domenica 1 marzo 2015
TFR in busta paga dal 2 marzo 2015 come calcolarlo
Parte l’operazione Tfr in busta paga, da lunedì 2 marzo 2015 i lavoratori con almeno 6 mesi di anzianità avrebbero potuto richiedere al proprio datore di lavoro l’anticipo del trattamento di fine rapporto maturando nel 2015 direttamente nel cedolino mensile. Comunque si attende ancora la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del Dpcm che dovrebbe contenere le istruzioni e il modello per presentare la richiesta: il provvedimento, non ancora in vigore, contiene la disciplina della procedura di erogazione della Qu.I.R. (sigla che sta per “Quota integrativa della retribuzione”, definizione ufficiale dell'anticipo del Tfr in busta paga) e il funzionamento del Fondo di garanzia.
Quindi il trattamento di fine lavoro (Tfr) potrà acquisire la forma di un'integrazione della retribuzione mensile. È questo il principale effetto prodotto dal comma 26 dell'articolo 1 della legge 190/2014, che introduce la possibilità per il dipendente privato in servizio da almeno sei mesi, di chiedere al proprio datore di lavoro, per i periodi decorrenti dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018, la liquidazione in busta paga dell'importo mensile che avrebbe maturato ai sensi dell'art. 2120 del codice civile.
La tassazione del Tfr “monetizzato” in busta paga seguirà le regole delle imposte sui redditi: chi più guadagna, quindi, più pagherà al Fisco in termini di trattenute sull'importo di trattamento di fine rapporto ricevuto in busta paga.
Il regime fiscale è un elemento da tener bene in conto nel momento in cui si accarezza l’idea di chiedere di ricevere il Tfr in busta paga, anche perché una volta presa la decisione, questa sarà irrevocabile per tre anni. Si tratta di elementi che devono indurre i singoli a una valutazione sull'equilibrio costi/benefici, soprattutto per chi beneficia attualmente di una tassazione agevolata, come quella per esempio sui fondi pensione.
Sembra già profilarsi un flop di richieste in materia di trattamento di fine rapporto: i lavoratori dipendenti non sembrano intenzionati a chiedere al proprio titolare di anticipargli parte del gruzzoletto maturato, non sicuri di trarne reale vantaggio. Un report realizzato da Confersercenti in collaborazione con SWG parla infatti di adesione scarsa - appena del 6% - che entro l'anno salirà solamente fino all'11%. Infatti, la stragrande maggioranza (l'83% dei 12 milioni totali di italiani interessati dall'opzione) lascerà intatto l'ammontare trattamento di fine rapporto nell'impresa in cui presta servizio, come avvenuto fino ad oggi. E le imprese, dalla loro, confermano il trend mostrato dalla propria forza lavoro: l'82% non ha ricevuto (o pensa di non ricevere) richieste di Tfr anticipato da parte del proprio personale.
E chi invece deciderà di attingere, anticipatamente, dalla fonte, come impiegherà tale denaro? Neanche a dirlo, per saldare debiti pregressi (per il 24% del campione); il 20% lo destinerà invece alla previdenza integrativa, mentre solo il 19% lo impiegherà per acquisti di vario genere. I motivi di tale diffidenza? Anzitutto, la volontà del 58% di non erodere la liquidazione da riscuotere a fine rapporto di lavoro è significativa di quanto gli italiani guardino al Tfr come tesoretto salvagente per il futuro.
Il Tfr in busta paga dal 1 marzo 2015 viene infatti tassato con aliquota ordinaria, e non ridotta come quando viene preso alla fine del rapporto di lavoro: al netto, si registra una +22% di detrazione tutt'altro che conveniente. E ancora, anticipare l'incasso dilazionato incide negativamente sulle tabelle ANF e sulla determinazione dell'ISEE con la sola conseguenza di complicare la vita alle fasce di reddito più deboli, che altresì sarebbero dovute essere le principali beneficiarie della misura.
Per effetto della tassazione ordinaria al posto di quella separata – spiegano infatti sempre dalla Uil - si avranno delle penalizzazioni di 330 euro medi l’anno, tra maggiore tassazione (50 euro medi l’anno) e minori sgravi fiscali (280 euro medi l’anno). Infatti, se da una parte la busta paga con il Tfr mensilizzato sarà mediamente più pesante di 97 euro mensili, dall’altra questo ‘nuovo introito’ sarà tassato con l’aliquota Irpef ordinaria anziché a tassazione separata”. Ancora una volta a rendere più emblematica la situazione pratica che potrebbero vivere molti lavoratori, sono i numeri utilizzati nello studio. In esso, ad esempio, si considera un reddito di 23 mila euro (imponibile medio dei lavoratori dipendenti), per il quale con il Tfr in busta paga potrebbero scattare aumenti di 97 euro medi mensili, che salgono a 105 euro per i redditi di 25 mila euro e a 125 euro per i redditi di 35 mila euro, mentre scendono a 76 euro mensili per un reddito da 18 mila euro.
Nel frattempo, per mettere il lavoratore nelle condizioni più opportune per valutare la reale convenienza dell’anticipo, Infodatablog del Sole 24 Ore ha messo a punto (in collaborazione con lo Studio Rota Porta) un tool digitale per il calcolo della quota netta di Tfr che il lavoratore richiedente si vedrà anticipata in busta paga (quota mensile su 12 mensilità). Il risultato tiene conto delle imposte ordinarie che il datore di lavoro dovrà applicare sull'importo anticipato. Tool digitale per calcolare il tuo Tfr in busta paga
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mercoledì 25 febbraio 2015
Contributo in denaro (voucher) di ricollocamento: i disoccupati aventi diritto
Il contratto di ricollocazione rappresenta una vera innovazione nell'ottica di rilanciare le risorse impiegate sulla politica passiva (la nuova Aspi – denominata Naspi, Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) con quella attiva, che si affianca da subito per supportare il lavoratore disoccupato nella ricerca di una nuova occupazione.
Presso l’Inps sarà, istituito il «Fondo per le politiche attive per la ricollocazione dei lavoratori in stato di disoccupazione involontaria»e potranno beneficiare i lavoratori licenziati illegittimamente, compresi quelli a seguito di licenziamenti collettivi (sono però esclusi i lavoratori che hanno rinunciato a impugnare il licenziamento perché hanno scelto la conciliazione standard e quelli che hanno stipulato con il proprio datore di lavoro una risoluzione consensuale del rapporto di impiego nell'ambito di una riduzione di personale, ma su questi punti una parte della maggioranza è pronta a chiedere correzioni).
Lo schema del contratto di ricollocazione è questo: il lavoratore beneficiario ha diritto di ricevere dai centri per l’impiego territorialmente competenti un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione, a condizione, tuttavia, che effettui la procedura di definizione del profilo personale di occupabilità (per capire il grado di difficoltà nel trovare un nuovo impiego).
L’interessato presenta il voucher a un’agenzia per il lavoro e così potrà firmare il contratto di ricollocazione vero e proprio. Questo contratto assicura al lavoratore il diritto a una assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata e gestita da parte dell’agenzia per il lavoro.
L’agenzia dovrà realizzare iniziative di ricerca, addestramento, formazione, riqualificazione professionale mirata a sbocchi occupazionali coerenti con le capacità del lavoratore e le condizioni del mercato del lavoro nella zona dove la persona è stata presa in carico.
L’ammontare del voucher è proporzionato in relazione al profilo di occupabilità dell’interessato e l’agenzia ha diritto a incassarlo soltanto a risultato ottenuto (questo è un elemento di contendibilità del sistema per bilanciare la nota inefficienza dei centri pubblici per l’impiego).
Quindi cui sarà un obbligo di seguire dei corsi formativi presso agenzie private. In pratica, con il contratto di ricollocazione (o ricollocamento) il lavoratore licenziato riceve l’indennità di disoccupazione prevista dalla legge, cioè la Naspi, e inizia contemporaneamente un percorso di formazione e reinserimento professionale, attraverso un programma coordinato dalla sua Regione. Il dipendente che ha sottoscritto il contratto di ricollocazione riceve cioè dall'amministrazione regionale un contributo in denaro (voucher) che potrà poi spendere per un percorso di formazione presso un'agenzia di lavoro privata.
Il contributo dei voucher per il attivabile in tutto il territorio nazionale (sempre attraverso le Regioni, che lo finanziano attingendo dal Fondo per le Politiche Attive del lavoro. Il Contratto di Ricollocazione è regolamentato dall’articolo 17 del decreto sugli ammortizzatori sociali.
Come richiedere il voucher
Il lavoratore disoccupato deve innanzitutto rivolgersi a una struttura accreditata per la ricerca di lavoro ed effettuare la procedura di definizione del suo profilo di occupabilità. In pratica, in base alle esperienze, ai requisiti, titoli, e caratteristiche del lavoratore, viene stabilita la facilità, o difficoltà, di trovargli una nuova occupazione. In base a questo profilo personale di occupabilità, viene attribuita al disoccupato una “dote individuale di ricollocazione“, spendibile presso le strutture accreditate. Si tratta del voucher ricollocamento, il cui ammontare è proprozionato al profilo di occupabilità.
A questo punto è il lavoratore a scegliere se rivolgersi a un centro per l’impiego o a un’altra struttura, che incasserà l’importo del voucher assegnato solo in caso di conclusione positiva del processo di ricollocazione (quindi, solo se il disoccupato trova lavoro).
Requisiti
Il Contratto di Ricollocazione prevede le seguente regole generali:
il disoccupato ha diritto a un’assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, da parte del soggetto accreditato;
deve rendersi parte attiva rispetto alle iniziative proposte dal soggetto accreditato;
partecipa alle iniziative di ricerca, addestramento e riqualificazione professionale mirate a sbocchi
occupazionali coerenti con il fabbisogno espresso dal mercato del lavoro, organizzate e predisposte dal soggetto accreditato.
Decadenza
Il voucher ricollocamento decade nel caso in cui il disoccupato non partecipi alle iniziative di ricerca e riqualificazione oppure se rifiuta senza giustificato motivo una congrua offerta di lavoro in seguito all’attività di accompagnamento attivo al lavoro.
Il fatto saliente del contratto di ricollocazione è il valore della dote, che deve variare a seconda della spendibilità sul mercato, ma anche del livello professionale, essendo le esigenze di operai, impiegati, manager o imprenditori completamente diverse e dunque diversi gli strumenti e le risorse impiegate nel percorso di outplacement.
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Lavoro a tempo parziale in straordinario senza causale
Novità sul lavoro a tempo parziale: in mancanza di regole precise fissate dai contratti collettivi, vengono stabilite per legge le modalità applicative: il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare, le parti possono pattuire clausole elastiche e flessibili in materia ad esempio di orario di lavoro. Le parti possono pattuire clausole elastiche (che consentono lo spostamento della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (consentono la variazione in aumento dell’orario di lavoro nel part time verticale o misto).
Modifiche più formali che sostanziali per il contratto a tempo parziale. I cambiamenti sostanziali riguardano soprattutto le prestazioni supplementari, le clausole elastiche e flessibili, il diritto di precedenza e/o di trasformazione del rapporto, con la conseguenza di rendere meno rigido questo tipo di contratto.
È stata introdotta una maggiore liberalizzazione con riferimento alle causali che consentono di chiedere prestazioni supplementari. È stato infatti confermato che i contratti collettivi possono stabilire il numero massimo di ore di lavoro supplementare e le conseguenze del suo superamento, ma è stata è stata eliminata la previsione che possano anche individuare le relative causali. Se lo faranno (e sicuramente continueranno a farlo) la disposizione avrà pertanto valore contrattuale e non legale.
È stata inoltre disciplinata l’ipotesi (in realtà molto rara) in cui il contratto collettivo non si occupi delle prestazioni supplementari. In questo caso il datore di lavoro potrà richiederle in misura non superiore al 15% delle ore settimanali concordate, da compensare con una maggiorazione della quota oraria pari al 15%, comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retribuiti indiretti e differiti.
Resta invece confermato il principio secondo cui il lavoro supplementare può essere chiesto solo in presenza di un contratto a tempo parziale di tipo orizzontale (articolo 4, comma 1) mentre se è di tipo verticale o misto è possibile richiedere prestazioni di lavoro straordinario (articolo 4, comma 6). Considerata la riscrittura della norma, sarebbe stato opportuno eliminare queste precisazioni poco comprensibili.
Anche in questo caso è stata disciplinata l’ipotesi in cui il contratto collettivo non contenga specifiche previsioni sulle clausole elastiche e flessibili. Non è preclusa alle parti la possibilità di stipulare accordi in tal senso, a condizione che gli stessi siano definiti davanti alle commissioni di certificazione (articolo 76 del Dlgs 276/2003) e che contengano, a pena di nullità, le seguenti previsioni:
condizioni e modalità con le quali il datore di lavoro può modificare la collocazione temporale della prestazione (clausola flessibile) e variare in aumento la durata della stessa;
preavviso di almeno due giorni lavorativi;
la durata massima dell’aumento (in caso di clausole elastiche) non può eccedere il 25% della normale prestazione annua a tempo parziale;
diritto del lavoratore a percepire una maggiorazione pari al 15%, comprensiva dell’incidenza della retribuzione sugli istituti indiretti e differiti. Quest’ultima precisazione dovrebbe riguardare solo le ore in più (clausola elastica) e non le ore svolte in orari diversi (clausole flessibili).
È stata eliminata la disposizione secondo la quale il contratto individuale poteva prevedere, in caso di assunzione di personale a tempo pieno, un diritto di precedenza in favore dei dipendenti già assunti a tempo parziale, in attività presso unità produttive situate nello stesso ambito comunale e adibiti alle stesse mansioni o equivalenti.
Resta invece confermato il diritto di richiedere la trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno per il lavoratore che precedentemente aveva trasformato in senso inverso. Il diritto sussiste in caso di assunzioni con contratto a tempo pieno per l’espletamento delle stesse mansioni o di quelle equivalenti a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale.
Nuovo è invece il diritto alla trasformazione riconosciuto al genitore con figlio convivente di età non superiore a 13 anni. Il comma 7 dell’articolo 6 prevede che il lavoratore può chiedere (per una sola volta) in luogo del congedo parentale la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo corrispondente a quello del congedo con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento.
Infine il diritto alla trasformazione del rapporto a tempo parziale, riconosciuto dall'articolo 12 bis del decreto legislativo 61/2000, ai lavoratori affetti da patologie oncologiche o ai lavoratori che devono assistere familiari affetti da patologie oncologiche, è stato esteso in presenza di «gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti».
L’intervento operato con lo schema di decreto legislativo di riordino delle forme contrattuali nell’ambito del Jobs act punta a definire le norme generali che regolano il rapporti di lavoro a tempo parziale anche quando quest’ultimo non è oggetto della contrattazione collettiva (situazione peraltro non molto diffusa). Il Dlgs interviene quindi in particolare sulle prestazioni supplementari, cioè quelle ore di lavoro in più rispetto all'orario ridotto ma entro il limite settimanale a tempo pieno, sulle clausole elastiche e flessibili (quando e quanto si lavoro), sulla possibilità per il dipendente di chiedere la trasformazione da tempo pieno a tempo parziale e viceversa.
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