domenica 24 marzo 2013
Aspi e mini-aspi, modifiche alla legge di stabilità 2013
L'INPS, con la circolare n. 37 del 14 marzo 2013, precisa ed integra le disposizioni impartite in materia con la circolare n. 142 del 18 dicembre 2012 in merito alla indennità di disoccupazione Aspi e mini–Aspi, soprattutto per quanto riguarda le modifiche ed integrazioni introdotte dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 (c.d. Legge di stabilità 2013). In particolare ha apportato alcune modifiche ed integrazioni relativamente alla durata delle indennità, la sospensione della mini-Aspi e l’applicabilità delle norme in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola.
Con la circolare nr. 37 dello 14 marzo 2013, l’INPS ha precisato che:
La durata delle indennità
Con riferimento al meccanismo di computo della durata a regime dell’indennità di disoccupazione Aspi per i nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dal 1 gennaio 2016.
Ambito temporale nel medesimo periodo” è sostituito da “negli ultimi dodici mesi” e l’inciso di cui alla lett. b) del medesimo comma ”nel medesimo periodo” è sostituito da “negli ultimi diciotto mesi. Inoltre la novella legislativa precisa l’ambito temporale entro cui va verificato l’eventuale periodo di indennità già fruito, necessario per determinare il meccanismo di detrazione.
Alla luce di queste modifiche, la circolare precisa che:
a) per i lavoratori di età inferiore ai cinquantacinque anni, l’indennità viene corrisposta per un periodo massimo di dodici mesi, detratti i periodi di indennità già eventualmente fruiti sia a titolo di indennità di disoccupazione Aspi che mini-Aspi negli ultimi dodici mesi precedenti la data di cessazione del rapporto di lavoro;
b) per i lavoratori di età pari o superiore ai cinquantacinque anni, l’indennità è corrisposta per un periodo massimo di diciotto mesi, nei limiti delle settimane di contribuzione negli ultimi due anni, detratti i periodi di indennità già eventualmente fruiti sia a titolo di indennità di disoccupazione Aspi che mini-Aspi negli ultimi diciotto mesi precedenti la data di cessazione del rapporto di lavoro.
La sospensione della mini-Aspi
La legge di stabilità, modifica anche il meccanismo di computo della durata dell’indennità di disoccupazione mini-Aspi là dove all’art. 2, comma 21, l’inciso “detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo” è sostituito da “ai fini della durata non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione della prestazione”.
Pertanto relativamente al punto 3.2 (durata della prestazione), primo periodo, della circolare n. 142 del 2012 si precisa che l’indennità è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione nei dodici mesi precedenti la data di cessazione del rapporto di lavoro e che, ai fini della durata, non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione della prestazione.
Qualora invece la corresponsione di una precedente indennità mini-Aspi sia stata fruita parzialmente poiché interrotta per rioccupazione del beneficiario prima della fine del periodo di durata spettante, possono essere computati, ai fini di una eventuale nuova indennità mini-Aspi, anche i periodi di contribuzione residui presi in considerazione per la precedente prestazione parziale, ma in relazione ai quali non vi sia stata una concreta erogazione della stessa prima indennità. Questi periodi di contribuzione residui devono naturalmente ricadere nei dodici mesi precedenti la data di cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro
Applicabilità delle norme in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola.
La legge di stabilità modifica l’art. 2, comma 22, della legge di riforma citata con riferimento alle disposizioni sull’indennità di disoccupazione Aspi applicabili anche all’indennità mini-Aspi. In particolare, per l’indennità mini-Aspi è stato eliminato il richiamo al comma 15 che prevede, in caso di nuova occupazione del soggetto assicurato con contratto di lavoro subordinato, la sospensione fino ad un massimo di sei mesi dell’indennità in godimento .
Di conseguenza, in caso di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato del soggetto assicurato percettore di indennità mini-Aspi, ’indennità è sospesa fino ad un massimo di cinque giorni, secondo quanto disposto dall’art. 2, comma 23, della legge di riforma.
Istruzioni contabili
Al fine di rilevare gli effetti economico-finanziari e patrimoniali prodotti dalla normativa in oggetto, è stata istituita, a decorrere dall’esercizio 2013, nell’ambito della Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti (PT), specifica evidenza contabile:
PTA – Gestione dei trattamenti dell’Assicurazione sociale per l’impiego, di cui all’art. 2, comma 1, della legge 28 giugno 2012, n. 92.
Alla nuova gestione devono essere imputati tutti i fenomeni connessi con la prestazione di disoccupazione ordinaria, denominata Aspi, la cui disciplina è contenuta nel paragrafo 2 della richiamata circolare n. 142/2012, nonché quelli concernenti l’indennità riconosciuta ai soggetti in possesso dei requisiti ridotti, denominata mini-Aspi, di cui al paragrafo 3 della predetta circolare, che sostituisce la precedente indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti ridotti, per effetto dell’abrogazione dell’art. 7, comma 3 del decreto legge n. 86/88, convertito con modificazioni dalla legge n. 160/88, operata dall’art. 2, comma 69, lettera b) della legge in argomento.
L’onere per il pagamento delle nuove prestazioni è posto, in parte, anche a carico dello Stato e, pertanto, dovrà essere rilevato nell’ambito della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali (GIAS).
Per la rilevazione contabile dell’onere per le prestazioni in parola si istituiscono i seguenti nuovi conti:
PTA30100 – Indennità di disoccupazione Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 1 a 18 della legge n. 92/2012;
PTA30101 – Indennità di disoccupazione mini-Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 20 a 24 della legge n. 92/2012;
GAU30179 – Indennità di disoccupazione Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 1 a 18 della legge n. 92/2012 (per la quota parte GIAS);
GAU30180 – Indennità di disoccupazione mini-Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 20 a 24 della legge n. 92/2012 (per la quota parte GIAS).
Il debito nei confronti dei beneficiari per le prestazioni Aspi e mini-Aspi ed il conseguente pagamento ai medesimi soggetti deve essere imputato al conto in uso GPA10022 (sia per la quota a carico GIAS che per quella di spettanza della nuova gestione).
La liquidazione delle nuove indennità ai lavoratori in possesso dei requisiti previsti dalla normativa in parola, è disposta utilizzando la procedura dei pagamenti accentrati delle prestazioni non pensionistiche, secondo gli schemi di contabilizzazione in uso.
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Pensionati 2013: il Cud può essere consegnato dal commercialista
Anche i commercialisti, i ragionieri e, a certe condizioni, i periti tributari possono rilasciare il Cud ai pensionati. Dopo avere comunicato che i pensionati possono avere una stampa della Certificazione unica dei redditi presso i professionisti abilitati all'assistenza fiscale, l'Istituto – con messaggio 4909 del 22 marzo _ ha precisato che sono autorizzati i soggetti indicati nell'articolo 3, comma 3, del Dpr 322/1998 in possesso di certificato Entratel. E cioè: gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commercialisti, dei consulenti del lavoro; gli iscritti, al 30 settembre 1993, nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle Camere di commercio per la subcategoria tributi; le associazioni sindacali di categoria indicate nell'articolo 32, comma 1, lettere a), b), c) del Dlgs 241/1997.
Rientrano in questo gruppo Confindustria, Confartigianato eccetera, nonché le associazioni aderenti; le associazioni che riuniscono soggetti appartenenti a minoranze etnico-linguistiche; i Caf e altri soggetti individuati con decreto del ministro delle Finanze.
Finora, ha affermato il direttore generale dell'Inps Mauro Nori a «Salvadanaio» su Radio24, i canali preferiti dai cittadini sono stati il sito internet con 1,75 milioni di certificati, le sedi territoriali dell'istituto (500mila), il call center (450mila), oltre ai Caf.
Mentre prima di questo messaggio i pensionati che non riuscivano ad ottenere il Cud tramite internet dovevano andare in un ufficio postale e farselo stampare. Con un costo di 3,27 euro (2,70 più Iva). Era una delle opzioni messe a disposizione dall'Inps.
Poi una una notizia fresca che il certificato dei reddiri può essere rilasciato anche dai professionisti abilitati all'assistenza fiscale che hanno sottoscritto con l'Inps la convenzione per la trasmissione dei modelli Red, quali consulenti del lavoro e commercialisti.
I nuovi canali si aggiungono agli otto già attivati dall'istituto di previdenza, dato che da quest'anno, come detto, la modalità principale di recapito deve essere quella telematica, mentre fino all'anno scorso il documento veniva inviato per posta al domicilio dei pensionati. Una novità rilevante, tenuto conto che la maggior parte dei destinatari non ha grande dimestichezza con i computer e internet.
In base a quanto previsto dalla legge di stabilità, l'invio cartaceo del Cud dovrebbe costituire una modalità residuale che i pensionati possono richiedere chiamando il numero dedicato 800.43.43.20.
Oltre alle modalità annunciate ieri, il certificato è disponibile nella sezione "servizi al cittadino" del sito Inps a cui si accede tramite codice Pin.
Può inoltre essere richiesto e ricevuto tramite una casella di posta elettronica certificata. Viene rilasciato gratuitamente dalle sedi territoriali dell'Inps, dallo sportello mobile per gli utenti ultraottantacinquenni e dai Caf (gratuitamente per chi già si avvale dei servizi dei centri di assistenza fiscale). Inoltre può essere consegnato anche a una persona delegata dal diretto interessato.
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sabato 23 marzo 2013
Donne e lavoro più flessibilità e detassazione con il tempo parziale
Occorre detassare il lavoro delle donne e un uso più flessibile del tempo parziale sia per gli uomini sia per le donne in modo da riequilibrare i ruoli nella famiglia. Per la questione femminile e il mondo del lavoro: servono riforme e un cambio di visione.
L’Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia. Quando studiano, le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi, in tutte le materie. I dati del programma Pisa (Programme for international student Assessment, l’indagine promossa dall’Ocse — l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico — allo scopo di misurare le competenze degli studenti in matematica, scienze, lettura e abilità nel risolvere problemi) mostrano che a 15 anni le ragazze italiane raggiungono punteggi di gran lunga superiori ai maschi in «abilità di lettura» (510 contro 464, una differenza enorme) ma anche in «abilità scientifica» (490 contro 488). Solo in matematica le ragazze fanno un po’ meno bene dei maschi. Non è da escludere che questo sia un effetto indotto da una cultura che assegna a ragazzi e ragazze ruoli diversi: «La matematica è una cosa da uomini».
Lo si vede nella scelta dell’università: il 76% delle matricole delle facoltà umanistiche sono donne; nelle scientifiche solo il 37%. Questa scelta probabilmente riflette anch’essa stereotipi culturali.
Perché laurearsi in fisica nucleare per poi fare la casalinga?
Meglio studiare poesia. Quando però le donne si iscrivono a una facoltà scientifica, spesso sono più brave: alla Federico II di Napoli, ad esempio, il 37% delle ragazze si laurea con 110 e lode, contro il 24% dei maschi.
La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. È vero che le donne più giovani lavorano di più: ad esempio, nella classe di età 35-44, il tasso di partecipazione è aumentato di 5 punti in un decennio. Ma rimane 15 punti inferiore al corrispondente tasso tedesco.
Il motivo di queste differenze straordinarie è che in Italia la divisione dei compiti tra lavoro domestico e lavoro retribuito sul mercato è più sperequata fra uomo e donna. La donna lavora in casa, il marito o il compagno in fabbrica, o in ufficio, sebbene, come abbiamo visto, il capitale umano delle donne giovani sia in media più alto di quello degli uomini.
Insomma, troppe donne con grandi potenzialità non le sfruttano. I dati lo dimostrano chiaramente. All’interno delle mura domestiche le donne italiane fanno molto di più dei loro compagni: 6,7 ore di lavoro casalingo al giorno contro meno di 3 ore. Sommando il lavoro nel mercato e a casa, sono gli uomini ad apparire cicale mentre le donne, come formiche operose, lavorano quasi 80 minuti al giorno in più dei loro compagni. E questo accade indipendentemente dal livello di istruzione: è vero sia per le donne con la licenza elementare che per le laureate.
Perché le donne italiane lavorano così poco fuori casa? Si dice perché non ci sono abbastanza asili nido gratuiti o sussidiati. Magari fosse così semplice! In primo luogo tutte le donne in Italia lavorano meno che in altri Paesi, non solo le giovani madri. Inoltre, in molti casi, i bambini non verrebbero mandati al nido neanche se questo fosse gratuito perché si pensa che sia la mamma a doversi occupare dei figli piccoli.
Ci si aspetterebbe che il nostro fosse un Paese con un alto tasso di natalità. E, invece, tanta attenzione per i figli non si riflette in tassi di fertilità altrettanto elevati: anzi, la fertilità è molto più alta in Svezia, dove quasi tutte le donne lavorano (1,9 figli per donna), che in Italia (1,4).
Insomma, le ragioni della scarsa partecipazione al lavoro sono molto più profonde: hanno a che fare con la nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di «angelo del focolare» e all’uomo quello di produttore di reddito.
Ma il risultato è che tanti uomini mediocri fanno un mediocre lavoro in ufficio; un lavoro che le loro mogli casalinghe farebbero molto meglio perché hanno più capitale umano. Inoltre, al momento degli scatti di carriera spesso le imprese preferiscono gli uomini; magari non semplicemente per discriminazione di genere, ma perché sanno che in caso di conflitto fra esigenze familiari e aziendali un uomo sarà più disposto di una donna ad anteporre le esigenze dell’azienda a quelle della famiglia.
Il risultato è che il capitale umano del nostro Paese è sottoutilizzato perché quello femminile è usato poco e male.
La famiglia rimane un’istituzione fondamentale della società, nessuno lo nega. Ma il punto è che in Italia, più di ogni altro Paese europeo, il carico della famiglia è troppo sbilanciato sulla donna. Fino a quando non si aggiusta questa equazione non si fanno passi avanti. Sia chiaro: ci stiamo muovendo su un terreno minato, che sfiora il dirigismo culturale. Forse gli italiani (uomini e donne) sono contenti così. Cioè sono contenti di una distribuzione del lavoro domestico e nel mercato tanto sbilanciata. Se così fosse, non c’è alcun motivo per cui il legislatore debba intervenire.
Ma siamo proprio sicuri che le donne italiane siano cosi felici di assumersi carichi domestici che paiono ben superiori a quelli delle donne di altri Paesi europei? Siamo così sicuri che tutte le donne siano contente di non essere promosse nel lavoro perché devono farsi carico della famiglia (non solo dei figli, anche di genitori e parenti anziani) praticamente da sole?
Forse no, e allora il prossimo governo dovrà mettere la questione del lavoro femminile al centro del suo programma. Proposte ce ne sono. Ad esempio per detassare il lavoro femminile e favorire la partecipazione al lavoro delle donne. Si deve anche considerare ad un uso molto più flessibile del part-time per facilitare la gestione della famiglia, come nei Paesi nordici, dove il contratto a tempo parziale è molto più diffuso. Attenzione però: lavoro a tempo parziale sia per uomini che per donne, per riequilibrare i ruoli nella famiglia.
L’Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia. Quando studiano, le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi, in tutte le materie. I dati del programma Pisa (Programme for international student Assessment, l’indagine promossa dall’Ocse — l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico — allo scopo di misurare le competenze degli studenti in matematica, scienze, lettura e abilità nel risolvere problemi) mostrano che a 15 anni le ragazze italiane raggiungono punteggi di gran lunga superiori ai maschi in «abilità di lettura» (510 contro 464, una differenza enorme) ma anche in «abilità scientifica» (490 contro 488). Solo in matematica le ragazze fanno un po’ meno bene dei maschi. Non è da escludere che questo sia un effetto indotto da una cultura che assegna a ragazzi e ragazze ruoli diversi: «La matematica è una cosa da uomini».
Lo si vede nella scelta dell’università: il 76% delle matricole delle facoltà umanistiche sono donne; nelle scientifiche solo il 37%. Questa scelta probabilmente riflette anch’essa stereotipi culturali.
Perché laurearsi in fisica nucleare per poi fare la casalinga?
Meglio studiare poesia. Quando però le donne si iscrivono a una facoltà scientifica, spesso sono più brave: alla Federico II di Napoli, ad esempio, il 37% delle ragazze si laurea con 110 e lode, contro il 24% dei maschi.
La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. È vero che le donne più giovani lavorano di più: ad esempio, nella classe di età 35-44, il tasso di partecipazione è aumentato di 5 punti in un decennio. Ma rimane 15 punti inferiore al corrispondente tasso tedesco.
Il motivo di queste differenze straordinarie è che in Italia la divisione dei compiti tra lavoro domestico e lavoro retribuito sul mercato è più sperequata fra uomo e donna. La donna lavora in casa, il marito o il compagno in fabbrica, o in ufficio, sebbene, come abbiamo visto, il capitale umano delle donne giovani sia in media più alto di quello degli uomini.
Insomma, troppe donne con grandi potenzialità non le sfruttano. I dati lo dimostrano chiaramente. All’interno delle mura domestiche le donne italiane fanno molto di più dei loro compagni: 6,7 ore di lavoro casalingo al giorno contro meno di 3 ore. Sommando il lavoro nel mercato e a casa, sono gli uomini ad apparire cicale mentre le donne, come formiche operose, lavorano quasi 80 minuti al giorno in più dei loro compagni. E questo accade indipendentemente dal livello di istruzione: è vero sia per le donne con la licenza elementare che per le laureate.
Perché le donne italiane lavorano così poco fuori casa? Si dice perché non ci sono abbastanza asili nido gratuiti o sussidiati. Magari fosse così semplice! In primo luogo tutte le donne in Italia lavorano meno che in altri Paesi, non solo le giovani madri. Inoltre, in molti casi, i bambini non verrebbero mandati al nido neanche se questo fosse gratuito perché si pensa che sia la mamma a doversi occupare dei figli piccoli.
Ci si aspetterebbe che il nostro fosse un Paese con un alto tasso di natalità. E, invece, tanta attenzione per i figli non si riflette in tassi di fertilità altrettanto elevati: anzi, la fertilità è molto più alta in Svezia, dove quasi tutte le donne lavorano (1,9 figli per donna), che in Italia (1,4).
Insomma, le ragioni della scarsa partecipazione al lavoro sono molto più profonde: hanno a che fare con la nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di «angelo del focolare» e all’uomo quello di produttore di reddito.
Ma il risultato è che tanti uomini mediocri fanno un mediocre lavoro in ufficio; un lavoro che le loro mogli casalinghe farebbero molto meglio perché hanno più capitale umano. Inoltre, al momento degli scatti di carriera spesso le imprese preferiscono gli uomini; magari non semplicemente per discriminazione di genere, ma perché sanno che in caso di conflitto fra esigenze familiari e aziendali un uomo sarà più disposto di una donna ad anteporre le esigenze dell’azienda a quelle della famiglia.
Il risultato è che il capitale umano del nostro Paese è sottoutilizzato perché quello femminile è usato poco e male.
La famiglia rimane un’istituzione fondamentale della società, nessuno lo nega. Ma il punto è che in Italia, più di ogni altro Paese europeo, il carico della famiglia è troppo sbilanciato sulla donna. Fino a quando non si aggiusta questa equazione non si fanno passi avanti. Sia chiaro: ci stiamo muovendo su un terreno minato, che sfiora il dirigismo culturale. Forse gli italiani (uomini e donne) sono contenti così. Cioè sono contenti di una distribuzione del lavoro domestico e nel mercato tanto sbilanciata. Se così fosse, non c’è alcun motivo per cui il legislatore debba intervenire.
Ma siamo proprio sicuri che le donne italiane siano cosi felici di assumersi carichi domestici che paiono ben superiori a quelli delle donne di altri Paesi europei? Siamo così sicuri che tutte le donne siano contente di non essere promosse nel lavoro perché devono farsi carico della famiglia (non solo dei figli, anche di genitori e parenti anziani) praticamente da sole?
Forse no, e allora il prossimo governo dovrà mettere la questione del lavoro femminile al centro del suo programma. Proposte ce ne sono. Ad esempio per detassare il lavoro femminile e favorire la partecipazione al lavoro delle donne. Si deve anche considerare ad un uso molto più flessibile del part-time per facilitare la gestione della famiglia, come nei Paesi nordici, dove il contratto a tempo parziale è molto più diffuso. Attenzione però: lavoro a tempo parziale sia per uomini che per donne, per riequilibrare i ruoli nella famiglia.
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