dannoso», ed è «deprimente il ritorno dell’ossessione sull’articolo 18 e sulle regole, dopo i conclamati fallimenti della ricetta neoliberista». Che Matteo Renzi lo abbia detto oppure lo abbia soltanto pensato, non è granché importante in questo caso: perché - al di là della polemica a “uso interno” - quel che riemerge in queste ore con disarmante nettezza è uno dei tabù (forse il più solido e attuale) che da anni divide la sinistra italiana.

«E sarebbe anche singolare che qualcuno la ponesse - annota da Strasburgo Stefano Fassina, che della difesa dei diritti in senso lato ha fatto per anni una bandiera -. Parlare di come licenziare mentre le aziende non assumono a causa della crisi, è un esercizio di ottimismo o di cinismo, non saprei dire. Senza contare che, in larga misura, l’articolo 18 già non esiste più: visto che la riforma Fornero in materia di mercato del lavoro lo ha di fatto surrogato, lasciando alle aziende - grandi e piccole - la possibilità di licenziare per ragioni economiche. E infatti reintegri per giusta causa non se ne vedono più...».


venerdì 25 gennaio 2013

Allarme di Confindustria sulla riforma del lavoro Monti-Fornero

«La crisi sta lasciando profonde ferite». «È emergenza economica e sociale», avverte Confindustria in un documento di proposte presentato alla politica in vista del voto. «Servono scelte immediate, forti e coraggiose. Senza queste scelte nei prossimi anni non cresceremo più dello 0,5% l'anno», «l'alternativa è il declino». Lo ha detto il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, presentando "Il Progetto Confindustria per l'Italia: crescere si può, si deve".

Confindustria, ha spiegato Squinzi, in vista delle elezioni ha individuato «tre obiettivi fondamentali per ritrovare la crescita. Il primo è di una crescita superiore al 2% annuo, il secondo è di rimettere il manifatturiero al centro dell'attenzione del Paese, riportandone l'incidenza sul Pil oltre il 20% (oggi siamo al 16,7%), e il terzo è un rapporto tra debito pubblico e il Pil nell'ordine del 100%».

Le proposte di Confindustria «innalzeranno il tasso di crescita al 3%, portando a un aumento del Pil di 156 miliardi di euro in cinque anni», ha sottolineato Squinzi. Il numero uno di Confindustria ha poi spiegato che l'occupazione si espanderebbe di 1,8 milioni di unità e il tasso di disoccupazione scenderebbe, sempre in cinque anni, all'8,4% dal 12,3% atteso per il 2014.

Occorre dare ossigeno alle imprese pagando immediatamente i 48 miliardi di debiti commerciali accumulati dallo Stato e dagli enti locali, che rappresentano un debito pubblico occulto. Poi è necessario cancellare l'Irap in tutti i settori e tagliare dell'8 il costo del lavoro nel manifatturiero. Indispensabile poi raddoppiare gli investimenti in infrastrutture, ridurre l'Irpef sui redditi di lavoro bassi, sostenere gli investimenti in ricerca e nuove tecnologie, abbassare il costo dell'energia.

Le proposte del documento programmatico di Confindustria, «una vera e propria tabella di marcia fino al 2018», si articolano in una «terapia d'urto» ed un «processo di riforme da avviare contestualmente e senza ritardo». «In vista dell'imminente tornata elettorale - spiega il documento - proponiamo un progetto di ampio respiro, insieme ambizioso e realizzabile, fatto di azioni di rilancio economico e sociale del Paese. Un progetto complesso con proposte serie e obiettivi chiari e quantificati, perché non bastano poche singole misure per risollevare l'Italia e sottrarla alla stagnazione». Un progetto «che non guarda al consenso ma alla crescita, che dice la verità su quello che serve per il bene del Paese».

«Riteniamo che la riforma del lavoro non sia stata sufficiente ad una vera liberalizzazione del mercato del lavoro e ad una sua vera flessibilizzazione» ha aggiunto Squinzi. «Riteniamo che il prossimo governo dovrà portarci più in linea con quanto fatto negli altri Paesi europei» chiede il leader degli industriali."Dobbiamo riconquistare la crescita, creare lavoro, rimettere al centro le imprese" e ridare fiducia agli italiani, per restituire i nostri giovani un futuro di progresso e di crescita". L'articolo 18, ha spiegato «tocca in modo particolare la sensibilità di alcuni settori produttivi, complessivamente credo che dobbiamo avvicinarci agli standard europei». Parametri Ue anche per l'armonizzazione delle aliquote più basse dell'Iva, «recependo le indicazioni europee» per recuperare fondi da destinare alla riduzione dell'Irpef.

mercoledì 31 ottobre 2012

Tribunale di Bologna: reintegro del posto di lavoro, no licenziamento

Prima battuta d’arresto per la riforma dei licenziamenti appartenente alla Fornero. Bastano le scuse del lavoratore a rendere «insussistente il fatto contestato» alla base del licenziamento disciplinare, insussistenza che consente al giudice di applicare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, in luogo di un indennizzo economico. Bastano le scuse del lavoratore a rendere «insussistente il fatto contestato» alla base del licenziamento disciplinare, insussistenza che consente al giudice di applicare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, in luogo di un indennizzo economico. Lo ha stabilito il Tribunale di Bologna nella sentenza del 15 ottobre 2012.

Il fatto in breve è questo: l’impiegato si era permesso di criticare via email l’organizzazione del lavoro. L’episodio che probabilmente farà storia è questo: un impiegato della Alta srl si lamenta, riferendosi ai tempi di consegna di un lavoro: «Parlare di pianificazione nel gruppo Atti è come parlare di psicologia con un maiale». L’email viene intercettata dai dirigenti e il 30 luglio scorso, appena entrata in vigore la riforma del lavoro del ministro Elsa Fornero, l’azienda parte lancia in resta e licenza per giusta causa. Il lavoratore, assunto nel 2007, fa ricorso d’urgenza ex articolo 700.

Quindi per la riforma dell’articolo 18, molto rumore per che cosa? Gli effetti della prima causa intentata a Bologna, in esecuzione delle nuove norme in materia di licenziamenti, così come previste dalla nuova, contestatissima stesura dell’articolo più discusso nello Statuto dei lavoratori. A tenere banco, per alcuni, mesi era infatti stata la questione dei licenziamenti con o senza “giusta causa”: in base alle interpretazioni più critiche, infatti, la nuova disposizione avrebbe generato una miriade di interruzioni di lavoro a discrezione delle imprese, che, non a caso, avevano spinto con forza la riforma. Ora nasce il dubbio che tanto le valutazioni più catastrofiste, sul nuovo articolo 18 fossero non rispondenti alla realtà dei fatti. A dimostrazione di ciò è la sentenza Tribunale di Bologna che ha prodotto il reintegro per un lavoratore licenziato pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge.

Ma come? La riforma del lavoro Monti-Fornero non doveva servire a risolvere l’eventuale contenzioso con un pagamento economico? In teoria sì, in pratica è rimasto tutto come prima. Vale a dire lascia ampia discrezionalità al magistrato di decidere se e quali comportamenti del lavoratore (o dell’azienda) sono sanzionabili e in che modo. Il legislatore, dimenticandosi di inserire nella norma i casi specifici in cui scatta il licenziamento e quindi l’eventuale pagamento di un’indennità, lascia alle toghe a decidere liberamente.
L’impiegato avrà sicuramente festeggiato, l’azienda masticato amaro per l’obbligo al reintegro (stanno valutando se e come fare ricorso). Resta il piccolo particolare di un precedente che dimostra che poco o nulla è cambiato.

La riforma avrebbe dovuto falciare i casi di reintegro, sterzando, una volta dimostrata l’assenza della giusta causa, per l’indennizzo economico. Ma la sentenza del giudice Maurizio Marchesini ora potrebbe fare giurisprudenza (sicuramente nelle tribune mediatiche), e colpisce alle basi uno dei paletti fondamentali della riforma voluta dal governo Monti.

sabato 15 settembre 2012

Fornero e l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: “basta modifiche”


Fischi e urla hanno accolto a Verona l'arrivo del ministro del Lavoro Elsa Fornero, al Teatro Ristori, sede del convegno sul Festival della dottrina sociale. I manifestanti in attesa dell'arrivo del ministro hanno distribuito volantini in cui si chiede «l'abrogazione della Fornero» accusata, dai rappresentanti della sinistra di aver abolito l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori facilitando così i licenziamenti.

"E' un radioso pomeriggio di settembre - si è difesa Fornero, parlando con i giornalisti - e l'accoglienza della città mi sembra splendida. La contestazione? sarei felicissima di discutere anche con quei ragazzi che pensano che noi stiamo sbagliando". Secondo Fornero i contestatori "non sono convinti che questo governo lavora anche per loro e sarei pronta a spiegarglielo se solo volessero accettare il dialogo".

"L'art.18 è stato modificato e non servirà farlo ancora, e lo Statuto dei Lavoratori non verrà più toccato". La modifica dell'art.18 - ha proseguito Fornero - "é fatta per rendere il lavoro più facile non più difficile. Non è contro i lavoratori e certo non è per facilitare i licenziamenti. Si tratta di una modifica - ha proseguito la responsabile del dicastero del Lavoro - che vuole rendere il lavoro più inclusivo non irrigidendo i posti di lavoro che oggi esistono".

Per il ministro Fornero la riforma del lavoro "é ambiziosa e i suoi vari aspetti si tengono insieme. Se sarà necessario modificarla in punti marginali non sarà un dramma".

"Non ho mai voluto usare il termine 'autunno caldo' ma la situazione è difficile ed è sotto gli occhi di tutti", ha detto il ministro del Lavoro. "Noi abbiamo strumenti limitati - ha aggiunto - e li useremo tutti per cercare di aiutare le persone in difficoltà ma anche per fornire speranze ai giovani perché abbiano più facilità di accesso al lavoro. Vedremo di impegnarci fino all'ultimo giorno di questo governo tecnico".

sabato 7 aprile 2012

Marcecaglia: riforma del lavoro così non può andare

Noi siamo stati tra coloro che più hanno sostenuto la necessità che nascesse il governo Monti. Ribadisco che il premier ha tirato fuori l'Italia dal baratro".Così la Marcegaglia, presidente di Confindustria, in un'intervista al Corriere della sera, dove critica le modifiche al Ddl sulla riforma del lavoro. "Questa riforma è negativa per il Paese", spiega la Marcegalia, perché" è stato peggiorato il testo sia sull'art. 18, dove è stato reintrodotto il reintegro anche sui licenziamenti per motivi economici, sia sulla flessibilità in entrata". La riforma "va cambiata profondamente", in Parlamento, ha aggiunto.

A cambiare posizione non è stata Confindustria, ma il governo, che ''ha modificato la parte sull'articolo 18 e ha irrigidito la flessibilità in entrata'', sottolinea Marcegaglia. A questo punto, dice, ''tanto valeva non farla, la trattativa''.


Quanto al nuovo articolo 18 delo Statuto dei lavoratori, ''si apre un problema di interpretazione del giudice, si torna all'incertezza'', prosegue Marcegaglia. ''Tante aziende, in caso di necessità o crisi, neanche ci provano a licenziare perché è troppo complicato. E quindi il problema esiste''. Nell'intervista la leader di Confindustria interviene anche sulle parole del ministro Fornero, che ieri ha denunciato il ''teatrino della politica''. ''A differenza sua, che ha parlato di reazione isterica usando un termine molto maschilista, dico che la stimo e la considero brava'', dice. ''Però se tutto il mondo delle imprese dice che non va bene mentre la Cgil dice che va bene, è una soluzione equilibrata?''.

Sul riordino dei contratti, ''il rischio è che le imprese, spaventate dai nuovi vincoli, non ricorrano più nemmeno ai contratti flessibili'', e nell’intervista ha evidenziato, rischio che le imprese, invece di creare più occupazione, saranno spaventate dai nuovi vincoli, non ricorrano più nemmeno ai contratti flessibili. Con la presunzione di abuso non si combatte la precarietà, ma si ammazza anche la flessibilità buona. Quindi il rischio è che il lavoro in nero aumenti.

domenica 1 aprile 2012

La riforma del mercato del lavoro 2012. Cambia lo Statuto dei lavoratori

Non è ancora iniziato l'iter in Parlamento, ma la riforma del mercato del lavoro è sempre in primo piano. Il ministro del welfare assicura: ''Nessuno vuole dare alle imprese la licenza di licenziare''. Ma la Cgil resta ferma sulla richiesta del reintegro. Gli industriali si schierano con il governo.

Il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro Monti-Fornero, approvata il 23 marzo, salvo intese, ha segnato una svolta nel metodo e nei contenuti ed è visto “in una prospettiva di crescita”. Lo scopo è di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace cioè di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, di stimolare lo sviluppo e la competitività delle imprese

Il Ministro del Lavoro ha confermato la determinazione con cui l'esecutivo ha messo in tasca la riforma. Articolo 18 compreso: «Non lo aboliamo. Distinguiamo le fattispecie», aveva evidenziato giorni fa la Fornero, confermando che nei casi di licenziamento per motivi economici, se giudicati illegittimi, ci sarà solo l'indennizzo e, invece, che nei casi di licenziamento disciplinare si affida al giudice il potere di decidere tra reintegro e indennizzo. E così è stato.

Licenziamento individuale. Nello specifico ci saranno tre regimi sanzionatori per il licenziamento individuale illegittimo: la reintegrazione nel posto di lavoro sarà disposta dal giudice solo nel caso di licenziamento discriminatorio e in alcuni casi di infondatezza del licenziamento disciplinare.

Licenziamento per motivi economici. Nel caso di licenziamento per motivi economici ritenuto illegittimo dal giudice, il datore di lavoro potrà essere condannato solo al pagamento di un'indennità. L'indennizzo che dovesse essere deciso a fronte di un licenziamento illegittimo per motivi disciplinari o per motivi economici potrà variare tra le 15 e le 27 mensilità.

Preventiva procedura di conciliazione. Si legge nella bozza che per i licenziamenti economici è previsto «l'esperimento preventivo di una rapida procedura di conciliazione innanzi alle direzioni territoriali del lavoro, non appesantita da particolari formalità, nell'ambito della quale il lavoratore potrà essere assistito anche da rappresentanti sindacali, e potrà essere favorita la conciliazione tra le parti».

Obbligatorio indicare i motivi del licenziamento. Sarà sempre obbligatorio indicare i motivi del licenziamento.

Se il licenziamento economico è strumentale e il lavoratore riesce a provare che è invece di natura disciplinare o discriminatoria il giudice applica le relative tutele. È prevista l'introduzione di un rito procedurale veloce per le controversie in materia di licenziamento.

Articolo 18 dello statuto dei lavoratori, abbattuto un capo saldo. Si è abbattuto, dunque, il totem dell’articolo 18, la norma dello Statuto dei lavoratori del 1970 che garantiva il diritto al reintegro nel posto di lavoro a chi veniva licenziato senza giusta causa o giustificato motivo nelle aziende con più di 15 dipendenti. Il nuovo articolo 18, esclude il reintegro e offre solo la possibilità dell'indennizzo nel caso in cui il lavoratore abbia ragione davanti al giudice.

Una tutela assoluta sancita nella legge al termine del 1969, una stagione di lotte sindacali per l’affermazione dei diritti e il miglioramento delle condizioni dei lavoratori nell'Italia delle rivoluzioni sociali.
La riforma, però, come ha sottolinea lo stesso ministro Fornero non è solo l'articolo 18, è «tutto» l'intervento: dal congedo di paternità obbligatoria agli ammortizzatori alle politiche attive per il lavoro. Dall'apprendistato come trampolino di lancio nel mercato del lavoro all'ingresso dell'Aspi, la nuova indennità di disoccupazione, fino alla stretta su tutte le forme di contratti subordinati per combattere la precarietà.

domenica 18 marzo 2012

Riforma del mercato del lavoro la partita fra governo e parti sociali

La partita fra governo, sindacati e Confindustria si gioca principalmente sugli ammortizzatori sociali e sull’art 18 dello Statuto dei lavoratori. Il Governo si sta preparando a intervenire sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori limitando ai soli licenziamenti discriminatori l'obbligo del reintegro nel posto di lavoro ma la modifica potrebbe valere almeno all'inizio solo per i nuovi assunti.
E' quanto emerso dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Mario Monti nel corso del convegno del Centro studi di Confindustria. Monti ha affermato che martedì ''si chiuderà la trattativa'' sulla riforma del mercato del lavoro. Quindi, con o senza accordo (oggi più difficile secondo quando ammesso dai sindacati), il Governo andrà avanti con la riforma. Ma se l'articolo 18 sembra il tema più complicato da affrontare anche sulle altre questioni aperte non si è ancora trovato un punto di equilibrio.
Ecco, in estrema sintesi, i temi sui quali si interverrà e si giocherà questa difficile partita.
Articolo 18: Il Governo avrebbe voluto limitare l'obbligo del rientro nel posto di lavoro solo per i licenziamenti discriminatori (considerati nulli e quindi mai effettuati) prevedendo per quelli senza giusta causa o giustificato motivo solo l'indennizzo economico. La mediazione alla quale il Governo sta lavorando è di lasciare per i licenziamenti disciplinari (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) la scelta al giudice tra reintegro e risarcimento economico mentre per i motivi economici (il cosiddetto giustificato motivo oggettivo) resterebbe solo l'indennizzo. La mediazione sembra comunque indigeribile per la Cgil pronta ad accettare al massimo interventi sui tempi dei processi mentre Cisl e Uil potrebbero accettarla per sbarrare la strada a ipotesi più drastiche.
Ammortizzatori sociali: il Governo punta a un sussidio di disoccupazione universale (l'Aspi) che sostituisca l'attuale indennità di disoccupazione (che dura 8-12 mesi) ma anche la mobilità (l'indennità erogata in caso di licenziamenti collettivi nelle aziende industriali con più di 15 dipendenti che può durare fino a 48 mesi per un over 50 del Sud). Il nuovo sistema (l'indennità dura 12 mesi per gli under 55 e 18 per gli over 55) rende più omogenee le tutele ma ha scatenato la rivolta delle piccole imprese e in particolare degli artigiani che si troverebbero a pagare contributi più alti. Potrebbero accettare la parificazione del contributo (all'1,3%) se venisse loro riconosciuta una riduzione dell'aliquota Inail, cassa nella quale commercianti e artigiani risultano largamente in attivo. I sindacati hanno comunque chiesto che si mantenga la mobilità almeno per i lavoratori più anziani che dovessero perdere il lavoro dopo i 60 anni con una sorta di scivolo verso la pensione. Il Governo punta a limitare anche l'uso della cassa integrazione con l'esclusione della causale cessazione di attività (eliminando quindi l'autorizzazione della cig straordinaria nei casi di chiusura degli impianti).
Contratti: il sistema proposto dal Governo penalizza sul fronte dei costi e degli adempimenti burocratici i contratti flessibili. In particolare si prevede per i contratti a tempo determinato un contributo aggiuntivo dell'1,4% mentre per i contratti a progetto (spesso utilizzati dalle aziende per rapporti che sono sostanzialmente subordinati) dovrebbe arrivare un aumento dei contributi previdenziali (27,72%), avvicinandoli all'aliquota dei lavoratori dipendenti (33%). Dovrebbe essere valorizzato il contratto di apprendistato rafforzandone il contenuto formativo. Sulla flessibilità in entrata c'è preoccupazione da parte delle imprese perché si prevedono più costi e maggiore burocrazia, motivo per cui la Confindustria ha chiesto di ''rivedere la proposta''.
Ma a gelare le previsioni del capo del governo arrivano i paletti di Susanna Camusso: il segretario generale della cgil punta il dito su misure "molto squilibrate" che le appaiono "molto lontane da portare ad un accordo".
Dello stesso avviso Raffaele Bonanni: "la discussione e' tra gli opposti estremisti", evidenzia il segretario della Cisl denunciando "il gioco al massacro che vuole che il governo decida". Il risultato, lamenta il sindacalista, sarà che "il governo deciderà nel peggiore dei modi come ha fatto sulle pensioni". Osserva che sull'art. 18, senza un'intesa, "il governo è tentato di andare molto più avanti". "E' un errore storico grave quello di chi si oppone a mediare sull'art. 18 ha riferito ancora Bonanni -. Così si consente al governo di cambiarlo unilateralmente. Noi lo vogliamo salvare, gli altri preferiscono lavarsi le mani".
Pessimista anche Luigi Angeletti: per il segretario generale della Uil, sulla riforma del mercato lavoro "non ci sono allo stato attuale soluzioni condivise.

domenica 22 gennaio 2012

“Ora riforma del mercato del lavoro. L’art 18 non deve essere tabù”

"Per anni si sono rispettati gli interessi delle singole categorie, che però hanno dato luogo a una gabbia che danneggia il Paese, che sprofonda". Lo ha detto il premier Mario Monti alla trasmissione di Lucia Annunziata a "1/2 Ora", su Rai Tre. Il premier ha parlato anche di mercato del lavoro, "bisogna riformarlo a favore dei giovani", e l'articolo 18, "non deve essere un tabù". Monti si è soffermato poi sullo scorporo della Snam, su cui "non si è mai osato andare avanti", e sulle semplificazioni, che "migliorano la condizione delle imprese".

Per Monti, liberalizzazioni e lavoro sono legati - "C'é un legame stretto tra l'operazione decisa venerdì e quello che avvieremo domattina a Palazzo Chigi". "L'Italia sta o non sta nel mercato internazionale per la sua capacità di collocare i suoi prodotti. Nel determinare il costo dei prodotti entrano tante cose, il lavoro in modo importante". Monti, con semplificazioni migliora condizione imprese - Varato il decreto concorrenza-infrastrutture e "avere la prossima settimana le semplificazioni vuol dire che la condizione delle imprese è destinata a migliorare: risparmieranno sui costi".

Sul problema del mercato del lavoro ha detto il premier che bisogna riformalo a favore dei giovani - "Dobbiamo riformare il mercato del lavoro a favore dei giovani". "Tutto si lega. Più agiamo su altre cose meno dobbiamo agire sul lavoro che però è quota molto grande dei costi delle imprese".

In questi ultimi anni e grazie anche alla legge Biagi, il mercato del lavoro è diventato sempre più flessibile: è l’effetto è stato che molte più persone lavorano. Ma Il problema del mercato del lavoro è che la flessibilità del lavoro è stata raggiunta imponendo un costo considerevole ai giovani, mentre i lavoratori più anziani continuano ad essere protetti da contratti a tempo indeterminato. E, se occupati in imprese con più di quindici dipendenti preservati dall’ articolo 18 dello Statuto dei lavoratori  che ne sancisce la difficoltà di licenziare. E se poi la loro azienda è in difficoltà li soccorre la cassa integrazione, un istituto estraneo alla gran maggioranza dei giovani.

domenica 15 gennaio 2012

Nel 2012 le prospettive sull’articolo 18 Statuto dei lavoratori

La non attuazione dell’ articolo 18 dello statuto dei lavoratori alle piccole e medie aziende che si uniscano, superando così i 15 dipendenti, «può essere un’opportunità per le imprese per concorrere alla crescita». È la posizione netta espressa da Rete Imprese Italia (Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti) al ministro del Lavoro, Elsa Fornero, nell’incontro sulla riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali.
Ed è proprio le modifiche relative all’articolo 18 che ha portato i tre maggiori sindacati a trovare una unità di vedute sulla riforma del mercato del lavoro.
Abbiamo chiesto al ministro del Lavoro che si agisca presto per ottenere una maggiore flessibilità del lavoro — ha spiegato Marco Venturi, presidente di turno di Rete Imprese Italia—e una riduzione dei costi. Siamo inoltre favorevoli all’estensione degli ammortizzatori sociali ai settori che oggi ne sono sprovvisti. Da parte del ministro c’è stata disponibilità all’ascolto: niente di più per ora». La stessa disponibilità riscontrata dalle Acli, l’associazione dei lavoratori cattolici, che ha illustrato al ministro la sua proposta di «contratto prevalente» che prevede un periodo di ingresso di tre anni, durante il quale si può risolvere il rapporto di lavoro, e poi la stabilizzazione. Sarebbe rimasto invece fuori da tutti i confronti il tema dell’articolo 18: Fornero non avrebbe nemmeno fornito spiegazioni sulla genesi della norma che sarebbe inserita nel provvedimento sulle liberalizzazioni e che riguarderebbe le Pmi.
E’ giusto ricordare che il governo dei tecnici intende modificare l’articolo 18, passando per il decreto sulle liberalizzazioni, ed in una delle bozze, ce n’è una che modifica la norma dello Statuto dei lavoratori che stabilisce l’obbligo di reintegro per i licenziati senza giusta causa. In caso di fusione tra due o più mini imprese, la soglia delle aziende alle quali si applica l’articolo 18 - stando alla bozza - dovrebbe salire dagli attuali 15 dipendenti a 30. O a 50, a seconda della versione. Misura tutto sommato di buon senso e meno radicale rispetto alle alternative che ci vorrebbe dettare l’Europa. L'articolo 3 della bozza del decreto, che s'intitola "Sviluppo delle imprese e flessibilità del lavoro", interviene direttamente sull'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, numero 300, ossia sul cardine dello Statuto dei lavoratori. All'articolo 1 dell'articolo 18 viene aggiunto un comma 1 bis, che recita: "In caso di incorporazione o di fusione di due o più imprese che occupano alle proprie dipendenze alla data del 31 gennaio 2012 un numero di prestatori d'opera pari o inferiore a 15 dipendenti, il numero di prestatori di cui al comma precedente è elevato a cinquanta". La premessa di Monti è semplice: se piccole imprese si aggregano e il numero di dipendenti sale a causa della fusione, comunque non scatta l'obbligo di reintegro fino a 50 dipendenti. L'articolo 18, per inciso, impone al datore di lavoro che ha licenziato senza giusta causa, che viene stabilita da un tribunale, di reintegrare il dipendente se la sua azienda ha più di 15 dipendenti.
Vediamo alcuni aspetti dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Lo statuto dei lavoratori nasce nel 1970 con la legge n. 300 e prevede la reintegrazione del lavoratore al proprio posto, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato. In assenza di questi presupposti, il giudice dichiara l'illegittimità dell'atto e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. La norma dispone che il giudice “annulla il licenziamento intimato senza giusta causa e “ordina al datore di lavoro il reintegro del dipendente licenziato. La reintegrazione deve avvenire riammettendo il dipendente nel medesimo posto che occupava prima del licenziamento, salva la possibilità di procedere al trasferimento in un secondo momento, se ricorrono apprezzabili esigenze tecnico-organizzative o in caso di soppressione dell’unità produttiva cui era addetto il lavoratore licenziato.

mercoledì 11 gennaio 2012

Mercato del lavoro e l’art 18. E’ un anomalia l’istituto del reintegro

La riforma del mercato del lavoro è un tema molto sentito dalle imprese e bisogna dimostrare il problema di competitività che esiste. Lo ha detto la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, al termine del direttivo, spiegando che Confindustria ha preparato «un documento di benchmark con i Paesi europei su tre temi: flessibilità in entrata, ammortizzatori sociali, flessibilità in uscita. I dati dimostrano alcune anomalie con l'Europa. Emma Marcegaglia anticipa che presenterà al ministro del Lavoro Elsa Fornero un confronto tra il mercato del lavoro in Italia e gli altri Paesi. Confindustria non affronta il tema ''in modo ideologico'',spiega: dai dati emergono ''anomalie nel sistema italiano'' sulle flessibilità in uscita, ''il reintegro in altri paesi europei non viene utilizzato''. ''Noi ci sediamo a questo tavolo senza ideologia, con grande senso di responsabilità, con grande apertura''. Lo dice il leader di Confindustria, Emma Marcegaglia, dopo il confronto con il ministro del Lavoro, Elsa Fornero: ''Il nostro atteggiamento deve essere ed è produttivo, ci aspettiamo che anche le altre parti sociali abbiano lo stesso''.
Quindi non ci sono eccessi di flessibilità in entrata, ma in uscita sì. Ed è onesto il nostro sistema di ammortizzatori sociali  Dal quadro stilato da Confindustria emerge che «non c'e un eccesso di flessibilità in entrata» nel mondo del lavoro. E che «il nostro sistema degli ammortizzatori sociali tutto sommato è buono». Mentre sulla flessibilità in uscita dai dati di Confindustria emerge «un benchmark europeo dove si evidenzia che il tema del reintegro esiste formalmente in altri paesi europei ma sostanzialmente non viene quasi mai utilizzato. Ci sono quindi alcune anomalie sul sistema italiano. Il reintegro in altri paesi europei non viene utilizzato».
Quello dell'articolo 18 è «un tema molto ideologico» e, garantisce la leader degli industriali, Confindustria guarda al confronto che si apre sul mercato del lavoro senza alcuna intenzione di «affrontarlo in modo ideologico: portiamo i dati per fare un confronto con gli altri paesi», spiega. Quanto agli altri due temi sul tavolo, dai dati che Confindustria presenterà oggi al ministro emerge «che non c'e un eccesso di flessibilità in entrata in termini di forme contrattuali, soprattutto nell'industria, la Cgil ne ha contate 46, non è assolutamente così, le forme sono 15 o 16. Quindi su questo tema bisogna essere cauti». Sono «dati in linea con l'Europa» guardando anche ai «paesi europei a maggior tutela sociale», dimostrano quindi che «non abbiamo un problema di eccesso di flessibilità in entrata. e soprattutto nell'industria; se c'e un problema è nella pubblica amministrazione ed in alcune aree dei servizi».
Mentre «il nostro sistema degli ammortizzatori sociali è tutto sommato buono, i dati dimostrano che le imprese si sono sostanzialmente autofinanziata Cig, Cig straordinaria, e mobilità. Abbiamo un sistema assicurativo per l'industria, pagato dalle imprese, che funziona. Quindi anche su questo, sicuramente siamo disponibili a ragionare per vedere se ci sono eccessi o anomalie, ma è un sistema interessante».
Vediamo alcuni aspetti del reintegro del posto del lavoro ch è visto, a volte, come rimedio "normale ed esclusivo" in caso di licenziamento valutato come illegittimo dal giudice esiste nell'Unione europea oltre che in Italia solo in Austria e in Portogallo. E' quanto si legge nella scheda sui licenziamenti nell'Ue contenuta nel libro "I licenziamenti individuali in Italia e nell'Unione europea".
In Italia la legge n 604 del 1966 prevede che il licenziamento individuale possa avvenire solo per giusta causa o giustificato motivo. L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (l. n 300 del 1970) prevede che il giudice che valuti il licenziamento illegittimo "ordini" al datore di lavoro (nelle aziende con oltre 15 dipendenti) il reintegro del dipendente nel posto di lavoro. Il dipendente può scegliere in alternativa il risarcimento pari a 15 mensilità. Nelle aziende più piccole il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto solo a un risarcimento (da 2,5 a 14 mensilità).
Mentre in Francia non esiste il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Si ha diritto a un risarcimento del danno pari a 6 mesi di retribuzione più una quota delle retribuzione per ogni anno di anzianità aziendale.
In Germania il reintegro è teoricamente previsto ma il giudice su richiesta delle parti può non disporlo.
In Gran Bretagna il reintegro esiste in teoria ma il datore di lavoro può rifiutare la reintegrazione pagando un compenso aggiuntivo. L'indennità risarcitoria può essere pari al massimo a 90.000 euro.
In Spagna non esiste il reintegro nel posto di lavoro mentre è prevista una quota di risarcimento sulla retribuzione legata agli anni di anzianità fino a un massimo di 42 mesi di salario.
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