Se state cercando lavoro sul web, non trascurate i social network. Soprattutto quelli professionali. In rete ce ne sono molti, anche se tra i più utilizzati - e frequentati da chi si occupa di selezione delle risorse umane - c'è senz'altro LinkedIn.
L’autocandidatura e internet- Identificati i potenziali datori di lavoro la prima mossa possibile è quella di compilare un elenco di aziende che, legate o no all’ambito di studi o esperienze effettuate e comunque alle proprie aspirazioni, potrebbero essere interessate alla candidatura.
Sicuramente avvalendosi di Internet si utilizza uno strumento molto ricco che consente di risparmiare tempo e risorse ed accedere ad un alto numero di offerte di lavoro aggiornate e ai siti delle aziende dal profilo cercato.
Si può quindi cercare il sito di tali aziende per procedere alla candidatura e visitare la sezione “job” o “lavoro” o “contatti”. Preventivamente è opportuno comunque visitare anche la sezione “chi siamo”, cioè cercare di capire a chi ci si sta rivolgendo nel caso si voglia proporre una candidatura. Le aziende con una propria sezione per candidature di lavoro solitamente sono di grandi dimensioni e si può allo stesso tempo consultare quali sono le posizioni aperte disponibili.
Sempre sul Web inoltre si possono consultare centinaia di siti dedicati al lavoro, ed anche in questo sito offriamo una panoramica dei principali siti e portali con moltissime offerte di lavoro(vedi la sezione adatta: http://www.risorsedisumane.com/offerte/).a maggior parte dei siti per il lavoro permette un’iscrizione gratuita necessaria per poter inviare la propria candidatura a seguito di annunci da parte di aziende. Alcuni sono portali che offrono propri annunci che consentono il contatto con le aziende rispondendo agli stessi.
Altri sono invece dei veri “motori di ricerca” per annunci di lavoro, come ad esempio CareerJet, Trovit Lavoro e JobRapido, che mostrano i risultati da tanti siti differenti per le parole chiave immesse, per la località indicata, o anche per la tipologia di impiego o altri parametri inseriti.
Tra i portali per il lavoro ricordiamo tra i più rinomati: Monster.it, con sezione talent per neolaureati, beknown per cercare tramite social network, i profili aziendali per la ricerca per azienda. Fornisce anche consigli su come scrivere il cv o la lettera di presentazione per candidarsi; Infojobs, permette di cercare gli annunci per località, categorie e tipo di impiego, ordinando i risultati per vari fattori e visionare di volta in volta lo stato della propria candidatura;
Vi sono anche siti in cui non è necessario registrarsi per rispondere ad annunci di lavoro, sebbene è sempre consigliato inviare un cv aggiornato e una lettera di presentazione motivata. È il caso ad esempio della sezione lavoro di subito.it e kijiji.it.
Altri siti per il lavoro conosciuti sono Trovalavoro.it, Indeed.it, Corriere Lavoro.
Quasi tutti i siti hanno anche un servizio “alert” grazie al quale poter ricevere via mail gli annunci maggiormente indicati per il profilo o i profili ricercati, anche suddivisi per area geografica.
Ancora oggi in Italia, nonostante esistano diverse centinaia di società di ricerca lavoro e head hunting, oltre il 40% del mercato del lavoro transita attraverso il canale delle conoscenze dirette.
A questo meccanismo si associa a volte un significato deteriore, la prima cosa che si pensa è che occorra essere raccomandati per trovare lavoro. Ma in verità non è (sempre) così: si tratta di una fenomeno che trae origine da motivazioni diverse e molto semplici, quali ad esempio la volontà di venire in contatto con professionalità certificate da persone di fiducia, di evitare i costi di una selezione, ecc.
Quali che siano le motivazioni, il vero problema rappresentato da questo meccanismo di ricerca e selezione è la bassa visibilità, trasparenza e accessibilità delle opportunità di lavoro che transitano attraverso questo canale informale.
Cosa fare quindi? Informare tutti i propri parenti e conoscenti che si è alla ricerca di un’occupazione. E’ opportuno anche domandare loro di passare parola.
Quindi se frequentate posti di ritrovo, palestre, associazioni o qualunque altro ritrovo sociale, sia esso fisico o virtuale (ad esempio Forum di discussione, blog, social network su Internet) non abbiate paura di chiedere se qualcuno è a conoscenza di opportunità lavorative perché siete alla ricerca di un lavoro.
Su Internet poi è molto facile trovare gruppi di persone appassionate di un qualche argomento. Se partecipate a questi “gruppi” (organizzati sotto forma di forum, siti, blog, pagine facebook ecc.) verrete in contatto anche con persone che lavorano nel campo. Un’ottima opportunità quindi, da sfruttare al meglio.
Proprio su questa logica, ad esempio, si fonda il social network oggi leader nel campo del lavoro: LinkedIn. LinkedIn è un network creato esclusivamente per finalità professionali (a differenza di altri social come Facebook) e che risulta essere un mezzo importante per rendersi conto di cosa offre il mercato di lavoro a partire dai propri contatti. La propria pagina consente di gestire un curriculum online dove mostrare le proprie esperienze lavorative, il percorso di studi seguito, le competenze maturate, così che chiunque visiti la vostra pagina possa rendersi immediatamente conto di quali siano le vostre capacità.
Inoltre, vi è la possibilità di ottenere delle “segnalazioni”, vale a dire delle attestazioni fatte da colleghi e datori di lavoro sul vostro modo di lavorare e sulla vostra serietà, che sono un ottimo viatico per far capire che siete dei lavoratori affidabili. Anche su LinkedIn, infine, è possibile partecipare a progetti online ed entrare a far parte di gruppi tematici, il cui ambito rimane quello del mondo del lavoro e che possono essere importanti per ricercare nuove opportunità.
Esistono però almeno 3 valide strategie per farsi notare dagli Head Hunters che danno dei risultati immediati:
Essere Ordinati ed Attenti: questo consiglio vale principalmente nell’invio della propria candidatura (Curriculum e lettera di presentazione) ma anche per ciò che riguarda le vostre azioni di ricerca di un lavoro (commenti nei Gruppi Linkedin + scambio Email con HR). E’ fondamentale usare un servizio di Revisione Curriculum e Lettera di Presentazione per capire come riorganizzare le proprie esperienze lavorative e le proprie competenze in modo chiaro e lineare per il Recruiter che andrà a leggerlo.
Non limitarsi nelle candidature: se avete almeno il 50% delle competenze trovare lavoro descritte in un annuncio per ricoprire un dato ruolo mandate la vostra candidatura. Anche nel momento in cui non veniste scelti per la posizione descritta in annuncio, potete comunque essere notati dal selezionatore che ha pubblicato l’offerta per posizioni che dovrebbero aprirsi in organico o per altro. Ovviamente, non candidatevi come pizzaioli se siete dei controller senza esperienza in lievitazione e non candidatevi per tutte le posizioni aperte di una stessa società di Recruiting. Ricordate la regola del 50% delle mansioni e poi inviate la vostra candidatura
Essere presenti sul Web nel modo giusto: Ormai il 98% delle selezioni avviene e si chiude grazie al Web. Che sia per risposta passiva ad un annuncio da parte di un candidato che invia il suo curriculum o che sia per ‘caccia diretta’ di un Head Hunter su Linkedin, per trovare lavoro bisogna saper utilizzare internet. Un’attenzione particolare va rivolta alla propria reputazione online (Web Reputation) che può fare la differenza nell’essere scelti o meno per ottenere un Web Reputation lavoro ma soprattutto alla propria interazione sul Web. Ormai gli Head Hunters effettuano la loro caccia diretta tra gli utenti dei gruppi di Linkedin che dibattono su un tema professionale o in una comunità specifica. Fare ,commenti intelligenti ed approfonditi su temi di discussione professionali è tra le prime strategie per farsi notare da chi sta cercando il candidato ideale.
domenica 22 novembre 2015
Trovare lavoro: con internet e siti web
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Trovare lavoro: le strategie vincenti degli head hunter consigli trovare lavoro
Cercare e trovare lavoro: farsi scegliere dalle aziende curando Curriculum vitae, competenze, esperienze e professionalità e reputazione online.
I consigli dagli head hunter.
Lavorare per vivere e realizzarsi: un obiettivo difficile considerando le condizioni del mercato occupazionale. Per trovare lavoro è quindi importante puntare sulle strategie più efficaci per proporsi, emergere tra pile di CV, comunicare la proprie capacità e farsi apprezzare anche prima del colloquio. Massimo Rosa, storico head hunter oggi alla guida di Profili & Carriere nonché protagonista della prima edizione di “The Apprentice”, ci racconta i segreti per cercare e trovare impiego.
In Italia il 25% dei giovani è inattivo e rischia di essere dimenticato dal mercato. Nonostante il tasso di disoccupazione stia rallentando la sua folle colle al ribasso, gli effetti del Jobs Act sono ancora tiepidi. Il tasso di occupazione in lieve risalita conferisce un’iniziale vitalità ma favorisce anche una competizione agguerrita. Ecco perché Rosa intitola “Un lavoro infernale” il suo recente libro, in cui spiega i trucchi per farsi notare e scegliere dalle aziende.
Farsi trovare
Per farsi vedere ritiene imprescindibile la perfetta conoscenza e l’utilizzo dei social network professionali. Conoscere le dinamiche comunicazionali del Web e saperle gestire a proprio vantaggio è il consiglio più efficace che si possa dare. Come estrema ratio si potrebbe creare anche una pagina web personale ma un CV digitale è comunque indispensabile.
Il Curriculum Vitae in formato europeo non è poi così apprezzato: meglio evitare la standardizzazione e dare spazio alla libera espressione, pur senza esagerare. L’ideale è rimanere in linea con la propria personalità, impiegando modi e forme che rispecchino la propria persona. Per “far risplendere” le proprie competenze si possono adottare formati non consueti, come quelli suggeriti nel libro di Rosa “Curriculum Guerrilla – 100 modi non convenzionali di trovare lavoro“.
Per “attirare l’attenzione” dei recruiter e accedere a un colloquio è comunque indispensabile essere in possesso dei giusti requisiti. Il consiglio è quindi di rispondere agli annunci e inviare la propria candidatura solo se si possiedono le skill richieste.
Farsi apprezzare
La lettera di presentazione non sembra aver mai avuto particolare efficacia, salvo in ambienti particolari, mentre le referenze hanno utilità se reali e realizzate da un professionista tramite propri canali.
Dipendentemente dal contesto dell’impresa, l’abito e la presentazione sono un metro di misura ma tatuaggi, piercing e capelli tinti (tipici di una cultura contemporanea) potrebbero non essere ricompresi nell’oggetto di valutazione, tranne se limitativi per le mansioni in oggetto. In termini di reputation online è invece importante fare attenzione a ciò che si pubblica, in particolare sul proprio profilo Facebook, perché foto e commenti parlano della persona: non esiste recruiter che non incroci i dati web con quelli del CV e del colloquio. In questa sede, infine, piuttosto che cercare profili particolari, gli head hunter prestano grande attenzione alle soft skills, abilità non tecniche ma essenziali per essere selezionati od ottenere riconoscimento professionale: competenze comportamentali e manageriali, capacità relazionali, problem solving, teamwork e leadership sono moneta sonante da spendere in fase di colloquio.
Farsi desiderare
Diventare un candidato “rockstar” che si fa corteggiare dalle aziende richiede qualche accorgimento in più:
curare la formazione e l’autoformazione su temi ortogonali al proprio, per acquisire la capacità di “cambiare punto di vista”;
rendersi disponibile ad insegnare su tematiche del proprio solido background non solo per praticare il volontariato ma anche per elevare la propria reputazione online;
estendere il proprio network di contatti per far scaturire nuove opportunità;
cambiare abitudini per conoscere persone nuove e “capitare” opportunamente proprio nei luoghi
frequentati dai manager dell’azienda/e target;
scrivere uno slogan breve e conciso che possa rappresentare se stessi e un breve profilo da “sciorinare” proprio quando serve.
Contrattazione
Avere ben chiari obiettivi e aspirazioni rende cruciale la definizione delle condizioni contrattuali. Per identificare requisiti minimi o livelli massimi raggiungibili, è consigliabile stilare la propria dream list, elenco delle caratteristiche del lavoro ideale. In base il colloquio e all’azienda, si potrà poi valutare su quali punti si è disponibili a scendere a patti o meno.
Un’attività che oramai è diventata un vero e proprio lavoro per la maggior parte delle persone e da cui tutti, almeno una volta nella vita, sono dovuti passare, è quella di attivarsi per la ricerca di un impiego lavorativo e spesso si vive questa ricerca come un disagio, soprattutto quando dopo un certo tempo passato a sforzarsi in questo senso, non si riesce a trovare un lavoro o magari nemmeno ad arrivare alla fase di colloquio.
In Italia a svolgere attività di intermediazione di manodopera vi sono sia soggetti pubblici, come i Centri per l’Impiego, sia soggetti privati come ad esempio le agenzie per il lavoro (la nuova denominazione delle agenzie interinali) ormai diffuse in tutti i centri urbani e che ricercano figure lavorative a vari livelli .
Può apparire banale dirlo ma è indispensabile sapere, nell’accingersi a cercare lavoro, quale tipo di impiego si sta cercando. Se non si hanno le idee chiare al proposito è certamente opportuno rivolgersi a un Centro per l’Impiego che ha al proprio interno un servizio di orientamento.
Un operatore di orientamento del Centro per l’Impiego può dare aiuto per capire le professioni più adatte ai propri studi, esperienze, conoscere i propri punti forti e punti deboli ed a dare una serie di consigli su come compilare un curriculum o affrontare un colloquio.
Sempre gli operatori del Centro per l’Impiego possono fornire elenchi di imprese in cerca di personale a cui inviare la propria candidatura, elenchi di bandi pubblici e graduatorie pubbliche aperte. Tra le agenzie per il lavoro più conosciute ricordiamo, in ordine alfabetico, Adecco, GiGroup, KellyServices, Manpower, Metis, PagePersonnel, Umana.
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Jobs act: il nuovo contratto di collaborazione per il 2016
Collaborazioni organizzate dal committente, è il nome che il decreto utilizza per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (spesso noti come co.co.co.) nati nel 1997 con la cosiddetta legge Treu, poi modificati – in molti casi – in contratti a progetto (co.co.pro.) dal DLgs. 276/03.
Questi contratti erano e restano una categoria intermedia tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato, in cui c’è in teoria la piena autonomia operativa e non c’è vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il committente all’interno dell’organizzazione aziendale. Per evitare che questi contratti mascherino in realtà lavoro subordinato con minori costi e tutele, il decreto introduce le caratteristiche per individuare i rapporti di collaborazione da ritenere invece subordinati, a partire dall’1 gennaio 2016: prestazioni esclusivamente personali e continuative, organizzate dal committente anche in riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
La seconda indicazione – tempi e luogo – è quella più chiara e stringente, ma il decreto introduce comunque quattro possibilità di deroga, per le quali non vale quanto sopra indicato:
– collaborazioni realizzate sulla base di accordi collettivi nazionali stipulati dai sindacati in ragione di particolari esigenze produttive e organizzative di uno specifico settore;
– collaborazioni relative a professioni intellettuali per la quali è necessaria l’iscrizione agli albi professionali (ingegneri, giornalisti, avvocati, ecc.);
– attività specifiche di componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e di partecipanti a collegi e commissioni;
– prestazioni per associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate a federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate e enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI (allenatori e istruttori, principalmente).
Col decreto vengono abrogate tutte le norme esistenti al riguardo, che sopravvivono solo per i contratti ancora in essere, tuttavia le nuove indicazioni valgono a partire dal 2016: per circa sei mesi questo tipo di contratti non potranno essere quindi stipulati.
Con l’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act (dlgs 81/2015) sono cambiati i contratti di collaborazione: vediamo quali sono le principali caratteristiche delle nuove formule, a partire dall’autonomia gestionale limitata, che li distanzia sempre di più dal rapporto di lavoro autonomo, lasciando tuttavia, un certo grado di libertà, quel tanto che permette di farli discostare anche dalla subordinazione.
In pratica, la nuova normativa sul riordino dei contratti di lavoro ha profondamente modificato i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co.co.co.): se l’intento dichiarato era quello di abolirli a vantaggio di formule contrattuali stabili, nella pratica sussistono numerose eccezioni che rendono tali collaborazioni ancora stipulabili, ma prive di gran parte delle garanzie e tutele finora previste, soprattutto quelle stabilite dal decreto legislativo 276/2003.
Normativa
Il riferimento normativo per la nuova disposizione legislativa in materia di collaborazioni è l’articolo 409 c.p.c., inserito in realtà nel “Titolo quarto” dedicato alle “Norme per le controversie in materia di lavoro”. A rendere possibili nuove forme di collaborazione è anche il Collegato Lavoro alla Legge di Stabilità 2016.
Entrando nel concreto, il decreto attuativo del Jobs Act ha:
abrogato tutti gli articoli della Riforma Biagi sulle collaborazioni coordinate e continuative anche a progetto;
abrogato le norme della Riforma del Lavoro Fornero che limitavano l’utilizzo delle collaborazioni rese da persone titolari di posizione fiscale ai fini IVA (le cosiddetta “partite IVA”).
Ecco come viene definita dalla norma la tipologia contrattuale in esame:
“Rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Nuova presunzione di subordinazione
Il decreto ha stabilito i parametri da utilizzare per un rapporto di collaborazione autentico (articolo 2). In sostanza, il contratto non deve contenere alcune modalità esplicative della prestazione. Nel caso in cui queste siano presenti, dal 1° gennaio 2016, ai rapporti di collaborazione interessati si applicherà la disciplina del rapporto di lavoro subordinato:
“A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Si tratta di elementi che devono essere presenti in contemporanea; la mancanza di uno solo di questi elementi non fa scattare la presunzione assoluta.
Perché i contratti di collaborazione vengano giudicati autentici devono essere:
collaborazioni continuative, svolte in maniera prevalentemente personale e autonomamente organizzate dal collaboratore;
collaborazioni disciplinate (trattamento economico e normativo), dai CCNL (stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale), in ragione delle particolari
esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
collaborazioni rese in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate al C.O.N.I.;
collaborazioni certificate dalle Commissioni di Certificazione, in base all’art. 76 del D.L.vo n. 276/2003.
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domenica 8 novembre 2015
Diritti del lavoratore: demansionamento e dequalificazione professionale
La sentenza n. 20473 della Corte di Cassazione sezione lavoro del 29 settembre 2014, ha stabilito che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l'asserito demansionamento, in quanto va evitato, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale.
Quando il dipendente viene declassato e adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione La recente approvazione della riforma del lavoro, detta Jobs act, ha introdotto fra le altre cose il concetto di demansionamento.
Vediamo di capire meglio se e quando è lecito, e quali siano i margini di manovra delle aziende e dei lavoratori.
Il dipendente non può essere infatti adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato (è il cosiddetto demansionamento): il divieto è volto ad evitare la lesione della professionalità acquisita dal lavoratore.
Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda. Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.
Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:
– modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o
– previste dai contratti collettivi.
In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.
Con le recenti modifiche approvate con il Job Act è invece possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita).
Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.
Per esempio: a un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificata al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, soprattutto in materia di onere della prova e del risarcimento del danno. In particolare, secondo i giudici, il demansionamento è escluso nei casi di:
– adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;
– riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore;
– sopravvenuta infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.
La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.
Inoltre, un eventuale demansionamento non va valutato in rapporto ad un incarico di natura temporanea, bensì alle mansioni originarie e tipiche della qualifica del lavoratore. Per cui, se il lavoratore viene adibito solo temporaneamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni ciò non significa che sia stato demansionato.
Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Sono tuttavia esclusi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.
Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Pertanto il lavoratore può agire in tribunale, con una causa di lavoro, e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro – anche provvisoria – recedere dal contratto per giusta causa.
Il ricorso al giudice del lavoro costituisce lo strumento per accertare la violazione del divieto di demansionamento. Accertata la violazione, il giudice può disporre a tutela del lavoratore:
– la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;
– la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate medio tempore (es. nel caso di attribuzione di mansioni inferiori con conseguente trattamento economico deteriore);
– la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subito.
Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale deve essere sempre provato dal lavoratore che deve dimostrare una riduzione dello stipendio e/o le conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. In difetto, il giudice, anche qualora rilevi l’avvenuto demansionamento e l’illegittimità della condotta del datore, non può liquidare alcun indennizzo al dipendente.
Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale, è, infatti, necessario fornire prove o allegazioni del male subito.
In tal senso il danno da dequalificazione o da demansionamento può consistere:
– sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio (sempre di natura economica) subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno
– sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.
Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è ritenuto legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede.
Il rifiuto della prestazione lavorativa può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e lealtà, risulta oggettivamente ragionevole e logico, cioè deve trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate. In tal caso, l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro.
Comunque sul datore di lavoro grava l’obbligo di comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta, pena la nullità. In materia di onere della prova e risarcimento del danno, poi, è intervenuta la giurisprudenza.
In particolare, il demansionamento viene escluso dai giudici nei casi di:
adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non comprese nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;
riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo . In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate;
intervenuta infermità permanente, a patto che tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.
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Lavorare con l’intelligenza digitale, una guida per guadagnare con il web
Prima di vedere in dettaglio come guadagnare con Internet, bisogna scegliere quale strada percorrere: quella dei guadagni facili, esigui ma sicuri, oppure quella che porta alla preparazione di una vera e propria attività online con tutte le possibili prospettive ed esposizioni del caso.
In merito alla prima categoria, ci sono tantissime soluzioni che potresti provare, serie e meno serie, puntuali e meno puntuali nei pagamenti, è consigliabile concentrarci principalmente sui siti che permettono di guadagnare piccole somme di denaro scrivendo delle guide su determinati argomenti.
Se si è particolarmente competente su un determinato argomento (es. informatica, cura della casa, benessere, giardinaggio, ecc.) e piace scrivere, si puoi provare a raggranellare qualche soldo iscrivendoti a O2O. Si tratta di un sito Internet in cui ciascun utente può iscriversi gratis e ricevere dei pagamenti per ciascuna guida scritta (in media pari a 3 euro). I compensi variano in base alla valutazione data ai propri scritti dagli altri utenti del sito e vengono elargiti al raggiungimento della soglia minima di 25 euro.
Ora passiamo all’altra strada più difficile attraverso la quale si possono conseguire guadagni più consistenti ma solo se si ha la giusta dose di bravura e fortuna. Le attività che si possono mettere in piedi sul Web sono tantissime e di vario genere, ma si potrebbe cominciare con azioni comuni, come l’apertura di un blog o l’allestimento di un negozio online.
Il Global Digital Iq Survey di PricewaterhouseCoopers ha intervistato 2mila executive per ricavare i 10 attributi che guidano la crescita di un'azienda.
Eccoli
Un Ceo “campione” nel digitale
Il cambiamento inizia dal basso. Ma deve essere guidato dall'alto. L'indagine di PricewaterhouseCoopers evidenzia come il primo attributo per la crescita di una società sia la presenza di un Ceo “campione nel digitale”: un amministratore delegato che conosca, studi e cerchi di sfruttare le scosse dalla digital disruption. Qualcosa si sta evolvendo, se è vero l'86% dei manager intervistati nella ricerca ritiene «fondamentale» il potenziamento delle tecnologie digitali all'interno del proprio business. Ma da qui a farne una strategia, il passo è ancora lungo. Sopratutto in Italia, dove il web (e le tecnologie in generale) sono guardato con sospetto. Come spiega Massimo Pellegrino, partner di PwC, solo «pochissime aziende sono pronte o cercano attivamente - utilizzando anche le tecnologie digitali - di innovare drasticamente il modo in cui operano in un determinato mercato. In questo senso c'è molta resistenza al cambiamento e il tentativo di proteggere il più a lungo possibile lo status quo».
Predisporre una strategia condivisa
Il digitale fa vita a sé? Niente di più sbagliato, secondo l'indagine PwC: il secondo elemento di intelligenza digitale per la crescita della società sta nell'integrare l'azione di figure come Cio (Chief information officer) e Cdo (chief digital officer) nel modello di business della società. Se le dimensioni lo permettono, PwC suggerisce di creare nuove strutture organizzative di mediazione: la ricerca fa l'esempio di una società dell'healthcare che ha fondato un “consiglio digitale” per stringere le fila tra i responsabili di innovazione e marketing, con l'obiettivo di far confluire le esigenze in unico piano di sviluppo. Ci sono settori più o meno ricettivi? «Direi che, per esempio, nei settori bancario, e delle telecomunicazioni il livello di investimenti in ambito digital è rilevante così come la complessità dei progetti in corso – dice Pellegrino (Pwc) - In altri ambiti - penso per esempio al mondo delle assicurazioni - la consapevolezza dell'importanza della digitalizzazione è minore, anche se in crescita rispetto agli ultimi anni»
Coinvolgere tutti gli executive
Tanti tavoli, strategia unica. La ricerca PwC sostiene l'urgenza di una compenetrazione tra i lavoro e l'analisi di tutti gli executive, come terreno fertile per massimizzare gli investimenti e capire dove le sinergie possono fruttare di più. È il caso del rapporto tra due figure come il Chief information officer e il Chief marketing office: tanto vitale quanto debole, per ora, se si considera che in poco più della metà dei casi (54%) si può parlare di una «forte collaborazione» tra i due.
Diffondere la strategia digitale tra i dipendenti
La direzione è il digitale. Ma i dipendenti ne sono al corrente? Non sempre. L'indagine PwC sottolinea l'importanza di far conoscere su tutti i livelli gli investimenti societari nelle tecnologie It, per evitare un vuoto informativo sulle strategie di sviluppo intraprese dalla dirigenza. Oggi il 69% delle aziende interpellate da PwC ritiene che ci sia una condivisione orizzontale del progetto, contro il risicato 50% di un paio di anni fa. Il salto di qualità starebbe in un maggior coinvolgimento dei manager anche nelle comunicazioni di routine, dalla registrazione di video ai social network, per spiegare in maniera chiara cosa comporterà l'evoluzione digitale nella propria vita professionale.
Cercare nuove fonti...
Le informazioni non si inventano: si trovano. PwC sottolinea come le aziende con più potenziale digitale siano inclini ad analizzare, raccogliere e far propri gli stimoli di innovazione tecnologica che arriva da settori (o aziende!) diverse dalla propria. Non si tratta di inseguire tutti i trend di mercato, ma di monitorare con la maggiore accuratezza possibile tutti gli impulsi di evoluzione: da un nuovo dispositivo mobile alle strategie che permettono di “digitalizzare” di più il proprio business. Nel dettaglio PwC ha rilevato che il 71% delle aziende ricomprese nella categoria dei digital disruptors (al passo con l'evoluzione digitale, ndr) va a caccia di occasioni “esterne” per rendere il business compatibile con la rivoluzione digitale.
e farne un vantaggio competitivo
La “raccolta” di dati non basta. Il passo successivo, secondo la ricerca PwC, sta nel fare un filtro qualitativo delle tecnologie che possono alimentare di più la crescita del proprio business di riferimento. Secondo i manager intervistati nell'indagine, i terreni più promettenti per la crescita nell'arco di 3-5 anni sono settori come cyber-sicurezza, data mining e private cloud. Specializzazioni nuove, per nuovi professionisti: secondo Pellegrino, è necessario impostare una «cultura favorevole all'innovazione» con le competenze che lo consentono. Spiragli solo per i più tecnici? Non proprio: Pellegrino pensa a competenze ad ampio raggio, dalla matematica all'elasticità mentale di studi umanistici. «In azienda si ha bisogno sia di data scientist che sanno come utilizzare i dati per progettare la user experience di un'applicazione di ecommerce sia di analisti marketing che sappiano interpretare i prossimi trend di consumo sulla base di ricerche di mercato e sociologiche ma che per farlo sappiano utilizzare tecniche di data mining».
Usare i business data
A proposito di data mining. Le aziende con maggiori prospettive di crescita vedono uno strumento più interessante della media nell'utilizzo dei dati: come si catturano, come si analizzano, come possono giocare a favore della crescita aziendale. Tra i bacini principali si segnalano i dati da parte di terzi (78%), quelli derivanti delle applicazioni cloud (70%) e dai social media (69%).
Rapporto attivo con la cyber security
La cyber sicurezza è un obbligo. E se fosse un investimento? Secondo l'indagine PwC, il salto di qualità attribuibile alla intelligenza digitale (digital Iq) sta proprio nel fare un uso più attivo dello scudo di difesa dalle minacce della rete. Un sistema di cybersecurity efficace non è solo un meccanismo di tutela, ma può concorrere favorevolmente al potenziamento del brand e ai vantaggi competitivi rispetto a una concorrenza più sguarnita in materia. Il ragionamento è condiviso dalle società con il più alto livello di performance, non a caso più confidenti della media (80%) sulla capacità di «gestire i propri rischi». Nel concreto una strategia per ricavare benefit dalla sicurezza informatica può essere quella di coinvolgere un risk manager in tutte le operazioni che riguardano nuovi prodotti e nuovi servizi, per ridurre il grado di vulnerabilità online.
Tracciare una «roadmap digitale»
Il 45% dei manager vede negli investimenti in tecnologia digitale una strategia per «aumentare i ricavi» nel breve periodo. La posizione è prevedibile, ma conferma i sospetti avanzati dalla stessa ricerca: la carenza di strategie di lungo periodo, a partire da un pilastro per la crescita sostenibile come la stesura di una “road map” che sancisca con precisione budget, investimenti e competenze da mettere in campo per lo sviluppo del business. Ad oggi solo il 53% delle aziende dichiara di averne tracciata una, contro il 63% di quattro anni fa. E appena il 55% conta su tutte le competenze che si riveleranno necessarie. Dove ha attecchito di più la pratica della road map? Secondo i dati PwC, i continenti più “previdenti” sono Asia (59%) e Nord America (57%), seguiti da America Latina (54%), Europa occidentale (50%), Europa centrale ed orientale (47%), Africa (44%) e Medio Oriente (9%).
Misurare i risultati
Sì, ma come si stabiliscono i risultati? La ricerca PwC individua il decimo fattore di aumento della performance proprio nella capacità di registrare, tracciare e analizzare i ritorni degli investimenti nelle tecnologie digitali. La pratica richiede una combinazione di criteri tradizionali (come il Roi, il ritorno sugli investimenti in senso stretto) con nuovi parametri, a partire dalla introduzione di “cybermetriche” adatte a catturare la complessità di un ricavo dal web.
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