Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato, nel quale esiste un tempo ben preciso di durata del contratto con una data che indica la fine del rapporto.
L’apposizione del termine, a pena di nullità, deve risultare dall’atto scritto, direttamente o indirettamente dal contesto complessivo dell’atto medesimo.
Nel nostro ordinamento, il rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di un datore di lavoro, trova la sua forma comune nel contratto a tempo indeterminato, cioè in un contratto che non prevede l’indicazione di una data di conclusione del rapporto, determinando un miglioramento della qualità della vita, anche psicologica, e di stabilità economica dei lavoratori.
Il vantaggio che offre un contratto di lavoro a tempo determinato è sicuramente, che tale tipologia contrattuale risponde, in determinate circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori in maniera più efficace rispetto ad un contratto a tempo indeterminato. Inserito in un contesto in cui è possibile una partecipazione continua al mercato del lavoro e con la percezione di un reddito adeguato, il lavoratore può così pianificare la propria vita.
Una novità di primo piano è quella dell’eliminazione dell’obbligo di specificare la causale, vale a dire la motivazione che giustifica l’apposizione del termine: il datore di lavoro, in virtù della nuova disciplina legislativa, non deve più indicare le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che lo hanno indotto ad utilizzare la forma contrattuale a tempo determinato.
Il contratto a termine a-causale non può avere una durata superiore a trentasei mesi ed è prorogabile, con il consenso del lavoratore e nei limiti della durata massima prevista (36 mesi), fino a un massimo di cinque volte, indipendentemente dal numero dei rinnovi.
La proroga, per la quale è necessaria la forma scritta, è ammessa a condizione che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto a tempo determinato è stato stipulato, senza l’onere, a carico del datore di lavoro, di fornire la prova della causale che giustifica la prosecuzione del rapporto.
Se dopo la scadenza del termine originario o validamente prorogato o dopo il periodo di durata massima complessiva di 36 mesi, il lavoro prosegue di fatto:
per 30 giorni (se il contratto ha una durata inferiore a 6 mesi)
per 50 giorni (se il contratto ha una durata maggiore di 6 mesi),
il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione retributiva per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo, al 40% per ciascun giorno ulteriore.
Cosa succede se, invece, il rapporto di lavoro oltrepassa questo breve periodo “cuscinetto” di 30 o 50 giorni?
Il contratto si considera trasformato da tempo determinato a tempo indeterminato a far data da tale sconfinamento.
Per non cadere nel regime sanzionatorio del contratto a termine, è necessario, inoltre, che trascorra un lasso di tempo tra il primo e il secondo contratto a termine, stipulato tra le stesse parti contrattuali:
intervallo di 10 giorni se la durata del primo contratto è inferiore ai 6 mesi
intervallo di 20 giorni se la durata del primo contratto è superiore ai 6 mesi.
Anche il mancato rispetto di queste interruzioni temporali determina la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
Raggiunti i 36 mesi cumulativi di tutti i periodi di lavoro a termine, compresi eventuali periodi di lavoro svolti in somministrazione, aventi ad oggetto mansioni equivalenti, il datore di lavoro ed il lavoratore possono decidere di stipulare un ulteriore rapporto di lavoro a termine.
Tale nuovo contratto di lavoro dovrà però essere sottoscritto in regime di “deroga assistita” presso la Direzione territoriale competente, con la presenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
A ciascun datore di lavoro è consentito stipulare un numero complessivo di contratti a tempo determinato che non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°gennaio dell’anno di assunzione; per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è in ogni caso possibile stipulare almeno un contratto di lavoro a tempo determinato. I contratti collettivi nazionali hanno, comunque, la facoltà di individuare limiti quantitativi diversi per il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato.
In ogni caso non sono soggetti a limitazioni quantitative i contratti a termine conclusi nella fase di avvio di nuove attività per i periodi individuati dalla contrattazione collettiva, per sostituzione di personale assente, per attività stagionali, per spettacoli o programmi radiofonici o televisivi, nonché quelli conclusi con lavoratori di età superiore a 55 anni.
Tali limitazioni non si applicano nemmeno ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra enti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica o di coordinamento e direzione della stessa.
Fermi restando comunque i diversi limiti quantitativi stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali, per i datori che alla data di entrata in vigore del Decreto Legge n. 34/2014 occupino lavoratori a termine oltre al tetto legale del 20%, l’obbligo di adeguamento a tale soglia scatta a decorrere dal 2015, sempre che la contrattazione collettiva, anche aziendale, non fissi un limite percentuale o un termine più favorevoli. L'Interpello n.30/2014 ha chiarito che anche la contrattazione di prossimità può prevedere una rimodulazione di tali limiti ma non una loro abolizione.
Va peraltro ricordato che, come evidenziato dal Ministero del lavoro, “che il periodo massimo di 36 mesi, peraltro derogabile dalla contrattazione collettiva, rappresenta un limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione di lavoro. Ne consegue che raggiunto tale limite il datore di lavoro potrà comunque ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore anche successivamente al raggiungimento dei 36 mesi”. Tale conversione è però soggetta alle seguenti limitazioni:
i contratti a termine devono aver riguardato lo svolgimento di mansioni “equivalenti”, concetto questo potenzialmente oggetto di infinite controversie: ne consegue che il datore di lavoro dovrà tenere accurata documentazione - anche per quanto riguarda le mansioni svolte (lettere di assunzione, di modifica delle mansioni eccetera) - circa i contratti stipulati in anni tra loro distanti;
si contano tutti i periodi di lavoro prestato tra le medesime parti, cumulando la durata originaria dei singoli contratti con i relativi rinnovi e proroghe: poiché non è stato previsto un arco temporale massimo, il conteggio dovrà comprendere tutti i rapporti intercorsi, in corso tra le parti;
non si contano, invece, i periodi di interruzione tra un contratto e il successivo. Vanno quindi escluse dal computo le cosiddette “pause non lavorate” tra un contratto a tempo determinato e l'altro.
Dal computo dei 36 mesi vanno esclusi il contratto di inserimento e le assunzioni a termine delle liste di mobilità .