mercoledì 20 novembre 2013

Pensioni si pensioni no Inps ex INPDAP. Che confusione



Il disavanzo patrimoniale ed economico dell'Inps «può dare segnali di non totale tranquillità». Così il presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua sui dati di bilancio dell'Ente nel corso di una audizione alla commissione bicamerale di controllo degli enti previdenziali.

Un'uscita che aveva sollevato parecchi allarmi e che ha indotto Mastrapasqua a specificare che i conti dell'Istituto «sono in piena sicurezza» e a smentire «ogni allarmismo». «C'è piena e totale sostenibilità dei conti della previdenza e dell'Inps - ha chiarito Mastrapasqua - Nessun allarme e nessun allarmismo.

L'accorpamento con Inpdap ed Enpals ha spiegato Mastrapasqua in audizione «ha creato uno squilibrio di bilancio». La perdita dell'Inps è imputabile essenzialmente, riassume ancora il presidente Inps, «al deficit ex Inpdap, alla forte contrazione dei contributi per blocco del turnover del pubblico impiego e al continuo aumento delle uscite per prestazioni istituzionali».

Di qui la necessità di rivedere le norme che hanno regolato l'accorpamento dell'Inps con Inpdap ed Enpals. Per Mastrapasqua occorre dunque abbandonare la pratica delle anticipazioni, «di trasferimenti statali non completamente rispondenti ai fabbisogni», e ripristinare una copertura strutturale da parte dello Stato per il pagamento delle pensioni pubbliche. Senza questo intervento normativo si potrebbero «innescare rischi di sotto finanziamento dei disavanzi previdenziali e di progressivo aggravamento delle passività».

Ecco perché «sarebbe auspicabile che fosse approfondita e valutata nelle sedi competenti l'opportunità di eventuali interventi normativi, tesi a garantire l'efficiente ed efficace implementazione della più grande operazione di razionalizzazione del sistema previdenziale pubblico», dice Mastrapasqua, ricordando come all'origine del deficit ex Inpdap vi sia stata la soppressione, con la Finanziaria 2008, della norma in vigore dal 1996 che prevedeva l'apporto dello Stato a favore della gestione ex Inpdap, per garantire il pagamento dei trattamenti pensionistici statali. A fronte di questo, infatti, l'Inpdap ha fatto ricorso all'avanzo di amministrazione per la coperture del relativo deficit finanziario e soprattutto, alle anticipazioni di bilancio. Il rischio, senza un intervento dello Stato, è un «aumento delle passività».

Il fardello ereditato dall'Inpdap è probabilmente il nodo principale e forse quello più urgente da affrontare, ma nell'agenda del sistema pensionistico italiano non è l'unico. A livello generale ci si sta iniziando a interrogare sulla tenuta del sistema e sull'adeguatezza delle pensioni future, tenuto conto che la rivalutazione dei contributi è legata all'andamento del Pil nazionale e se questo continuerà a non crescere o addirittura a diminuire gli effetti si faranno sentire anche sull'importo delle pensioni. Il passaggio al sistema contributivo, inoltre, se consente di avere conti più sostenibili rispetto al retributivo, in un mercato del lavoro e in una congiuntura sempre più difficili, caratterizzati dall'alternarsi di periodi di impiego ad altri senza, rischia di determinare assegni mensili inadeguati per chi andrà in pensione tra 20-30 anni, come ha recentemente sottolineato il ministro del Lavoro Enrico Giovannini.

Altro tema caldo è quello delle pensioni d'oro, su cui si è già tentato di introdurre un contributo di solidarietà in modo da reperire risorse da distribuire a favore delle pensioni più magre.

Entro fine anno il Governo dovrebbe prendere una decisione anche in merito all'incremento dell'aliquota contributiva prevista per gli iscritti alla gestione separata. In base alla legge 92/2012 (riforma del mercato del Lavoro dell'allora ministro Elsa Fornero), l'aliquota dovrebbe passare dall'attuale 27% al 33% entro il 2018. Un incremento ritenuto insopportabile dai professionisti a partita Iva iscritti alla gestione separata su cui ricade pressoché interamente questo onere dato che nelle attuali condizioni di mercato non possono permettersi di aumentare gli onorari fatturati ai committenti.

Infine ci sono gli esodati, conseguenza della riforma previdenziale Monti-Fornero di fine 2011, non ancora risolto. Le persone salvaguardate dagli effetti negativi del nuovo sistema finora sono meno di 150mila, a fronte di un bacino potenziale stimato di oltre 300mila. In questo caso il problema è il reperimento delle coperture necessarie, da parte del governo, per ampliare ulteriormente l'intervento e consentire così all'Inps di riconoscere il diritto alla pensione ed erogare il relativo assegno mensile sulla base delle regole in vigore fino al 2011.

Basti pensare al fatto che la confluenza dell'Inpdap nell'Inps ha portato come dote il primo bilancio in rosso per oltre 9 miliardi dell'Inps. Il cronico buco deficitario dell'ex fondo dei dipendenti pubblici si è così scaricato sulla previdenza di tutti. Per il 2013 il Collegio di indirizzo e vigilanza dell'Inps si attende dalla sola gestione dell'ex ente dei dipendenti pubblici un disavanzo di 7,6 miliardi, che vale quasi l'80% dell'intero disavanzo stimato per tutto l'Inps per il 2013 che è sopra i 9 miliardi.

E così l'incorporazione nei fatti è diventato un salvataggio mascherato dell'Inpdap che rischiava di finire in dissesto. Ora il contagio dei disastrati conti dell'ente pensionistico dei lavoratori pubblici si allarga però all'intero Inps. Del resto con perdite annue che sono state di 10 miliardi nel 2011 e di 9 miliardi nel 2010, l'Inpdap nei fatti aveva finito per vedersi erodere l'intero capitale. Salvezza necessaria, dunque, ma che avrà l'effetto, se il trend di perdite proseguirà con questo passo, di portare a zero anche il patrimonio dell'Inps già nel 2015, come ha avvertito lo stesso presidente Mastrapasqua.

Se poi si va indietro nel tempo si scopre che le perdite dell'Inpdap sono strutturali da anni. Nel 2009 il saldo tra contributi e prestazioni è stato infatti negativo per la bellezza di 14,4 miliardi, mitigato dai 9,1 miliardi di contributi dello Stato come datore di lavoro. Il buco resta comunque alto oltre i 5 miliardi. E dal 2005 al 2008 il saldo cumulativo è stato negativo per 42 miliardi, che si dimezzano tenendo conto dei versamenti contributivi dello Stato ma che lasciano comunque un passivo imponente.

Già ma perché l'Inpdap è perennemente in perdita? Come mostrano i dati della Corte dei Conti nell'ultimo decennio il saldo tra entrate e uscite è sempre stato negativo, accelerando negli anni tra l'altro. Solo nel 2011 il buco è stato di 10 miliardi, dato che le entrate si sono fermate a 51 miliardi mentre le spese per pensioni sono salite a ben 61 miliardi. E nel decennio 2002-2011 le spese sono aumentate del 4,6% annuo, mentre le entrate sono salite solo del 2,8 per cento.

Uno squilibrio strutturale come si vede determinato dal fatto che i contributi sono sempre stati più bassi delle pensioni erogate. Il metodo retributivo che premia gli ultimi anni di attività lavorativa, le pensioni d'anzianità, i ritiri anticipati sommati al blocco del turn over e alla contrazione del numero dei dipendenti hanno sortito questo effetto. Troppe pensioni e di importo più elevato rispetto ai contributi effettivamente versati.

Ma per ironia della sorte non sono solo le pensioni pubbliche (oltre 2,8 milioni di assegni per un importo nel 2013 stimato in 63,7 miliardi) e il loro disavanzo strutturale a minacciare i conti dell'Inps.

Anche le ricche pensioni degli ex dirigenti d'azienda (e i minori contributi versati in proporzione) mandano in deficit strutturale l'ex Inpdap. Il buco di bilancio dell'ente riassorbito nell'Inps pena il fallimento non è episodico. Nell'ultimo decennio il deficit cumulato è stato di almeno 20 miliardi. Come per l'Inpdap, le uscite previdenziali superano strutturalmente le entrate da contributi. Anche qui il danno del sistema retributivo è stato enorme. Pensioni calcolate sugli ultimi 5 anni di carriera lavorativa sono assai generose rispetto ai reali contributi versati dagli ex manager e i loro datori di lavoro.

Il fondo lavoratori dipendenti (cioè i privati) mantiene un debole segno positivo per 590 milioni. Ma in realtà sarebbe in forte avanzo per ben 8,5 miliardi se non gravassero su di esso i deficit strutturali degli ex fondi speciali: tra lavoratori elettrici, telefonici, dei trasporti e appunto dirigenti d'azienda il disavanzo complessivo per il 2013 sarà di 8 miliardi. Tanto da portare quasi a zero l'avanzo dei dipendenti privati.

Lo pagano i cittadini con la fiscalità generale, dato che lo Stato deve ogni anno elevare la quota di trasferimenti pubblici all'Inps. Sono circa 90 miliardi l'anno che saliranno di altri 20 miliardi fino al 2015, quando (forse) la riforma Fornero dispiegherà in pieno i suoi effetti.







domenica 17 novembre 2013

Prepensionamento anticipato lo paga l'azienda


Pensione con scivolo fino a quattro anni. E’ quanto ha indicato la legge n. 92 del 2012.

Prepensionamenti: la parola magica per milioni di italiani, via d’uscita per ogni azienda in crisi, torna a splendere nel nostro firmamento, anche se costerà caro.

I requisiti per il pensionamento debbono essere verificati dall’Inps con riferimento alle regole vigenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Detti requisiti vengono validati sempre dall’Inps tramite una serie di operazioni quali:

l’emissione di un estratto conto certificato;
la validazione delle singole posizioni individuali;
l’importo iniziale della prestazione “retribuzione-pensione”;
l’onere della contribuzione figurativa da versare a carico del datore di lavoro.

Per dare efficacia all’accordo è previsto che il datore di lavoro presenti una istanza all’Inps comprensiva dei lavoratori coinvolti ed interessati, accompagnata da una fideiussione bancaria finalizzata a garantire la solvibilità nel tempo degli obblighi che assume su se stesso.

Ai lavoratori interessati l’azienda deve infatti garantire di:
pagare un’indennità (retribuzione-pensione) pari alla pensione che hanno maturato in base ai contributi versati fino a quel momento;
versare i contributi all’Inps durante questo arco temporale, massimo di quattro anni, come se gli interessati continuassero a lavorare.

Le aziende possono decidere di mandare in prepensionamento il personale che, a causa della crisi economica o per altri motivi, risulta in eccedenza. Ma devono pagare un prezzo piuttosto alto.

Questo novo tipo di prepensionamento è previsto nella riforma Fornero e ora l’ Inps ha diffuso le regole applicative.

Nel linguaggio dell’Istituto di Previdenza per antonomasia si chiama procedura di esodo volontario.

Oggi, le aziende possono anticipare di quattro anni il pensionamento dei propri dipendenti (se questi sono d’accordo), ma dovranno versare all’Inps ogni mese l’importo dell’assegno che l’Inps girerà all’ex dipendente fino al raggiungimento del diritto ordinario alla pensione, più il 33% dei contributi previdenziali calcolati sul valore precedente.

E’ una tombola per l’azienda. Ma al costo elevato corrisponderà la certezza che il dipendente è uscito, che la riorganizzazione può procedere senza persone che remano contro e che il costo avrà un termine, anche se dopo 4 anni.

Il lavoratore dipendente uscirà dall’azienda, ma potrà cumulare l’assegno Inps con eventuali altre retribuzioni, nel caso riuscisse a trovare un nuovo impiego; o lo potrà cumulare con il reddito di lavoro autonomo, laddove dovesse decidere di fare impresa o consulenza da sé (anche co.co.co.)”.

Per anni i prepensionamenti sono stati una valvola di sfogo importante, in molti casi anzi si traducevano in una specie di bonus, come accade per i lavoratori poligrafici (quelli dei giornali) che alla pensione Inps potevano aggiungere quella di un loro fondo integrativo. Alla fine si ritrovavano in prepensionamento in età giovanile: gente che aveva cominciato al lavorare a 14 anni nelle tipografie, andava in pensione a 50 anni mettendo assieme più del ricco stipendio della categoria  integrato da straordinari.

La nuova strada imboccata dall’Inps ha un fondo di giustizia, perché fa pagare il costo della ristrutturazione aziendale e del prepensionamento a chi ne trarrà il maggior beneficio, l’azienda.

Comunque le aziende continuano a pagare le quote contributive che una volta erano destinate a coprire eventi quali la mobilità o la cassa integrazione o la disoccupazione. Ma ora, dopo tutte le riforme degli ultimi anni, quelle prestazioni sono state ridotte o annullate, mentre l’Inps continua comunque a incassare i contributi, sotto altre voci, senza che ci sia più un controprestazione da erogare.

La domanda che segue è perché l’Inps non abbia ridotto i contributi. La risposta è da cercare nella grande massa dei dipendenti pubblici, per i quali il sistema privato è chiamato a pagare ancora una volta. L’Inps ha un buco di 23 miliardi causato dai debiti dell’Inpdap, la Cassa di previdenza dei dipendenti pubblici, che ha assorbito. Alla fine, “a pagare il conto saranno, naturalmente, i lavoratori e le imprese.




sabato 16 novembre 2013

Tredicesime 2013 al palo, rischi per le pmi



Gli imprenditori, in difficoltà per le scadenze fiscali e la scarsa liquidità, potrebbero rimandarne il pagamento. L'auspicio è che i 37 miliardi di euro di tredicesime vengano spesi per rilanciare i consumi.

Tredicesime invariate rispetto all'anno scorso, a rischio i dipendenti di aziende privati. La previsione arriva dalla Cgia di Mestre. "Se il costo della vita è cresciuto dell'1,3 per cento - sostiene il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi - l'indice di rivalutazione contrattuale Istat è salito dell'1,4 per cento. Pertanto, rispetto allo stesso periodo del 2012, il potere d'acquisto dei lavoratori è rimasto pressoché invariato".

Secondo le simulazioni della Cgia, un operaio specializzato con un reddito lordo annuo di poco superiore ai 21.000 euro (pari a uno stipendio mensile di 1.255 euro) riceverà appena un euro in più per la tredicesima di dicembre, chi ne guadagna oltre 25.600 euro (pari a una busta paga netta di 1.419 euro) 2 euro in e chi ha un reddito lordo annuo di quasi 50.000 euro (stipendio mensile netto di 2.545 euro) non beneficerà di alcun aumento.

L'importo delle tredicesime dovrebbe essere pari a 37 miliardi di euro, garantirà alle casse dell'Erario oltre 9,5 miliardi di euro, e l'auspicio è che vengano spesi per rilanciare i consumi interni.

"Mai come in questo - spiega Bortolussi - gli artigiani e i commercianti hanno bisogno di veder ripartire la domanda interna. Ricordo che per molte attività le vendite nel periodo natalizio incidono fino al 30/40 per cento del fatturato annuale".

La stima del numero di persone destinatarie della tredicesima mensilità si aggirerebbe indicativamente attorno ai 33 milioni.

Per i pensionati non dovrebbero esserci problemi, la stessa cosa non può essere affermata per i lavoratori dipendenti del settore privato. Molti imprenditori infatti potrebbero trovarsi in difficoltà nel pagare le tredicesime, dato che a dicembre sono molte le scadenze fiscali e contributive.

"E' possibile - secondo Bortolussi - considerata la scarsa liquidità a disposizione, che molti decidano di onorare gli impegni con il fisco e di posticipare il pagamento della tredicesima, o di una parte di essa, mettendo in difficoltà, loro malgrado, le famiglie dei propri dipendenti".



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