mercoledì 27 marzo 2013
Apprendistato dopo la circolare n. 5 del 2013 e la formazione in azienda
L’apprendistato secondo la riforma del mercato del lavoro è visto come principale strumento per lo sviluppo professionale del lavoratore, individuando tale istituto come la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro». Ricordiamo che in tutte le ipotesi in cui il rapporto di apprendistato venga “disconosciuto”, sia per violazione degli obblighi di carattere formativo, che per assenza dei presupposti di instaurazione del rapporto stesso (ad es. violazione limiti numerici, violazione degli oneri di stabilizzazione, assenza requisiti anagrafici ecc.), il lavoratore è considerato un “normale” lavoratore subordinato a tempo indeterminato.
Innanzitutto chiariamo che la L. n. 92/2012 è intervenuta a modificare anche la disciplina dell’apprendistato, contenuta nel recente d.lgs. n. 167/2011. Si tratta di interventi che interessano trasversalmente tutte le tipologie di apprendistato disciplinate dal Decreto (per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e ricerca) e di interventi legati alla specifica disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante.
Per quanto riguarda gli obblighi formativi e gli aspetti sanzionatori. Non è prevista nessuna sanzione per il contratto di apprendistato se il datore di lavoro non effettua nel primo anno la formazione annunciata dal piano individuale; al contrario, la violazione genera le sanzioni amministrative e di conversione del rapporto se nel secondo anno di durata del contratto il datore di lavoro non svolge almeno il 40% delle ore di formazione accumulate oppure, nel terzo anno, il 60% delle ore accumulate.
Relativamente agli aspetti sanzionatori è stato stabilito che “in caso di inadempimento nella erogazione della formazione di cui sia esclusivamente responsabile il datore di lavoro e che sia tale da impedire la realizzazione delle finalità, il datore di lavoro è tenuto a versare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento, con esclusione di qualsiasi altra sanzione per omessa contribuzione”. Qui è sono messi in evidenza due aspetti uno la esclusiva responsabilità del datore di lavoro e della gravità della violazione, tale da impedire il raggiungimento dell’obiettivo formativo.
Questo è uno dei chiarimenti contenuti nella circolare n. 5/2013 del ministero del Lavoro che ha fatto il punto sulla corretta applicazione del contratto di apprendistato dopo le recenti modifiche introdotte dalla legge 92/2012. La circolare precisa anche che gli apprendisti in somministrazione possono essere assunti solo a tempo indeterminato: sono così nulle le clausole di alcuni Ccnl che dispongono in modo diverso. Inoltre, le aziende con meno di 10 dipendenti dovranno rispettare le percentuali di stabilizzazione fissate dalla contrattazione collettiva. Mentre le aziende con un organico superiore dovranno rispettare i parametri di legge, ossia confermare in servizio almeno il 30% dei contratti venuti a scadere negli ultimi 24 mesi (50% dal 18 luglio 2015).
Solo se le percentuali sono rispettate e quindi il datore ha raggiunto un numero minimo di ore svolte, allora l'ispettore può passare alla fase tre: vale a dire impartire una "disposizione" per effettuare il resto della formazione entro un termine. Diversamente, la fase tre è rappresentata dall'applicazione integrale del regime sanzionatorio.
Nell’ambito dell’apprendistato e dei contratti somministrazione di lavoro sono stati chiariti i limiti di utilizzabilità. Ferma restando la possibilità di ricorrere a personale apprendista fornito da una agenzia di somministrazione – si prevede infatti che il datore di lavoro può assumere un dato numero di apprendisti direttamente o “indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di lavoro ai sensi dell’articolo 20 del D.Lgs. n. 276/2003” – si chiarisce ora che “è in ogni caso esclusa la possibilità di assumere in somministrazione apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato di cui all’articolo 20, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”. In sostanza, le agenzie di somministrazione potranno fornire lavoratori assunti con contratto di apprendistato solo in forza di una somministrazione a tempo indeterminato (c.d. staff leasing).
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Corte di Cassazione sentenza 10 gennaio 2013, n.536. Infortunio sul lavoro, più verifiche ai giovani lavoratori
Ha rilevato la Corte di Cassazione che da un lato ha ritenuto il datore di lavoro responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore per avere omesso di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare l’evento; dall’altro ha affermato, sulla scorta della prova testimoniale, che gli occhiali protettivi si trovavano nel luogo di lavoro; che il loro uso era obbligatorio per disposizione dell’imprenditore; che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per l’esecuzione del lavoro cui era stato addetto, consistente nel piegare tondini di ferro lunghi 10-12 cm. con un martello, dopo averli bloccati con una morsa; che tale lavoro era di facile esecuzione e non comportava rischi.
Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio sul lavoro, sia quando evita di adottare idonee misure protettive, sia quando non vigila affinché il dipendente le utilizzi. Il suo dovere di sicurezza e la sua responsabilità divengono ancora più intensi se il lavoratore è giovanissimo o inesperto e, ancor di più, se è apprendista, a favore del quale vigono precisi obblighi di formazione e addestramento. Sono questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione con la sentenza 536 depositata il 10 gennaio 2013.
Il caso ha riguardato un apprendista, al lavoro da 20 giorni, che, nel piegare un tondino, viene colpito a un occhio da una scheggia. Dagli accertamenti è risultato che il datore di lavoro avesse messo a disposizione occhiali protettivi e che il lavoratore non li avesse indossati.
In sede di giudizio, la Corte di appello ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro e lo condanna al pagamento, a favore dell'Inail, della somma equivalente dell'indennizzo pagato dall'Istituto. La società ricorre in Cassazione, contestando la sentenza di merito perché i giudici – sostiene la società – non hanno considerato che il datore aveva dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento.
Ha provato infatti che gli occhiali erano nel luogo di lavoro, che la loro obbligatorietà era imposta dall'azienda, che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per la mansione specifica e che il lavoro era di facile esecuzione.
La difesa critica la Corte d'appello anche per non avere giudicato anomalo e imprevedibile il comportamento dell'apprendista, poiché egli, piegando il ferro con l'incudine e non (come avrebbe dovuto) con la morsa, aveva svolto un lavoro cui non era stato adibito.
La Cassazione, nel decidere, conferma in primo luogo che le norme per la prevenzione degli infortuni sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti derivanti da sua imperizia, negligenza e imprudenza. Il datore, pertanto, è responsabile dell'infortunio al lavoratore sia se omette di adottare le idonee misure protettive sia se non accerta e non vigila che il dipendente ne faccia uso.
Inoltre, i giudici esprimono un principio più convincente: il dovere di sicurezza, a carico del datore di lavoro, diviene particolarmente deciso se i lavoratori sono di giovane età o professionalmente inesperti e si accresce se sono apprendisti, soggetti verso i quali si devono manifestare precisi obblighi di formazione e di addestramento. Un'eventuale imprudente iniziativa di collaborazione da parte di uno di questi lavoratori, dunque, non esonera e non attenua la responsabilità del datore, su cui grava un obbligo di particolare vigilanza, diretta o attraverso collaboratori.
I giudici di merito, secondo la Cassazione, hanno applicato questi principi e il ricorso va, quindi, rigettato. Il messaggio è molto evidente: i lavoratori giovani e inesperti vanno adeguatamente formati e vigilati. Solo in questo modo il datore di lavoro può efficacemente prevenire incidenti ed evitare il sorgere, a proprio carico, di responsabilità.
La corte ha rigettato il ricorso e condannato la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in € 40,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio sul lavoro, sia quando evita di adottare idonee misure protettive, sia quando non vigila affinché il dipendente le utilizzi. Il suo dovere di sicurezza e la sua responsabilità divengono ancora più intensi se il lavoratore è giovanissimo o inesperto e, ancor di più, se è apprendista, a favore del quale vigono precisi obblighi di formazione e addestramento. Sono questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione con la sentenza 536 depositata il 10 gennaio 2013.
Il caso ha riguardato un apprendista, al lavoro da 20 giorni, che, nel piegare un tondino, viene colpito a un occhio da una scheggia. Dagli accertamenti è risultato che il datore di lavoro avesse messo a disposizione occhiali protettivi e che il lavoratore non li avesse indossati.
In sede di giudizio, la Corte di appello ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro e lo condanna al pagamento, a favore dell'Inail, della somma equivalente dell'indennizzo pagato dall'Istituto. La società ricorre in Cassazione, contestando la sentenza di merito perché i giudici – sostiene la società – non hanno considerato che il datore aveva dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento.
Ha provato infatti che gli occhiali erano nel luogo di lavoro, che la loro obbligatorietà era imposta dall'azienda, che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per la mansione specifica e che il lavoro era di facile esecuzione.
La difesa critica la Corte d'appello anche per non avere giudicato anomalo e imprevedibile il comportamento dell'apprendista, poiché egli, piegando il ferro con l'incudine e non (come avrebbe dovuto) con la morsa, aveva svolto un lavoro cui non era stato adibito.
La Cassazione, nel decidere, conferma in primo luogo che le norme per la prevenzione degli infortuni sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti derivanti da sua imperizia, negligenza e imprudenza. Il datore, pertanto, è responsabile dell'infortunio al lavoratore sia se omette di adottare le idonee misure protettive sia se non accerta e non vigila che il dipendente ne faccia uso.
Inoltre, i giudici esprimono un principio più convincente: il dovere di sicurezza, a carico del datore di lavoro, diviene particolarmente deciso se i lavoratori sono di giovane età o professionalmente inesperti e si accresce se sono apprendisti, soggetti verso i quali si devono manifestare precisi obblighi di formazione e di addestramento. Un'eventuale imprudente iniziativa di collaborazione da parte di uno di questi lavoratori, dunque, non esonera e non attenua la responsabilità del datore, su cui grava un obbligo di particolare vigilanza, diretta o attraverso collaboratori.
I giudici di merito, secondo la Cassazione, hanno applicato questi principi e il ricorso va, quindi, rigettato. Il messaggio è molto evidente: i lavoratori giovani e inesperti vanno adeguatamente formati e vigilati. Solo in questo modo il datore di lavoro può efficacemente prevenire incidenti ed evitare il sorgere, a proprio carico, di responsabilità.
La corte ha rigettato il ricorso e condannato la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in € 40,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
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Licenziamento del lavoratore possibilità al trasferimento o al tempo parziale
Rispetto rigoroso della tempistica, esatta individuazione dei requisiti dimensionali dell'azienda, definizione del perimetro del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva. Senza dimenticare l'obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1 gennaio 2013, che va versato a prescindere dall'esito della conciliazione.
A parte i passaggi previsti dalla conciliazione obbligatoria, bisogna considerare con attenzione anche i diversi effetti che questa produce sul rapporto di lavoro, a seconda dell'esito finale.
Il datore di lavoro può avanzare la procedura del licenziamento del lavoratore se il tentativo di conciliazione viene meno perché le parti non hanno trovato un accordo, perché si è verificato l'abbandono o l'assenza di una di esse, oppure se la convocazione da parte della Direzione Territoriale del lavoro (Dtl ) non è arrivata nei termini previsti: in queste ipotesi, la cessazione del rapporto ha effetto dal giorno della comunicazione alla Dtl con cui il procedimento è stato avviato (individuata nella data di ricezione della comunicazione da parte dell'ufficio), fatti salvi il diritto al periodo di preavviso – se il lavoratore non ha continuato a lavorare, durante la procedura – oppure, in alternativa, all'indennità sostitutiva in favore del lavoratore.
In alcuni casi, come quello di un periodo contrattuale di preavviso breve, si pone il problema di computare a questo titolo soltanto una parte dei giorni lavorati.
Per evitare eccessi, la riforma del lavoro ha previsto che eventuali malattie insorte dopo la comunicazione di avvio non producano alcuna sospensione del licenziamento, mentre restano validi gli effetti sospensivi previsti dalle norme a tutela della maternità e della paternità e in caso di impedimento derivante da un infortunio sul lavoro.
Viceversa, nell'ipotesi di esito positivo della conciliazione, le soluzioni alternative al licenziamento possono essere diverse: si pensi, ad esempio al trasferimento del lavoratore, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno tempo parziale.
I contenuti dell'accordo sono verbalizzati dalla commissione di conciliazione, e acquistano un valore incontestabile.
Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, invece, la Dtl ne dà sempre atto con un verbale e resta escluso l'obbligo di convalida – previsto dall'articolo 4, comma 17, della legge 92/2012 – davanti a uno degli organismi abilitati. Inoltre, in deroga alla disciplina ordinaria, il lavoratore può accedere all'Aspi ed essere affidato a un'agenzia del lavoro per la ricollocazione.
Sugli adempimenti operativi che riguardano la comunicazione obbligatoria del licenziamento ai servizi per l'impiego, che in via ordinaria deve essere effettuata nei cinque giorni successivi al recesso, il ministero del Lavoro (con la nota 18273 del 12 ottobre 2012) ha già chiarito che il termine di riferimento decorre dalla conclusione della procedura di conciliazione: vale a dire dalla data di effettiva risoluzione del rapporto, e non dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, che la legge 92/2012 individua come «data legale» e dalla quale si producono gli effetti del licenziamento.
Ricordaiamo che, in caso di omissione della comunicazione obbligatoria, è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro, con un importo che va da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro.
A parte i passaggi previsti dalla conciliazione obbligatoria, bisogna considerare con attenzione anche i diversi effetti che questa produce sul rapporto di lavoro, a seconda dell'esito finale.
Il datore di lavoro può avanzare la procedura del licenziamento del lavoratore se il tentativo di conciliazione viene meno perché le parti non hanno trovato un accordo, perché si è verificato l'abbandono o l'assenza di una di esse, oppure se la convocazione da parte della Direzione Territoriale del lavoro (Dtl ) non è arrivata nei termini previsti: in queste ipotesi, la cessazione del rapporto ha effetto dal giorno della comunicazione alla Dtl con cui il procedimento è stato avviato (individuata nella data di ricezione della comunicazione da parte dell'ufficio), fatti salvi il diritto al periodo di preavviso – se il lavoratore non ha continuato a lavorare, durante la procedura – oppure, in alternativa, all'indennità sostitutiva in favore del lavoratore.
In alcuni casi, come quello di un periodo contrattuale di preavviso breve, si pone il problema di computare a questo titolo soltanto una parte dei giorni lavorati.
Per evitare eccessi, la riforma del lavoro ha previsto che eventuali malattie insorte dopo la comunicazione di avvio non producano alcuna sospensione del licenziamento, mentre restano validi gli effetti sospensivi previsti dalle norme a tutela della maternità e della paternità e in caso di impedimento derivante da un infortunio sul lavoro.
Viceversa, nell'ipotesi di esito positivo della conciliazione, le soluzioni alternative al licenziamento possono essere diverse: si pensi, ad esempio al trasferimento del lavoratore, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno tempo parziale.
I contenuti dell'accordo sono verbalizzati dalla commissione di conciliazione, e acquistano un valore incontestabile.
Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, invece, la Dtl ne dà sempre atto con un verbale e resta escluso l'obbligo di convalida – previsto dall'articolo 4, comma 17, della legge 92/2012 – davanti a uno degli organismi abilitati. Inoltre, in deroga alla disciplina ordinaria, il lavoratore può accedere all'Aspi ed essere affidato a un'agenzia del lavoro per la ricollocazione.
Sugli adempimenti operativi che riguardano la comunicazione obbligatoria del licenziamento ai servizi per l'impiego, che in via ordinaria deve essere effettuata nei cinque giorni successivi al recesso, il ministero del Lavoro (con la nota 18273 del 12 ottobre 2012) ha già chiarito che il termine di riferimento decorre dalla conclusione della procedura di conciliazione: vale a dire dalla data di effettiva risoluzione del rapporto, e non dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, che la legge 92/2012 individua come «data legale» e dalla quale si producono gli effetti del licenziamento.
Ricordaiamo che, in caso di omissione della comunicazione obbligatoria, è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro, con un importo che va da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro.
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