domenica 27 aprile 2014
Agente di commercio e il concetto di giusta causa
L’agente promuove la conclusione di contratti per conto del preponente svolgendo attività di ricerca della potenziale clientela, di descrizione e di pubblicizzazione dei prodotti per portare il cliente a poter formulare una determinata proposta, conforme alle aspettative del preponente. Se munito del potere di rappresentanza, l’agente conclude i contratti per conto del preponente.
Il concetto di giusta causa trae il suo fondamento giuridico dall’art. 2119 c.c. Al riguardo, l’orientamento è ormai pacifico nel considerare che anche il rapporto di agenzia possa essere risolto appunto per giusta causa in virtù dell’applicazione analogica al contratto di agenzia proprio del menzionato art. 2119 c.c. (tra le tante v. Cass. 12 dicembre 2001, n. 15661; Cass. 12 giugno 2000, n. 7986; Cass. 28 marzo 2000, n. 3738; nel merito, la recentissima Trib. Siracusa 3 febbraio 2004 in Agenti & Rappresentanti, 2004, n. 5, pag. 33 e 34).
La sentenza n. 4817, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 18/5/99, si è occupata di questo problema, enunciando principi rilevanti - oltre che nel caso di specie - in ordine ai rapporti tra legislazione nazionale e legislazione comunitaria.
Infatti, con riferimento agli agenti e alla obbligatorietà o meno dell'agente di essere iscritto ad un apposito albo, vi è una contraddizione tra le due discipline normative. Più precisamente, la L. 12/3/68 n. 316 dispone, per i soggetti che svolgano attività di agente, l'obbligo di iscrizione in un apposito albo; la successiva L. 9/5/85 n. 204 ribadisce il divieto di svolgimento dell'attività di agente per i soggetti non iscritti al ruolo. Al contrario, la direttiva comunitaria 86/653 del 18/12/86 sancisce il diritto degli agenti di commercio di svolgere la loro attività indipendentemente dall'iscrizione in appositi albi.
Sulla scorta di questa normativa di riferimento, nel caso specifico un soggetto aveva di fatto svolto attività di agente di commercio per una società, senza essere iscritto al corrispondente ruolo. Non avendo ricevuto tutti i compensi dovuti, l'agente di fatto si era rivolto al giudice del lavoro per ottenerne il pagamento. Tuttavia, il Tribunale di Roma rigettava la domanda, richiamando la normativa italiana sopra citata e, conseguentemente, ritenendo nullo il contratto di agenzia di fatto stipulato da un soggetto non iscritto all'albo.
La sentenza del Tribunale è stata però riformata dalla Corte di cassazione. Con la pronuncia prima indicata, la suprema Corte ha infatti ritenuto inapplicabile le leggi 316/68 e 204/85, in quanto contrastanti con la direttiva comunitaria. La Corte ha anche fatto riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 30/4/98, secondo cui la citata direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia alla iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo.
La Corte di cassazione ha ritenuto che tanto la sentenza della Corte di Giustizia, quanto la direttiva comunitaria devono ritenersi produttive di effetti nel nostro ordinamento. E' vero infatti che solo attraverso un regolamento la Comunità è in grado di dettare norme uniformi e capaci di inserirsi immediatamente negli ordinamenti nazionali. Tuttavia, prosegue la Corte, anche alle direttive comunitarie deve essere riconosciuta un'efficacia diretta, qualora esse presentino un contenuto sufficientemente preciso e non condizionato. Questa condizione si verifica allorquando la direttiva sancisca un obbligo in termini chiari e non soggetto ad alcuna condizione, né subordinato - in relazione alla sua osservanza o ai suoi effetti - all'emanazione di alcun atto da parte degli Stati membri o delle istituzioni della Comunità.
Pertanto, conclude la Corte, il giudice italiano deve disapplicare la norma nazionale in conflitto con la direttiva comunitaria, ove questa riguardi un rapporto fra Stato e privati. Poiché la normativa italiana sopra richiamata riguarda evidentemente il rapporto tra lo Stato e gli agenti, quindi un soggetto privato, deve ritenersi che rispetto a questa norma la direttiva comunitaria abbia efficacia diretta, con conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disposizione interna incompatibile.
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Agente di commercio e contratto di agenzia
Vediamo quali sono i diritti dell'agente al termine del rapporto di lavoro e alla cessazione del rapporto di agenzia competono a favore dell’agente alcuni diritti.
Il contratto di agenzia è un contratto tipico, disciplinato dalla contrattazione collettiva (oggi attraverso gli Accordi economici collettivi, cd. a.e.c. di diritto comune) e dal codice civile. Si instaura quando “una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata” (art. 1742 c.c.).
Si evidenzia che l’art. 1750 c.c. stabilisce che se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito.
In tal caso, se il recesso è posto in essere dal preponente, il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi.
E’ previsto inoltre che le parti possano concordare termini di preavviso di maggiore durata, ma il preponente non può osservare un termine inferiore a quello posto a carico dell'agente.
Anche gli accordi collettivi prevedono termini e forme di preavviso specifici e distinte, a seconda che si tratti di agente monomandatario o plurimandatario.
In ogni caso, nell’ipotesi in cui il preponente non voglia rispettare tali termini, potrà corrispondere all'agente un'indennità commisurata ai mesi di preavviso spettanti che quindi rappresenta il primo diritto in favore dell’agente al termine del rapporto.
In secondo luogo, l’agente ha diritto di ricevere alla cessazione del rapporto da parte del preponente un’indennità per la cessazione del rapporto medesimo.
Tale istituto è regolamentato dall’art. 1751 c.c. il quale è stato da ultimo modificato dai D.Lgs. n. 303/1991 e n. 65/1999 che hanno recepito la direttiva 86/653/CEE.
Ad integrare l’articolo in esame intervengono gli accordi economici collettivi di settore. Questi disciplinano l’indennità di cessazione del rapporto prevedendo due distinte voci che, sino all’ultimo rinnovo (avvenuto nel febbraio 2002 per il settore commercio e nel marzo dello stesso anno per l’industria), erano del tutto svincolate da ogni valutazione meritocratica circa l’attività prestata dall’agente, vale a dire il il (fondo indennità risoluzione rapporto) o indennità di scioglimento del rapporto, da corrispondere sempre e comunque all’agente alla cessazione dello stesso, con liquidazione a carico dell’Enasarco presso cui il preponente – durante il contratto, anno per anno – deve accantonare le relative somme da determinarsi in percentuale sulle provvigioni, e la c.d. indennità suppletiva di clientela, in aggiunta al f.i.r.r.,da corrispondere solo se il contratto si scioglie su iniziativa del preponente per fatto non imputabile all’agente con liquidazione a carico del preponente e non dell’Enasarco.
Come detto, tale sistema è stato modificato innanzitutto dal D.Lgs. n. 303/1991 e successivamente dal D.Lgs. n. 65/1999 i quali hanno dato attuazione alla direttiva comunitaria n.653 del 1986. Attualmente, l’art. 1751 c.c. stabilisce che il preponente, all’atto della cessazione del rapporto, è tenuto a corrispondere all’agente medesimo un’indennità se:
a) l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
b) il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.
In sostanza, si richiede la persistenza - al momento della cessazione del rapporto - di un portafoglio clienti procurato dall’agente, dal quale trae indubbio vantaggio la casa mandante. In quest’ottica, la prima condizione considera il vantaggio che il preponente ricava dalla disponibilità di questo portafoglio; la seconda considera la perdita, in termini di provvigioni, che l’agente subisce dalla cessazione del rapporto.
Peraltro, il diritto all’indennità in questione è subordinato alla sussistenza di entrambe le predette condizioni (ossia, l’apporto di clientela e l’equità), considerato che la modifica dell’art. 1751 c.c., introdotta dal D.Lgs n. 65/99, ha ancorato il menzionato diritto a criteri prettamente meritocratici (cfr. in tal senso Cass. 5467/00).
L’ aggiornato art. 1751 c.c., inoltre, stabilisce che:
l’indennità non è dovuta quando il preponente risolve il contratto per grave inadempienza dell’agente che, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto oppure quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze per le quali non può essergli chiesta ragionevolmente la prosecuzione dell’attività (ad es. infermità o malattia);
il relativo importo non può superare una cifra pari ad una indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi 5 anni e, se il contratto risale a meno di 5 anni, sulla media del periodo in questione;
le disposizioni in esso contemplate non possono essere derogate a svantaggio dell’agente.
La giurisprudenza ha stabilito che la riformata disciplina dell’indennità di fine rapporto può essere derogata dalla contrattazione individuale e collettiva, purché ovviamente non a svantaggio dell’agente (Cass. 10659/00). Può quindi essere consentita alla contrattazione collettiva una deroga pattizia dei criteri di cui all’art. 1751 poiché l’inderogabilità ivi prevista è solo in peius (Cass.11402/00).
Peraltro, neppure a seguito dell’ultimo rinnovo dei principali A.E.C., che pure hanno cercato di recepire in parte le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza, è venuto meno il dibattito circa il carattere migliorativo o meno delle disposizioni pattizie in materia rispetto alla previsione legale.
Per quanto riguarda, infine, l’ipotesi di un recesso per giusta causa imputabile al preponente, l’agente può invocare tale fattispecie per escludere ogni suo obbligo nei confronti del preponente, in particolare quello di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso.
Al riguardo, si ricordi che essa si verifica allorché venga posto in essere da parte di un contraente un inadempimento di gravità tale da non consentire neanche in via provvisoria la prosecuzione del rapporto in essere.
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I dettagli del bonus Irpef: a partire da maggio 2014
Il decreto Irpef taglia il traguardo: permetterà ai lavoratori dipendenti con redditi fino a 24mila euro di percepire un bonus di 80 euro al mese fino a dicembre, ma non solo. Il decreto istituisce anche un fondo per rendere strutturale la riduzione del cuneo fiscale, con una dotazione di 2,7 miliardi nel 2015 e di 4,7 miliardi nel 2016. Il provvedimento non riguarda però solo l'Irpef, ma anche le rendite finanziarie, che da luglio saranno soggette a una tassazione più pesante, i debiti della Pa, l'edilizia scolastica, il contrasto all'evasione, e la razionalizzazione della spesa pubblica.
Nel testo è stato confermato il bonus di 80 euro al mese per gli stipendi fino a 24mila euro lordi l’anno, fino a dicembre 2014, per un totale di 640 euro. Restano esclusi gli incapienti, ossia coloro che non pagano l’Irpef perché l’imposta lorda determinata sui redditi è di importo inferiore a quello della detrazione spettante con reddito lordo annuo sotto gli 8mila euro così come restano fuori le Partite IVA, per i quali ci si impegna ad un decreto successivo. Bonus decrescenti, fino a zero previsti per i redditi da 24mila euro a 26mila euro.
Viene quindi riconosciuto un credito, che non concorre alla formazione del reddito, di importo pari a:
• 640 euro, se il reddito complessivo non è superiore a 24.000 euro;
• 640 euro, se il reddito complessivo è superiore a 24.000 euro ma non a 26.000 euro, in questo caso il credito spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l’importo di 26.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l’importo di 2.000 euro.
Vediamo come funziona il bonus 2014, il cosiddetto bonus monetario che i lavoratori dipendenti si ritroveranno nelle buste paga a partire da maggio. Il Governo lo definisce impropriamente credito d’imposta (perché operativamente sarà un importo detratto dalle ritenute future operate dai sostituti d’imposta o, se insufficienti, dai contributi dai contributi previdenziali dovuti) e, altrettanto impropriamente, per attuarlo normativamente, interviene sulla disciplina dell’Irpef. Ma in realtà il “bonus” non modifica la struttura dell’Irpef, ed è collegato all’imposta personale unicamente perché il suo ammontare è legato al reddito complessivo a fini Irpef. La soluzione prescelta non è stata dunque quella inizialmente ipotizzata di agire attraverso un rafforzamento della detrazione Irpef da lavoro dipendente. E neppure quella di operare sui contributi sociali introducendo un’aliquota ridotta fino a una certa soglia di reddito e fiscalizzando lo sconto a fini previdenziali.
Il secondo elemento qualificante è la delimitazione della platea dei beneficiari del “bonus”. Sono i lavoratori dipendenti e gli assimilati (come i co.co.pro), ma tra questi sono esclusi i contribuenti con l’imposta lorda Irpef minore o uguale alla sola detrazione da lavoro (cioè quelli che hanno redditi inferiori a 8.145 euro se percepiti per l’intero anno, circa 3 milioni di soggetti. Restano fuori anche i pensionati.
Infine, la scalettatura del beneficio è variabile a seconda del reddito complessivo Irpef del lavoratore dipendente. In particolare, il “bonus” per il 2014 è pari a zero se il reddito complessivo, percepito per l’intero anno, è inferiore a 8.145 euro (la fascia dell’incapienza, come sopra specificato), a 640 euro costanti per i redditi compresi tra 8.145 e 24mila euro (circa 10 milioni di contribuenti); superata tale soglia, il “bonus” decresce in modo lineare e assai repentino fino ad azzerarsi a 26mila euro (circa 1,3 milioni di contribuenti).
Il beneficio massimo in termini di aumento di reddito netto, pertanto, è pari a 640 euro all’anno: sono circa 53 euro mensili, che diventano esattamente 80 se si considera il fatto che il beneficio per il 2014 non vale per tutto il periodo d’imposta, ma solo per i mesi che vanno da maggio a dicembre. Il costo della misura è pari a circa 7 miliardi, non poco se si considera il gettito complessivo Irpef.
Se il “bonus” dovesse essere confermato anche per il 2015, l’andamento del credito per l’anno intero dovrebbe avere l’andamento della linea rossa del grafico 1 con un beneficio annuo massimo pari 960 euro annui (sempre 80 euro mensili). In questo caso, il costo sarebbe un po’ superiore ai 10 miliardi di euro, che salirebbero a circa 13 se il “bonus” dovesse essere esteso nella medesima misura anche ai contribuenti incapienti.
Pregevole è innanzitutto che agli annunci del presidente del Consiglio siano seguiti in tempi brevi i fatti: gli 80 euro in più (su base mensile) sono ora realtà per ben 10 milioni di dipendenti: rispetto alla dispersione in micro-interventi del Governo Letta questa è un cambio di passo riconoscibile. Certo, la promessa è stata mantenuta solo in parte: l’annuncio originario di metà marzo lasciava intendere che i mille euro in più sarebbero stati recapitati a tutti i dipendenti con redditi minori di 25 mila euro, incapienti compresi. Ma la coperta finanziaria era evidentemente troppo stretta per includere anche i redditi più bassi, e si è preferito concentrare le risorse disponibili su un insieme comunque ampio di lavoratori (8-24mila euro).
Positiva è tutto sommato la scelta tecnica di aver veicolato la nuova misura attraverso un“bonus”, e non mediante un intervento sulle detrazioni Irpef. Data l’urgenza dell’intervento e l’indisponibilità di risorse finanziarie per affrontare in modo adeguato la questione degli incapienti, quella di evitare di intaccare in modo frettoloso gli elementi costitutivi dell’Irpef è stata una decisione prudenziale. Peraltro, il provvedimento dichiara apertamente che si tratta di una soluzione temporanea, preannunciando un intervento strutturale da realizzare con la Legge di stabilità per il 2015, quando anche il quadro delle coperture finanziarie sarà, si spera, più solido.
La scelta del “bonus” in luogo del rafforzamento della detrazione per redditi da lavoro, inizialmente ipotizzata, permette poi di includere tra i beneficiari anche alcuni lavoratori incapienti. Potranno infatti ricevere il bonus, anche se incapienti, i lavoratori con redditi superiori a 8.145 euro che non sono incapienti per la sola detrazione da lavoro, ma che lo diventano considerando anche altre tipologie di detrazioni, come quelle per carichi familiari (circa 1,1 milioni di soggetti).
Dall’altra parte, l’introduzione del “bonus” denuncia tutta una serie di criticità, legate soprattutto alla sua natura emergenziale, di misura da adottare a tamburo battente per dare un segno tangibile di cambiamento, che comporteranno la necessità di ritornarci sopra a breve in modo più strutturale.
Per ragioni di compatibilità finanziaria e, non da ultimo, di complessità operative, si è scelto, come detto, di rinviare al futuro l’attribuzione del beneficio anche ai redditi più bassi che per ora restano fuori dal perimetro dei beneficiari. Quello degli incapienti è un problema a lungo dibattuto, la cui mancata soluzione comporta problemi di iniquità fiscale e di indebolimento degli effetti macroeconomici di rilancio della domanda interna, nella misura in cui sono i lavoratori più poveri quelli ad avere la maggiore propensione al consumo.
È poi lo stesso disegno del bonus che desta qualche perplessità; anche se è svincolato dalla struttura dell’Irpef, la variazione di reddito disponibile (cioè tenendo conto sia del bonus sia del prelievo Irpef) al variare del reddito complessivo produce un effetto indesiderato: nella fascia 24-26mila euro: in soli 2mila euro l’ammontare del “bonus” crolla dal suo livello massimo a zero, comportando aliquote marginali effettive (Irpef + “bonus”) pari al 63,5 per cento su base annua con il bonus erogato per otto mesi come sarà effettivamente nel 2014 (ma che sfiorano l’80 per cento su base annua con il bonus erogato per dodici mesi “a regime”), contro un’aliquota Irpef che in questa fascia di reddito è attualmente pari al 31,5 per cento In questa ristretta fascia di reddito, in cui ricadono circa 1,3 milioni di contribuenti, un’ora di straordinario sarà dunque drammaticamente disincentivata. Per contro, in tutte le altre fasce di reddito le aliquote marginali effettive non cambiano.
Infine, c’è da osservare che il bonus è applicato indistintamente, a parità di reddito, a tutti i contribuenti interessati. Per esempio, lo stesso bonus verrà riconosciuto sia a un dipendente single sia, se con eguale reddito, a lavoratore con moglie e figli a carico. Si tratta insomma di una serie di distorsioni che rendono difficile immaginare che il bonus in questa forma avrà lunga vita, e che invece richiedono, superate le urgenze di questa fase, un intervento più strutturale nell’ambito dell’Irpef.
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