sabato 28 luglio 2012
Pensioni 2012 dimezzate nel primo semestre
Buone notizie per l'Inps: nei primi sei mesi del 2012, le nuove pensioni liquidate dall'ente di previdenza si sono dimezzate rispetto allo stesso periodo del 2011. Parallelamente, nel primo semestre dell'anno, l'età media di accesso alla pensione è cresciuta di quasi un anno rispetto al dato precedente. Meno nuovi pensionati, quindi, e più vecchi. I dati risentono della finestra mobile e dello scalino scattati nel 2011, ma inizia a farsi sentire pure l'effetto delle riforme Monti-Fornero, anche se l'impatto maggiore di queste misure si avrà nella seconda metà del 2012 e a partire dal 2013.
Gli assegni liquidati dall'Inps sono stati 84.537 con un calo del 46,99% rispetto allo stesso periodo 2011 (erano 159.485). Il dato è l'effetto diretto della finestra mobile e dello scalino scattati nel 2011 mentre la riforma Fornero avrà il vero impatto a partire dal 2013.
Nei primi sei mesi del 2012 l'età media per l'accesso alla pensione nel privato è stata di 61,3 anni, un anno in più' rispetto ai 60,4 anni registrati nel 2011. E' quanto emerso dalle tabelle Inps. L'età media è superiore di due anni rispetto alla Francia (59,3 anni) e vicina a quella tedesca (61,7 anni).
I dati esposti dall'Inps sul calo delle nuove pensioni dimostrano che le riforme "hanno funzionato" e che il sistema previdenziale "é stato messo in sicurezza": lo ha affermato il presidente Inps, Antonio Mastrapasqua precisando che "questi sono dati dell'economia reale del Paese. E' un segnale per l'Europa e per i mercati".
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lunedì 23 luglio 2012
Mercato del lavoro:le baby pensioni quanto costano?
Pubblichiamo un’inchiesta fatta dal quotidiano Il Messaggero.
Innanzitutto l'età media dei baby-pensionati oggi si aggira sui 65 anni. Significa che per almeno altri 15 anni (considerando la vita media) il sistema sociale italiano dovrà far fronte a queste spese. La pensione media di un baby pensionato è di 1500 euro al mese. Importo di tutto rispetto calcolando l'esigua contribuzione e la durata del trattamento: almeno 3 volte quanto versato.
Noi tutti, paghiamo ancora più di mezzo milione di pensioni baby, liquidate a lavoratori con meno di 50 anni d’età: 535.752 per la precisione, che costano circa 9,5 miliardi di euro l’anno. Ancora oggi l’Inpdap, l’ente di previdenza del pubblico impiego, paga 428.802 pensioni concesse sotto i 50 anni: di queste più di 239 mila vanno a donne e quasi 185 mila a uomini, per una spesa nel 2010 di 7,4 miliardi. A queste pensioni si sommano 106.905 pensioni liquidate a persone con meno di 50 anni nel sistema Inps (regimi speciali e prepensionamenti) per un costo di altri 2 miliardi.
Le baby pensioni compaiono nel nostro ordinamento con il decreto (Dpr 1092) che entrò in vigore il 29 dicembre 1973. È l’anno della crisi energetica, della guerra del Kippur, del Watergate nella sua pienezza.
Sono gli anni ’70, quel groviglio di fortissime tensioni politiche, di trasformazioni sociali e di terrorismo.
Il Dpr 1092 prevede per il settore pubblico la possibilità di andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno per le donne con prole, 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini, e 24 anni sei mesi e un giorno per i dipendenti degli enti locali.
Alberto Brambilla, già sottosegretario al Ministero del Lavoro e uno dei massimi esperti italiani di pensioni, quest’anno, in occasione della giornata mondiale della previdenza, ha curato un testo molto utile per la ricostruzione storica della previdenza in Italia, un libro sfogliabile in internet, “I 150 anni della previdenza sociale nei 150 anni dell’Unità d’Italia”. Ha spiegato al Messaggero: “Quel Dpr chiude un ciclo di interventi esiziali sulle pensioni. Nel 1969 c’era stata la legge Brodolini con l’adozione generalizzata del sistema retributivo, con l’istituzione delle pensioni di anzianità, e l’adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. I due provvedimenti, quello del 1969 e questo del 1973 hanno inciso pesantemente e negativamente sui conti pubblici. Già nel 1978, prima dei lavori della commissione Castellino, era chiaro che
il sistema previdenziale era squilibrato”.
Franco Marini, segretario della Cisl tra il 1985 e il 1991 in quel dicembre del 1973 era appena entrato nella segreteria confederale della Cisl guidata da Storti. Dice: “Sì, è vero che non c’era nella classe politica né nel corpo della stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell’impatto che l’allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle baby-pensioni causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata. Ci fu disagio nei confronti dei lavoratori privati che erano esclusi da quel trattamento. Anche se qualcuno riteneva che il baby pensionamento compensasse il fatto che i dipendenti del privato avessero avuto fino a quel momento salari molto più alti”.
Secondo un calcolo effettuato da Confartigianato i baby pensionati italiani (pubblici e privati) rispetto al pensionato medio hanno ricevuto un trattamento più lungo di quasi sedici anni. Questo significa che a valori 2010 la differenza (cioè il costo in più rispetto a un normale trattamento pensionistico) varrebbe 148,6 miliardi di euro. Cioè: in questi 40 anni, l’esistenza delle baby pensioni ci è costata quasi 150 miliardi più di quanto ci sarebbe costata la previdenza se i baby pensionati fossero andati a riposo con le stesse regole degli altri. Una tassa cumulata – secondo le stime degli artigiani – di circa 6.630 euro che grava su ognuno degli occupati italiani.
Si tratta di persone che in un calcolo medio restano in pensione per quasi 41 anni.
Per farsi un’idea, i nove miliardi e mezzo l’anno che noi spendiamo per le pensioni baby (tra il 4 e il 5% del totale della nostra spesa pensionistica) sono all’incirca il doppio di quanto – secondo una stima fatta da Confindustria – ci costano tutti gli anni i circa 180.000 eletti del sistema politico-istituzionale italiano, la cosiddetta casta: quattro miliardi contro cui un pezzo di opinione pubblica è costantemente mobilitata.
Eppure le incrostazioni corporative, i riflessi automatici, i punti di principio sono rimasti. Quando l’anno scorso il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, propose un contributo di solidarietà dell’un per cento che avrebbe toccato anche le pensioni baby ci fu una levata di scudi sui diritti acquisiti, che proprio non si toccano. Eppure è chiaro che in alcuni casi la costruzione dei diritti acquisiti è il risultato dell’iniquità, dell’inopportunità o dell’incongruenza di una norma.
Di sicuro c’è un punto che riguarda la natura del debito pubblico: se l’eccesso di spesa pubblica è servito a trasferire sullo stato il costo dei privilegi accordati dalla competizione politica a pezzi di società, forse per recuperare quelle risorse dobbiamo innanzitutto rivolgerci a chi per primo ne ha beneficiato (in previdenza, concessioni fiscali, aiuti, regalie e sprechi). Ovviamente i baby pensionati non sono i più ricchi tra i beneficiari della spesa pubblica allegra, però sono tra quelli che più apertamente hanno goduto di uno squilibrio. Forse è stata una generosità che è andata oltre gli obblighi della solidarietà.
Innanzitutto l'età media dei baby-pensionati oggi si aggira sui 65 anni. Significa che per almeno altri 15 anni (considerando la vita media) il sistema sociale italiano dovrà far fronte a queste spese. La pensione media di un baby pensionato è di 1500 euro al mese. Importo di tutto rispetto calcolando l'esigua contribuzione e la durata del trattamento: almeno 3 volte quanto versato.
Noi tutti, paghiamo ancora più di mezzo milione di pensioni baby, liquidate a lavoratori con meno di 50 anni d’età: 535.752 per la precisione, che costano circa 9,5 miliardi di euro l’anno. Ancora oggi l’Inpdap, l’ente di previdenza del pubblico impiego, paga 428.802 pensioni concesse sotto i 50 anni: di queste più di 239 mila vanno a donne e quasi 185 mila a uomini, per una spesa nel 2010 di 7,4 miliardi. A queste pensioni si sommano 106.905 pensioni liquidate a persone con meno di 50 anni nel sistema Inps (regimi speciali e prepensionamenti) per un costo di altri 2 miliardi.
Le baby pensioni compaiono nel nostro ordinamento con il decreto (Dpr 1092) che entrò in vigore il 29 dicembre 1973. È l’anno della crisi energetica, della guerra del Kippur, del Watergate nella sua pienezza.
Sono gli anni ’70, quel groviglio di fortissime tensioni politiche, di trasformazioni sociali e di terrorismo.
Il Dpr 1092 prevede per il settore pubblico la possibilità di andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno per le donne con prole, 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini, e 24 anni sei mesi e un giorno per i dipendenti degli enti locali.
Alberto Brambilla, già sottosegretario al Ministero del Lavoro e uno dei massimi esperti italiani di pensioni, quest’anno, in occasione della giornata mondiale della previdenza, ha curato un testo molto utile per la ricostruzione storica della previdenza in Italia, un libro sfogliabile in internet, “I 150 anni della previdenza sociale nei 150 anni dell’Unità d’Italia”. Ha spiegato al Messaggero: “Quel Dpr chiude un ciclo di interventi esiziali sulle pensioni. Nel 1969 c’era stata la legge Brodolini con l’adozione generalizzata del sistema retributivo, con l’istituzione delle pensioni di anzianità, e l’adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. I due provvedimenti, quello del 1969 e questo del 1973 hanno inciso pesantemente e negativamente sui conti pubblici. Già nel 1978, prima dei lavori della commissione Castellino, era chiaro che
il sistema previdenziale era squilibrato”.
Franco Marini, segretario della Cisl tra il 1985 e il 1991 in quel dicembre del 1973 era appena entrato nella segreteria confederale della Cisl guidata da Storti. Dice: “Sì, è vero che non c’era nella classe politica né nel corpo della stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell’impatto che l’allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle baby-pensioni causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata. Ci fu disagio nei confronti dei lavoratori privati che erano esclusi da quel trattamento. Anche se qualcuno riteneva che il baby pensionamento compensasse il fatto che i dipendenti del privato avessero avuto fino a quel momento salari molto più alti”.
Secondo un calcolo effettuato da Confartigianato i baby pensionati italiani (pubblici e privati) rispetto al pensionato medio hanno ricevuto un trattamento più lungo di quasi sedici anni. Questo significa che a valori 2010 la differenza (cioè il costo in più rispetto a un normale trattamento pensionistico) varrebbe 148,6 miliardi di euro. Cioè: in questi 40 anni, l’esistenza delle baby pensioni ci è costata quasi 150 miliardi più di quanto ci sarebbe costata la previdenza se i baby pensionati fossero andati a riposo con le stesse regole degli altri. Una tassa cumulata – secondo le stime degli artigiani – di circa 6.630 euro che grava su ognuno degli occupati italiani.
Si tratta di persone che in un calcolo medio restano in pensione per quasi 41 anni.
Per farsi un’idea, i nove miliardi e mezzo l’anno che noi spendiamo per le pensioni baby (tra il 4 e il 5% del totale della nostra spesa pensionistica) sono all’incirca il doppio di quanto – secondo una stima fatta da Confindustria – ci costano tutti gli anni i circa 180.000 eletti del sistema politico-istituzionale italiano, la cosiddetta casta: quattro miliardi contro cui un pezzo di opinione pubblica è costantemente mobilitata.
Eppure le incrostazioni corporative, i riflessi automatici, i punti di principio sono rimasti. Quando l’anno scorso il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, propose un contributo di solidarietà dell’un per cento che avrebbe toccato anche le pensioni baby ci fu una levata di scudi sui diritti acquisiti, che proprio non si toccano. Eppure è chiaro che in alcuni casi la costruzione dei diritti acquisiti è il risultato dell’iniquità, dell’inopportunità o dell’incongruenza di una norma.
Di sicuro c’è un punto che riguarda la natura del debito pubblico: se l’eccesso di spesa pubblica è servito a trasferire sullo stato il costo dei privilegi accordati dalla competizione politica a pezzi di società, forse per recuperare quelle risorse dobbiamo innanzitutto rivolgerci a chi per primo ne ha beneficiato (in previdenza, concessioni fiscali, aiuti, regalie e sprechi). Ovviamente i baby pensionati non sono i più ricchi tra i beneficiari della spesa pubblica allegra, però sono tra quelli che più apertamente hanno goduto di uno squilibrio. Forse è stata una generosità che è andata oltre gli obblighi della solidarietà.
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Lavoro: il trasferimento in azienda deve essere motivato
Il trasferimento che comporta dequalificazione professionale. Non è sanzionabile con il licenziamento per giusta causa il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa dovuta a causa della ritenuta dequalificazione. A precisarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4709 del 23 marzo del 2012.
E’ bene ricordare che l’art. 2103 c.c. dispone che il trasferimento possa essere attuato solo in presenza di "comprovate ragioni tecniche organizzative o produttive".
Quindi lavoratore dipendente può essere trasferito solo a condizione che il datore di lavoro possa dimostrare:
l'inutilità di tale dipendente nella sede di provenienza;
la necessità della presenza di quel dipendente, con la sua particolare professionalità, nella sede di
destinazione;
la serietà delle ragioni che hanno fatto cadere la scelta proprio su quel dipendente e non su altri colleghi che svolgano analoghe mansioni.
Queste ragioni debbono essere portate a conoscenza del dipendente per iscritto, prima del trasferimento. Se la lettera non contiene l'indicazione delle ragioni è però necessario che il dipendente le richieda espressamente.
In mancanza delle condizioni sopra esposte, il trasferimento è illegittimo e può essere annullato dal pretore del lavoro, a cui l’interessato deve rivolgersi se ritiene che il provvedimento sia illegittimo.
Il trasferimento presuppone che, nonostante la modifica del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, resti invariato il datore di lavoro.
Resta chiaro dopo la sentenza n. 4709 che, il lavoratore può rifiutare di prestare la propria prestazione di lavoro se il provvedimento di trasferimento non è adeguatamente motivato.
La vicenda vede coinvolto un impiegato addetto all'ufficio commerciale che era stato trasferito ad altro stabilimento con la nuova qualifica di responsabile del magazzino materie prime. Il dipendente aveva aderito al trasferimento ma dopo un breve periodo di lavoro presso la nuova sede, si era messo a disposizione dell'azienda presso la propria abitazione.
L’azienda aveva contestato l’assenza ingiustificata e gli aveva quindi comunicato il licenziamento per giusta causa. Ad avviso del ricorrente il trasferimento ed il conseguente licenziamento erano da ritenersi illegittimi, considerato che il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti era del tutto giustificato, anche in considerazione della palese inconsistenza delle dedotte esigenze di riorganizzazione della gestione del magazzino.
Nei fatti, tuttavia, il dipendente aveva aderito al trasferimento ma dopo un breve periodo di lavoro presso la nuova sede, si era messo a disposizione dell'azienda presso la propria abitazione.
Ad avviso del ricorrente il trasferimento ed il conseguente licenziamento erano da ritenersi illegittimi, considerato che il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti era del tutto giustificato, anche in considerazione della palese inconsistenza delle dedotte esigenze di riorganizzazione della gestione del magazzino.
La sentenza ha ricordato la pronuncia n. 43 del 2007 sul trasferimento di dipendente divenuto invalido che non poteva più essere adibito alla sede originaria. La Cassazione aveva precisato che nella valutazione comparativa dei presunti inadempimenti reciproci, non si può prescindere dalla doverosa considerazione per cui il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa, se il datore di lavoro assolve a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro).
La Corte, nel fare riferimento all'art. 2103 del codice civile, sottolinea come il datore di lavoro abbia l'onere di provare in giudizio le ragioni fondate che hanno determinato il trasferimento, dimostrando le reali ragioni che giustificano il provvedimento. In assenza di ciò, il licenziamento viene annullato.
E’ bene ricordare che l’art. 2103 c.c. dispone che il trasferimento possa essere attuato solo in presenza di "comprovate ragioni tecniche organizzative o produttive".
Quindi lavoratore dipendente può essere trasferito solo a condizione che il datore di lavoro possa dimostrare:
l'inutilità di tale dipendente nella sede di provenienza;
la necessità della presenza di quel dipendente, con la sua particolare professionalità, nella sede di
destinazione;
la serietà delle ragioni che hanno fatto cadere la scelta proprio su quel dipendente e non su altri colleghi che svolgano analoghe mansioni.
Queste ragioni debbono essere portate a conoscenza del dipendente per iscritto, prima del trasferimento. Se la lettera non contiene l'indicazione delle ragioni è però necessario che il dipendente le richieda espressamente.
In mancanza delle condizioni sopra esposte, il trasferimento è illegittimo e può essere annullato dal pretore del lavoro, a cui l’interessato deve rivolgersi se ritiene che il provvedimento sia illegittimo.
Il trasferimento presuppone che, nonostante la modifica del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, resti invariato il datore di lavoro.
Resta chiaro dopo la sentenza n. 4709 che, il lavoratore può rifiutare di prestare la propria prestazione di lavoro se il provvedimento di trasferimento non è adeguatamente motivato.
La vicenda vede coinvolto un impiegato addetto all'ufficio commerciale che era stato trasferito ad altro stabilimento con la nuova qualifica di responsabile del magazzino materie prime. Il dipendente aveva aderito al trasferimento ma dopo un breve periodo di lavoro presso la nuova sede, si era messo a disposizione dell'azienda presso la propria abitazione.
L’azienda aveva contestato l’assenza ingiustificata e gli aveva quindi comunicato il licenziamento per giusta causa. Ad avviso del ricorrente il trasferimento ed il conseguente licenziamento erano da ritenersi illegittimi, considerato che il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti era del tutto giustificato, anche in considerazione della palese inconsistenza delle dedotte esigenze di riorganizzazione della gestione del magazzino.
Nei fatti, tuttavia, il dipendente aveva aderito al trasferimento ma dopo un breve periodo di lavoro presso la nuova sede, si era messo a disposizione dell'azienda presso la propria abitazione.
Ad avviso del ricorrente il trasferimento ed il conseguente licenziamento erano da ritenersi illegittimi, considerato che il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti era del tutto giustificato, anche in considerazione della palese inconsistenza delle dedotte esigenze di riorganizzazione della gestione del magazzino.
La sentenza ha ricordato la pronuncia n. 43 del 2007 sul trasferimento di dipendente divenuto invalido che non poteva più essere adibito alla sede originaria. La Cassazione aveva precisato che nella valutazione comparativa dei presunti inadempimenti reciproci, non si può prescindere dalla doverosa considerazione per cui il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa, se il datore di lavoro assolve a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro).
La Corte, nel fare riferimento all'art. 2103 del codice civile, sottolinea come il datore di lavoro abbia l'onere di provare in giudizio le ragioni fondate che hanno determinato il trasferimento, dimostrando le reali ragioni che giustificano il provvedimento. In assenza di ciò, il licenziamento viene annullato.
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