mercoledì 8 ottobre 2014
Cosa fare del TFR o trattamento di fine rapporto di lavoro
La normativa attuale prevede una doppia opzione: il lavoratore può scegliere di mantenere il TFR sotto forma di liquidazione da incassare alla fine del rapporto di lavoro, oppure utilizzarlo per costruire una pensione integrativa.
Spesso genera confusione. È quella somma che viene corrisposta dal datore di lavoro al lavoratore dipendente al termine del rapporto di lavoro, qualunque sia la causa che ne determina la cessazione. In particolari fattispecie è prevista anche la possibilità di chiedere un anticipo dell’importo maturato nella misura massima del 70% e, in caso di decesso del lavoratore, il TFR accantonato è liquidato agli eredi o agli aventi diritto.
Il TFR si determina accantonando, per ciascun anno, il 6,91% della retribuzione lorda. Di fatto, quindi, il TFR è una retribuzione differita nel tempo, che cresce di anno in anno in relazione al lavoro prestato e all’ammontare della retribuzione.
Pertanto, per definizione, il TFR non ha alcun legame con la prestazione pensionistica pubblica e non rappresenta in alcun modo una fonte di finanziamento di quest’ultima, ma può piuttosto essere utilizzato per finanziare la previdenza complementare.
Per esempio, se un lavoratore dipendente privato decide di destinare il TFR maturato nel corso della vita lavorativa a un forma di previdenza complementare può raggiungere, al pensionamento, un’integrazione alla pensione pubblica variabile tra il 6% e il 12% del reddito.
È utile ricordare che chi destina il proprio TFR a un fondo pensione può in caso di necessità ottenere anticipazioni: fino al 75% del montante accumulato per spese mediche e prima casa e fino al 30% senza motivazioni (dopo 8 anni di adesione al fondo). Un'opportunità, in caso di emergenza, da non sottovalutare.
Si ha bisogno di previdenza complementare? Per rispondere a questa domanda è necessario effettuare una valutazione della propria posizione di previdenza obbligatoria (Inps, ex Inpdap,…). In poche parole quale pensione prenderemo dal nostro ente pensionistico obbligatorio? Una risposta puntuale a questa domanda, fermo restando che dei possibili cambiamenti legislativi e del nostro futuro legislativo non abbiamo certezza, richiederebbe una ricostruzione puntuale della propria storia contributiva.
Fatte le giuste considerazioni (gli strumenti di calcolo sono in grado di analizzare adeguatamente gran parte delle variabili pensionistiche), si può arrivare alla conclusione se la pensione pubblica è una risorsa per noi sufficiente. Se è cosi, la previdenza complementare non è una priorità di particolare interesse, in caso contrario, ci conviene prendere in seria considerazione la partecipazione a queste nuove forme di risparmio come descritto successivamente.
Un’ultima considerazione per i fortunati che avranno una sufficiente pensione pubblica: la vecchiaia è l’età nella quale è necessario avere qualche certezza in più. Sino ad ora il Tfr (meglio noto come liquidazione) rappresentava quel gruzzolo su cui contare al termine dell’attività lavorativa. La previdenza complementare non esclude questa opportunità di crearsi un piccolo patrimonio di sicurezza, anzi prevede che sino al 50% dei risparmi cumulati siano sempre disponibili in forma capitale, oppure per chi non ha maturato una rendita vitalizia di una certa entità la quota in capitale può essere anche il 100%. Conviene valutare attentamente l’alternativa fra liquidazione e prestazione in capitale da previdenza complementare, perché il trattamento fiscale di quest’ultima è più favorevole.
Se si è consapevoli che la pensione obbligatoria non sarà sufficiente, è necessario definire l’obiettivo da conseguire come reddito annuo aggiuntivo (rendita vitalizia integrativa) a partire dall’età di pensionamento. Semplificando: se prima di andare in pensione lo stipendio fosse di 1.800 euro netti mensili, e l’Inps me ne desse solo 1.080 euro netti mensili, e se ritenessi 1.500 euro netti sufficienti a mantenere il mio tenore di vita, dovrò puntare a un’integrazione di 420 euro netti mensili (circa 5.000 euro/anno). Questa stima non può però prescindere da considerazioni soggettive nella definizione di quanto debba essere per noi un reddito adeguato al momento del pensionamento.
Se la funzione della previdenza complementare è proprio quella di garantire una integrazione del reddito in pensione, purtroppo la misura precisa di questa rendita non è possibile conoscerla. Questo perché i fondi pensione per loro natura investono i risparmi nei mercati azionari ed obbligazionari con diversi profili di rischio finanziario e diverse aspettative di guadagno. Ma se manca una misura garantita delle prestazioni, ciò non impedisce di stimare approssimativamente la rendita ed in soccorso viene allora l’autorità di vigilanza della previdenza complementare (la Covip) che dovrebbe presto emanare delle linee guida “omogenee” a questo fine.
Per costruire in modo attendibile un quadro del futuro, sarà suggerito ipotizzare un tasso di inflazione pari al 2%, un tasso di rendimento della componente di investimento obbligazionaria pari al 3,5% e un tasso di rendimento della componente di investimento azionaria pari al 6,5%. Questi dati consentono di valutare l’evoluzione probabile dell’accumulo dei contributi negli anni di lavoro. Per calcolare correttamente il risparmio accumulato, sempre Covip suggerisce che il reddito da lavoro sul quale si calcolano i contributi cresca ogni anno del 3,6%. Inoltre è necessario tener conto nel calcolo di tutte le componenti di costo del fondo pensione scelto.
Per giungere finalmente alle prestazioni, bisognerà adeguare alla reale speranza di vita del neopensionato i coefficienti che trasformano il montante accumulato in rendita vitalizia (per la precisione: la recente tavola demografica IPS55, con caricamento iniziale pari al 1,25% e tasso tecnico pari a 1%).
Covip rammenta che è sempre giusto sottolineare che “nel corso del rapporto di partecipazione la posizione individuale effettivamente maturata è soggetta a variazioni in conseguenza della variabilità dei rendimenti conseguiti nella gestione e che tale variabilità è tanto più elevata quanto maggiore è l’investimento azionario relativo al profilo di investimento dell’aderente”.
Conviene ricordare in ultimo che questa è una misura di massima che non tiene conto di altri aspetti importanti: se si dovesse trarre un'unica conclusione dai numeri qui riportati, converrebbe sottolineare che garantirsi una rendita vitalizia per gli anni della pensione è un obiettivo ambizioso e impegnativo. L’unica garanzia è iniziare per tempo e non procrastinare una decisione di importanza vitale. Come si può notare nel caso del lavoratore 50enne i ripensamenti tardivi non sono un granché efficaci, dal momento che a pochi anni dalla fine dell’attività lavorativa per avere 100 euro in più di pensione mensile, bisogna risparmiarne ben più di 100 euro al mese.
La scelta di aderire o no a un fondo pensione è volontaria e personale e chi intende aderire ha diverse possibilità, potendosi avvalere di una forma pensionistica collettiva oppure individuale. Tra le forme collettive rientrano i Fondi pensione negoziali (o chiusi), i Fondi aperti ad adesione collettiva e i Fondi preesistenti (cioè costituiti prima del 15 novembre 1992). Tra le forme individuali rientrano i Fondi aperti ad adesione individuale e i contratti di assicurazione sulla vita.
La convenienza fra lasciare il TFR in azienda e aderire a un fondo pensione (chiuso, aperto, etc) dipende da vari fattori, quali:
- l'età; il tipo di lavoro e di contratto individuale; il contratto nazionale di categoria (ccnl) applicato; l'azienda in cui lavori (per la presenza di accordi aziendali specifici); la tua storia contributiva presso l'inps; le prospettive di reddito futuro; eventuali altri redditi personali e/o familiari; eventuale coniuge e/o figli a carico; la conoscenza dei mercati finanziari; la propensione al rischio; la futura reversibilità della pensione.
Con il silenzio-assenso il TFR va a un fondo pensione e non si può più tornare indietro.
lunedì 6 ottobre 2014
Contratto di lavoro per apprendisti senza vincoli per il 2014-2015
Il contratto di apprendistato è per definizione un contratto di lavoro a tempo indeterminato, rivolto ai ragazzi di età compresa fra i 15 e i 29 anni, anche se per le regioni e le province autonome che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, la contrattazione collettiva può definire specifiche modalità di utilizzo di tale contratto, anche a tempo determinato, per le attività stagionali.
Il nuovo contratto di apprendistato 2014- 2015 recentemente modificato con le novità del Decreto Lavoro cd. Job Act di Renzi, è una forma di contratto a tempo indeterminato rivolto a giovani che studiano e che vogliono nel frattempo lavorare e formarsi anche a livello professionale.
Nessun onere di stabilizzazione degli apprendisti per le aziende che occupano fino a 49 dipendenti. È l'effetto derivato dalla conversione in legge del Dl 34/2014, confermato poi dai chiarimenti del ministero del Lavoro, forniti con la circolare 18/2014 .
A distanza di due anni dall'entrata in vigore della riforma Fornero, che per la prima volta - dopo l'emanazione del Testo unico sull'apprendistato (Dlgs 167/2011 ) - aveva regolato un onere prima lasciato alla libertà negoziale dei contratti collettivi nazionali, il decreto Poletti è nuovamente intervento sulla materia, modificando le regole.
Facendo un passo indietro, la legge 92/2012 aveva previsto, come condizione per poter stipulare nuovi contratti di apprendistato, l'obbligo di mantenere in servizio il 50% dei lavoratori assunti con lo stesso contratto nell'ultimo triennio. Questa percentuale era abbattuta al 30% fino al 18 luglio 2015 (da questa data, infatti, sarebbe stato necessario verificare a ritroso le stabilizzazioni effettuate nei 36 mesi precedenti). La disposizione era riferita ai datori di lavoro con organico pari o superiore a 10 dipendenti.
Su questo punto, il ministero del Lavoro aveva preso posizione con due circolari: la 18/2012 e la 5/2013, adottando, in entrambe, una linea ben precisa. Era stato argomentato, infatti, che la disposizione sulla conferma in servizio degli apprendisti andava coordinata con la previsione dell'articolo 2, comma i, del Dlgs 167/2011, in base alla quale i contratti collettivi nazionali possono fissare limiti di stabilizzazione. La prima clausola era stata catalogata come un obbligo di natura «legale» e la seconda come un obbligo con valenza «contrattuale».
In sostanza, mentre i datori con almeno 10 dipendenti erano tenuti a rispettare la clausola legale (che superava anche quella eventualmente introdotta dal Ccnl), quelli con meno di 10 dipendenti dovevano riferirsi alle eventuali clausole fissate dai contratti nazionali: queste ultime, però, erano etichettate dal ministero come vincolanti e il loro mancato rispetto avrebbe comportato comunque la trasformazione del rapporto di apprendistato in un normale rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato.
La nuova clausola è nata con il Dl 34/2014 (che ha in parte riscritto il comma 3-bis, dell'articolo 2, del Dlgs 167/2011). Il decreto legge entrato in vigore il 20 marzo aveva abrogato del tutto le clausole di stabilizzazione degli apprendisti. L'assetto definitivo raggiunto con la conversione in legge del Dl è questo:
• è stata modificata la platea dei datori interessati dall'onere di conferma, individuati in coloro che occupano almeno 50 dipendenti;
• la percentuale di apprendisti da stabilizzare per poterne assumere di nuovi, è stata abbassata al 20%, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione.
La norma lascia comunque ai Ccnl la possibilità di individuare limiti diversi (più bassi o più elevati) ma questa possibilità è prevista solo nei confronti dei datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti. Per questi, la violazione dei parametri comporterà il disconoscimento dei rapporti di apprendistato stipulati, con l'effetto che i datori perderanno i benefici normativi, contribuitivi e retributivi legati all'uso dell'apprendistato.
Proviamo ad esaminare un caso pratico, con riferimento al Ccnl del Commercio. L'accordo del 24 marzo 2012 prevede che «le imprese non potranno assumere apprendisti qualora non abbiano mantenuto in servizio almeno l'80% dei lavoratori il cui contratto di apprendistato professionalizzante sia già venuto a scadere nei ventiquattro mesi precedenti». In questa ipotesi, le aziende con organico fino a 49 dipendenti si troveranno a dover rispettare un limite più elevato, rispetto a quello legale.
Diversa, invece, la sorte dei datori con organico fino a 49 dipendenti, che risultano svincolati anche dalle clausole di stabilizzazione eventualmente previste dai Ccnl.
Per il conteggio dei dipendenti, bisogna fare riferimento alla circolare Inps 22/2007. Come già prevedeva la legge 92/2012, restano escluse dal computo, ai fini della stabilizzazione, le cessazioni avvenute durante il periodo di prova, le dimissioni o i licenziamenti per giusta causa. Rimane comunque ferma la possibilità di assumere un ulteriore apprendista in caso di mancato rispetto della percentuale di conferma o nell'ipotesi di totale mancata conferma degli apprendisti pregressi.
Bisogna ricordare che le nuove regole scattate dal 20 maggio 2014, data di entrata in vigore della legge 78/2014, di conversione del decreto 34/2014, si applicano ai rapporti costituiti da quella data in poi. Sono salvi gli effetti prodotti dal Dl 34/2014 fra la data della sua entrata in vigore (21 marzo 2014) e il 19 maggio 2014. Quindi, per le assunzioni di apprendisti effettuate in questo periodo, di fatto, le clausole di stabilizzazione non valgono.
La tipologia contrattuale di apprendistato è stata oggetto di diversi interventi legislativi: l’ultimo, in ordine temporale, è rappresentato dalla Legge n. 78/2014, che ha l’obiettivo di semplificarne la disciplina. Il contratto di apprendistato prevede la forma scritta del contratto, del patto di prova e del piano formativo individuale (PFI) che può essere redatto anche in forma sintetica all'interno del contratto di apprendistato, quindi contestualmente all’assunzione. Il PFI può essere definito anche in base a moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali.
È previsto l’obbligo, solo per gli imprenditori con più di 50 dipendenti, di proseguire a tempo indeterminato il rapporto di lavoro con almeno il 20% degli apprendisti presenti in azienda, altrimenti non si possono assumere altri apprendisti. Sono esclusi dal computo del triennio (che a regime è da considerare "mobile"), i rapporti di lavoro in apprendistato cessati per mancato superamento della prova, per dimissioni e per giusta causa. Il datore di lavoro, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge, può comunque assumere un ulteriore apprendista, anche se non ha confermato a tempo indeterminato il 20% dei contratti nell’ultimo triennio.
Il tratto caratterizzante dell’apprendistato è rappresentato dal fatto che il datore di lavoro, nell’esecuzione dell’obbligazione posta a suo carico, è tenuto ad erogare, come corrispettivo della presentazione di lavoro, non solo la retribuzione, ma anche la formazione necessaria all’acquisizione o alla riqualificazione di una professionalità. Queste due obbligazioni hanno pari dignità e non sono tra loro alternative o accessorie.
Le ultime novità introdotte dal Jobs Act di Renzi, che ricordiamo è entrato in vigore con la pubblicazione del decreto sulla GU del 16 maggio 2014, circa il contratto di apprendistato sono circa 5:
1) Nuovo obbligo per i datori di lavoro che hanno almeno 50 dipendenti di assumere apprendisti per una quota pari almeno al 20%.
2) Per l’apprendistato professionalizzante, è stato reintrodotto l’obbligo per il datore di lavoro di fornire al giovane apprendista sia la formazione professionalizzante che quella pubblica. Ciò significa che la Regione entro 45 giorni dalla comunicazione di stipula del contratto di apprendistato, deve inviare il piano formativo contenente le modalità di svolgimento della formazione trasversale, ossia, delle sedi e calendario delle attività.
3) Per l’apprendistato per la qualifica ed il diploma professionale, la novità riguarda la specifica sulla retribuzione dell'apprendista che deve essere sempre sulla base del CCNL di riferimento ma che deve anche tener conto sia delle ore di lavoro effettivamente lavorate che delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo. In altre parole, ai fini di determinazione della retribuzione dell’apprendista, quella del 35% delle ore di formazione deve essere considerata come misura minima.
4) Sempre per l’apprendistato per la qualifica ed il diploma professionale nelle Regioni e Province Autonome, è prevista la possibilità di stipulare contratti di apprendistato a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali.
5) Introduzione in via sperimentale del contratto di apprendistato 2014 2015 studenti scuola superiore introdotto in sede di conversione con l’art. 8bis del D.L. n. 104/2013. Tale programma sperimentale condotto negli anni 2014, 2015 e 2016, si baserà su periodi di formazione in azienda che potranno essere svolti da studenti degli ultimi due anni della scuole secondarie di secondo grado, quindi di 4° e 5° anno scuola superiore. A tal proposito, la legge consente di poter stipulare contratti di apprendistato di alta formazione anche in deroga ai limiti di età di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 167/2011 (ossia prima dei 18 anni), con particolare attenzione agli studenti degli istituti professionali.
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Tfr 50% in busta paga, per i Consulenti del lavoro dai 40 agli 82 euro al mese
"Sui giornali, grandi discussioni sul Jobs Act e sull'articolo 18. A tempo debito sarà bello spiegare cosa cambia per un giovane precario. Ma ne parleremo prestissimo''. Questo l'annuncio del premier nella sua enews.
Ma per il momento: "L'Italia è il Paese con il più alto numero di lavoratori scoraggiati d'Europa, e con il tasso di attività più basso". A rivelarlo è l'ultimo rapporto trimestrale della Commissione Ue su occupazione e situazione sociale. Per Bruxelles l'Italia è anche tra i Paesi dove "la disoccupazione giovanile e quella a lungo termine salgono più che nel resto d'Europa, e dove le entrate delle famiglie continuano a scendere".
"L'Italia - continua il rapporto - è ancora il Paese con il più elevato tasso di lavoratori scoraggiati e l'evoluzione recente non è incoraggiante (12,8% nel primo trimestre 2014, +1 punti percentuali rispetto al primo trimestre 2013). Per quanto riguarda la situazione sociale, "tra i grandi Stati membri le entrate delle famiglie continuano ad aumentare in Germania e Regno Unito, mentre scendono in Italia, Polonia e Spagna".
Tra 40 a 82 euro al mese in busta paga se andasse in porto il provvedimento proposto dal Governo. È quanto hanno calcolato gli esperti della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro in un parere che ha l'obiettivo, oltre di prevedere l'ammontare della somma da percepire, anche quello di chiarire tutti i passaggi tecnici della proposta, illustrando il bacino d'utenza e le criticità legate alle coperture finanziare e agli equilibri pensionistici.
Secondo le previsioni della Fondazione entrerebbero nelle buste paga dei lavoratori “circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro (con Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%)”. Se si decidesse di mantenere l'odierna agevolazione fiscale, l'ammontare mensile varierebbe di circa 5 euro in eccesso. I lavoratori interessati all'anticipo del Tfr in busta paga dovrebbero essere “esclusivamente i dipendenti del settore privato, ovvero circa 12 milioni di lavoratori rispetto agli oltre 3 milioni del settore pubblico”.
Per il settore privato, afferma la Fondazione, “ ogni anno vengono erogate 315 miliardi di retribuzioni contro i 115 miliardi per quelle dei lavoratori pubblici, per un totale di circa 430 miliardi di retribuzioni l'anno. Il Tfr maturato ogni anno è circa 21 miliardi, 451 milioni di euro. Sapendo che per le imprese che superano i 49 dipendenti il Tfr rimasto in azienda viene destinato al Fondo di Tesoreria Inps, dal quale non è possibile sottrarlo per non incorrere in problemi di gettito, questa proposta riguarderebbe solo la metà dei lavoratori privati, ovvero i 6 milioni e 500 mila dipendenti di aziende private con meno di 50 dipendenti”.
Un altro fattore da considerare, per la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, è la riforma delle previdenza complementare, entrata in vigore dal 1° gennaio 2007, a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr.
«Poi, ci sono i 6 miliardi distribuiti annualmente al Fondo Tesoreria Inps e i restanti 10 miliardi che rimangono in azienda. Di conseguenza, se la proposta normativa riguarderà solo le aziende fino a 49 dipendenti, il Tfr sarebbe circa la metà di quello maturato complessivamente», prosegue. «Il Tfr, sia che venga corrisposto al termine del rapporto sia che venga in parte anticipato durante il rapporto, gode di un'agevolazione fiscale e previdenziale. La prima riguarda un regime di tassazione agevolata che va dal 23 al 25% della somma percepita; la seconda è invece la totale esenzione, in quanto la somma del Tfr non alimenta il trattamento pensionistico dei lavoratori», fa notare.
«In passato, in caso di Tfr anticipato mensilmente in busta paga dai datori di lavoro -ricorda la Fondazione studi nel parere- i giudici del lavoro avevano stabilito un cambiamento della natura della retribuzione, che diventava così ordinaria e non speciale. Di conseguenza, le imprese sono tenute a pagare i contributi corrispettivi e i lavoratori le imposte con un tasso ordinario e non più agevolato. Per conservare, dunque, l'agevolazione fiscale e contributiva, bisogna necessariamente prevedere un'adeguata copertura finanziaria». «La scelta di destinare il Tfr dei lavoratori alla previdenza complementare -continua- in seguito all'entrata in vigore della riforma della previdenza del 2006 dava la possibilità di integrare il metodo contributivo». «Se adesso si scegliesse di anticipare -rimarca- la somma o parte di essa in busta paga, si creerebbe un danno al sistema pensionistico direttamente proporzionale al numero degli anni per cui viene percepito l'anticipo».
«Il Tfr è da sempre usato -precisa la Fondazione studi- come uno strumento per autofinanziarsi. Se, quindi, si decidesse di anticiparlo ogni mese, bisognerebbe prevedere un sistema di compensazione. Se è vero che il Tfr da monetizzare è quello per il futuro, e non quello maturato per il passato, è pur vero che le imprese sarebbero a rischio liquidità e, quindi, bisognerebbe compensare riducendo i costi contributivi, così come avvenne per il versamento al Fondo di Tesoreria per le aziende con 50 dipendenti». Secondo quanto è emerso da un'indagine effettuata dalla Fondazione studi sulle microimprese, «gli imprenditori vorrebbero liquidare il Tfr per favorire il clima aziendale e al tempo stesso evitare di dover versare somme superiori al loro volume d'affari al termine del rapporto di lavoro del dipendente». «Ma è necessario sottolineare -avverte- che questa proposta non porterà a un aumento delle retribuzioni. Si tratta, infatti, solo di un sistema di autofinanziamento con cui i lavoratori si anticipano indennità future, mettendo però a rischio gli equilibri pensionistici e indirizzando i futuri pensionati a una misera esistenza».
Per rassicurare le imprese, il Governo ha in serbo una proposta concreta che tiene conto dei punti critici segnalati, a partire dall’esborso per i datori di lavoro, e che garantisce a tutti solo vantaggi, coinvolgendo tanto i lavoratori del settore privato quanto quelli del pubblico.
Il meccanismo previsto non dovrebbe comportare oneri aggiuntivi per le aziende, perché passa attraverso l’istituzione di un Fondo anticipo TFR FATFR) che assicurerebbe alle imprese la liquidità necessaria per anticipare la liquidazione parziale del Trattamento di Fine Rapporto.
Il TFR anticipato resterebbe soggetto a tassazione separata senza passaggio di aliquota IRPEF (pur davanti a un aumento di scaglione di reddito). La scelta spetterà comunque al dipendente, che potrà anche lasciare il TFR in azienda o in un fondo pensione. Inoltre, oltre alla possibilità di anticipo del 50% di quanto maturato con le buste paga 2015, il lavoratore potrà scegliere l’erogazione in un’unica soluzione, con lo stipendio di febbraio.
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