domenica 2 novembre 2014

Partite Iva e cocopro, come sono gli stipendi?


Iniziamo a vedere cosa bisogna sapere delle partita IVA.

Se il datore di lavoro vuole farti passare da un contratto di collaborazione alla partita Iva si sa che si perderà ogni tutela e buona parte dello stipendio.

Fino ai 35 anni si può usufruire del regime fiscale dei minimi, che consiste in una tassazione totale di circa il 33% di quello che guadagni, così divisi: 5% di Irpef e 28% di Inps. Questo discorso vale per chi ha la “gestione separata”, cioè tutti quei lavoratori generici che non usufruiscono di casse previdenziali di settore (come giornalisti, avvocati, commercianti) e con la clausola che i ricavi siano entro i 30.000 euro l’anno (per l’anno in corso il limite potrebbe aumentare a 65.000). Superati i 35 anni e i 30.000 euro di reddito l’Irpef sale dal 5% al 23% creando una pressione contributiva totale del 51%.

Alla pressione contributiva devi aggiungere gli acconti sulle tasse dell’anno successivo. Funziona così: tra giugno e agosto di ogni anno si  inizieranno a pagare le rate delle tasse relative alla dichiarazione dei redditi dell’anno precedente. Ma assieme a queste si dovrà pagare anche l’acconto sulle tasse dell’anno successivo. Questo acconto consiste nel 50% di quanto si ha appena pagato per le tasse.

In breve: se si ha dichiarato 21.000 euro di ricavi per il 2013 e pagato 7.000 euro (33%) di tasse? Bene, si dovrà pagare subito altri 3.500 euro, come acconto dell’anno successivo. Questa cifra verrà poi scalata dalle tasse che si ritroverà a pagare l’anno successivo. Ma non uno non se ne accorgerà neanche, perché l’anno successivo ci si ritroverà a pagare comunque l’acconto dell’anno dopo ancora.

La partita Iva per essere sostenibile prevede che svolgendo il proprio lavoro si abbia dei costi. La benzina per l’auto, metà di quanto spendi per l’affitto se lavori in casa, i biglietti del treno o di aereo, il ristorante: tutte queste cose si possono detrarre, ma non tutte al 100%. Hai ricavi per 21.000 euro l’anno? Bene, se hai avuto 6.000 euro di costi, il tuo reddito è di 15.000 euro, e su quelli pagherai un terzo di tasse (al regime dei minimi). Se nel tuo lavoro non hai costi aprire una partita Iva è difficilmente sostenibile. Facciamo un esempio: su un reddito lordo di 12.000 euro – i miseri mille euro al mese – ci si trova a dover pagare 4.000 euro di tasse più 2.000 di acconto e 1.000 (circa) di commercialista. Un totale di 7.000 euro di tasse, e in tasca ne rimangono meno della metà, 5.000. Oltre i 35 anni, poi, si paga molto di più.

Se si usufruisce del regime fiscale dei minimi si può detrarre un elenco molto ristretto di costi, diversamente da chi ha più di 35 anni, che paga un 51% di tasse (28% Inps + 23% Irpef) ma può detrarre molte più cose.

La cosa migliore che puoi fare è capire in anticipo, mese per mese, quanti costi si dovrà avere entro la fine dell’anno per abbassare il reddito, e pagare una cifra sostenibile di tasse.

Metti da parte un terzo (o più) dei tuoi guadagni dal primo momento: così facendo eviti il rischio, molto comune, di non rientrare più con le cifre una volta che inizierai a pagare le tasse.

Se per un anno un con partita IVA non lavora ed il fatturato è pari a 0 euro, oltre a non dover pagare il 5% di Irpef visto che sono un “minimo”, cosa dove versare? Se il contribuente è iscritto alla cassa artigiani o commercianti dell’Inps deve pagare il contributo annuale anche se il suo reddito è pari a zero. L’importo è di poco inferiore a 3.000 euro annui.

Se il contribuente è un libero professionista in caso di reddito negativo non deve pagare l’Inps. Se invece è iscritto alla cassa artigiani e/o commercianti deve comunque pagare il contributo sul reddito minimale (in 4 rate per un importo di poco inferiore a 3.000 euro annui). Se i contributi non vengono versati l’Inps applica una sanzione pari a circa il 10% della somma non pagata.


Adesso evidenziamo i dati dell'Inps illustrati a un convegno organizzato dall'Associazione 20 Maggio a raccontarci i veri disperati dalla busta paga pressoché inesistente, che siano collaboratori a progetto o partite Iva.

La media dei compensi di tutti i parasubordinati 2013 (dati Inps) è di 19mila euro lordi annui. E a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini. Gli uomini, infatti, hanno redditi di 23.874 euro mentre le donne hanno una media di reddito di 12.185. Più colpite da questa discriminazione sono le fasce d'età dai 40 a i 49 anni, quindi, proprio le lavoratrici all'apice della carriera.

Con un compenso lordo medio di 18.640 il reddito netto di un lavoratore con partita Iva iscritto alla Gestione separata è di 8.679 euro annui e di soli 723 euro mensili. Va poi sfatato lo stereotipo per cui il lavoro parasubordinato sia un fenomeno solo giovanile e quindi transitorio. Se si osserva la composizione per fascia d'età, emerge che su 1.259mila lavoratori 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (pari al 48% del totale) e il 33% ha superati i 50 anni. Il lavoro parasubordinato riguarda in prevalenza lavoratrici e lavoratori adulti e con famiglia.

Lo studio analizzato dal direttore dell'Associazione, Patrizio Di Nicola (Università La Sapienza di Roma), mostra anche il crollo degli occupati tra i parasubordinati. Il sito di Adepp, l’associazione degli enti previdenziali privati, riporta nel dettaglio la ricerca. «I collaboratori a progetto diminuiscono di 322mila unità dal 2007 al 2013, e nel solo 2012 passano da 647mila a 502mila, con una flessione di ben 145mila unità. Si tratterebbe di un fenomeno a cui, oltre la crisi, ha contribuito anche la riforma Fornero la quale imponeva, nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e favorire lo spostamento verso il lavoro dipendente, l'introduzione per i collaboratori dei minimi tabellari dei dipendenti».

Le collaborazioni coordinate continuative anche a progetto sono disciplinate dagli articoli da 61 a 69 del decreto legislativo n. 276/2003, che ne disciplinano, tra gli altri, diversi aspetti, quali:

la definizione ed il campo di applicazione;

la forma;

gli obblighi e diritti del lavoratore;

il regime di estinzione del contratto di collaborazione;

previsioni di conversione dei contratti di collaborazione.

All’indomani delle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012, l’art. 63 del D.Lgs. n. 276/2003 dispone:
che il compenso debba essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito in relazione a ciò e  alla particolare natura della prestazione e del contratto non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati.

Se da più parti tali previsioni hanno destato qualche perplessità, in merito a come identificare i parametri di riferimento per la determinazione del corrispettivo (posto che le collaborazioni coordinate e continuative anche a progetto non costituiscono lavoro subordinato e che, salvo le poche e recentissime eccezioni, non hanno un CCNL) al comma successivo la norma è giunta “in soccorso” prevedendo che:

“in assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto”…

Se indubbio è l’interesse che queste previsioni hanno suscitato negli addetti ai lavori, altrettanto interessante è stata la specificazione del Ministero del lavoro (Circ. 22 aprile 2013 n. 7258) che relativamente ai criteri da seguire per la definizione del corrispettivo del collaboratore ha chiarito che il compenso non deve essere parametrato al tempo impiegato per realizzare il progetto, ma che tuttavia “l’elemento temporale rileva ai fini della valutazione circa la congruità dell’importo attribuito al collaboratore sulla base del contratto collettivo di riferimento.”

Ora, nella stessa nota il Ministero ha anche sottolineato il riferimento del nuovo art. 63 “ai minimi salariali applicati nello specifico settore alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, in forza dei contratti collettivi sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati”. Premesso che, a parere di chi scrive, la previsione di un corrispettivo parametrato ai minimi “salariali” parrebbe quanto meno inconsueta per le collaborazioni a progetto, che, di norma, attengono a prestazioni dal contenuto professionale elevato, a chiarimento del punto, la citata nota ricorda che laddove non si rinvenga una contrattazione per lo specifico settore, a parità di estensione temporale (che cos’è l’estensione temporale se non una sorta di orario di lavoro?) dell’attività oggetto della prestazione, si fa riferimento “alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto”.

Se di indubbio interesse risultano le espressioni del legislatore e le precisazioni ministeriali su questi argomenti, non meno meritevoli di attenzione saranno le traduzioni operative da parte degli addetti ai lavori nella redazione pratica dei contratti a progetto, come anche il mantenimento delle collaborazioni a progetto nell’ambito delle prestazioni di carattere autonomo (seppur in coordinamento con il committente), vista la progressiva assimilazione sotto più profili alle forme del lavoro subordinato.



sabato 1 novembre 2014

Tfr in busta paga a chi conviene?





Per i datori di lavoro con meno di 50 addetti che non optino per detta modalità di accesso al credito, si prevede il riconoscimento delle misure compensative di carattere fiscale e contributivo previste dall’art. 10 del D.Lgs. n. 252/2005 per le imprese che versano il TFR a forme di previdenza complementare ovvero al Fondo di Tesoreria istituito presso l’INPS. Inoltre, le stesse misure compensative vengono riconosciute anche ai datori di lavoro con numero di addetti pari o superiore a 50, in proporzione alle quote di TFR percepite dai lavoratori come parte integrativa della retribuzione.

Insomma, un aggravio di tassazione per i lavoratori e la necessità di ricorrere a finanziamenti per le imprese: viene da chiedersi a chi giovi la novità, se non alle casse erarali.
 
La questione del TFR in busta paga aveva tenuto banco per giorni: le imprese, per mezzo delle associazioni di categorie, facevano sapere di essere decisamente contrarie, perché l'operazione andava a intaccarne la liquidità senza alcuna reale contropartita (se non la vaga speranza nella ripresa della domanda interna), mentre ai lavoratori veniva garantito che quell'incremento in busta paga sarebbe stato assoggettato a tassazione separata con aliquota ridotta. Poi la manovra è stata messa nero su bianco e approvata dal Consiglio dei Ministri, e successivamente "bollinata", in una versione riveduta e corretta, dalla Ragioneria generale dello Stato. E si è scoperto che l'operazione "TFR in busta paga", introdotta in via sperimentale e su base opzionale, non era poi così conveniente per i lavoratori, ed aveva il solo scopo di generare incrementi di gettito.

Meno di 2 lavoratori su 10 (il 18%) avrà il Tfr in busta paga, a fronte del 67% che invece continuerà a lasciarlo in azienda. E' quanto emerge da un sondaggio Confesercenti-Swg.

A scegliere di usufruire della possibilità offerta dalla legge di Stabilità, soprattutto chi ha tra i 35 e i 44 anni (21%), seguiti dai più giovani fra 18 e i 24 (19%). A lasciarlo in azienda i lavoratori più vicini alla pensione: non lo toccheranno quelli tra i 55-64 anni (72%) e tra 45-54 (70%).

Tra i lavoratori che hanno intenzione di richiedere il Tfr in busta paga, la maggior parte è ancora incerta su come utilizzare la liquidità in più (44%), mentre il 17% la investirà soprattutto in forme di risparmio alternative. Il 16% punta a pensioni integrative e il 13% dice che userà la somma per saldare pagamenti e debiti pregressi. La percentuale sale al 36% tra i giovani compresi tra i 18 e i 24 anni. Solo il 10% investirà il Tfr in acquisti. Emerge da un sondaggio di Confesercenti-Swg.

Il 64% degli imprenditori teme che, se tutti o la maggior parte dei dipendenti, scegliessero di avere il Tfr su base mensile, l'impresa avrebbe difficoltà con la liquidità disponibile, a fronte di un 36% che, invece, non avrebbe problemi. E' quanto emerge da un sondaggio Confesercenti-Swg. Gli ostacoli nascono dagli impedimenti che le imprese incontrano nell'ottenere prestiti dal canale bancario, segnalati dal 66% degli imprenditori.

venerdì 31 ottobre 2014

Comportamento antisindacale:occorre lesione di interessi collettivi del sindacato



Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) occorre che gli atti e i comportamenti del datore di lavoro impediscano o limitino l'esercizio delle libertà e attività garantite al sindacato, assumendo rilevanza esclusivamente la lesione oggettiva degli interessi collettivi di cui il sindacato è portatore, e restando privo di rilievo, ai fini della concessione della tutela inibitoria, l'intento del datore di lavoro, sia nel senso che la tutela non può essere negata in presenza di situazioni di buona fede dell'autore del comportamento, sia nel senso che l'intento di nuocere al sindacato non è idoneo ad integrare condotta antisindacale ove manchi la lesione degli interessi collettivi considerati dalla norma.

La definizione del concetto di libertà e attività sindacale si ottiene, in positivo, riconducendo a tale ambito tutte le attribuzioni di cui il sindacato è titolare ai fini della tutela di interessi collettivi; in negativo, collocando fuori del suo ambito, la sfera degli interessi morali e patrimoniali dei singoli lavoratori.

La condotta del datore di lavoro violatrice di diritti individuali, derivanti dalla legge (anche dalla Costituzione, come il diritto alla retribuzione o alle ferie) o dai contratti collettivi, non può mai concretare condotta antisindacale, fermo restando che al pregiudizio del diritto individuale potrebbe accompagnarsi anche il pregiudizio di interessi collettivi, come, ad esempio, nel caso di inadempimenti retributivi connessi a scioperi, di reazioni disciplinari all'esercizio di attività sindacali.

L'attualità del comportamento antisindacale, quale condizione della domanda di cui ex art. 28 legge n. 300 del 1970, non è esclusa dall'esaurirsi del singolo comportamento, atteso che la lesione dell'attività sindacale, che segna l'interesse del sindacato, permane qualora il comportamento denunciato sia suscettibile di produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

L'attualità della condotta antisindacale non è esclusa dall'inerzia nella presentazione del ricorso ex art. 28, ove il comportamento illegittimo sia idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo per la sua portata intimidatoria e per la conseguente situazione di incertezza tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

Ha natura antisindacale la condotta del datore di lavoro pubblico, che abbia violato il diritto di informazione e consultazione del sindacato, così incidendo sulla sfera patrimoniale del medesimo, intesa quale comprensiva del suo diritto all'immagine e al rispetto della sua funzione. Quando sussiste  un diritto delle organizzazioni sindacali di essere informate o interpellate, la violazione di tale obbligo lede un diritto del sindacato e integra un comportamento antisindacale. E l'inadempimento perdura fino a quando non sia eseguita la prestazione dovuta. Inoltre nel caso in esame la perdurante vigenza dei provvedimenti adottati in violazione degli obblighi di informazione perpetua fino alla completa rimozione degli effetti pregiudizievoli lamentati, consistenti nella permanente vigenza dei provvedimenti adottati in violazione degli obblighi di informazione, cioè la sottrazione al sindacato della facoltà di controllo dell'esercizio del potere.

L'attualità della condotta antisindacale e dei suoi effetti, che costituisce condizione per la pronuncia del provvedimento di cui all'art. 28 della legge n. 300 del 1970, deve essere verificata e valutata nella concretezza del suo modo di essere e della sua attitudine a impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale o del diritto di sciopero, anche facendo uso di presunzioni, ma sicuramente non mediante mere illazioni o asserzioni.

L'attualità del comportamento antisindacale non è esclusa dall'esaurirsi del singolo comportamento, atteso che la lesione dell'attività sindacale permane anche successivamente quando il comportamento denunciato sia suscettibile di produrre effetti durevoli nel tempo.

È infondata l'eccezione relativa all'attualità della condotta antisindacale, quando la semplice dichiarazione di antisindacalità del comportamento denunciato può rivestire una qualche utilità sul piano della rimozione degli effetti.

L'esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di lavoro non può costituire preclusione alla pronuncia di un ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo, nel caso in cui questo risulti ancora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne deriva, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

È ammissibile il ricorso ex art. 28 quando il comportamento denunciato come antisindacale sia permanente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo. L'attualità del comportamento denunciato come antisindacale deve essere ritenuta sussistente qualora ne persistano gli effetti al momento della presentazione della domanda . E' ammissibile il ricorso alla procedura dell’art. 28 non solo quando al momento della proposizione della domanda sia attuale la condotta antisindacale o i relativi effetti, ma anche quando il dedotto comportamento antisindacale sia espressione di un persistente atteggiamento del datore di lavoro, tale da comportare ripercussioni negative durevoli sull'attività e libertà sindacale.

La concreta possibilità che i reiterati rifiuti di concessione dell’assemblea sindacale tornino a ripetersi giustifica l’interesse del sindacato all’ottenimento di un provvedimento che imponga una regola di comportamento per il futuro. Qualora la condotta antisindacale non sia meramente episodica, ma destinata a persistere nel tempo, deve essere ordinato il divieto di reiterare in futuro i medesimi comportamenti.

In tema di repressione della condotta antisindacale, di cui all’art. 28 dei lavoratori, la legittimazione ad agire è riconosciuta dalla citata norma alle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, richiedendo pertanto il solo requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale, con ciò dovendosi intendere che sia sufficiente – e al tempo stesso necessario – lo svolgimento di un’effettiva azione sindacale non su tutto ma su gran parte del territorio nazionale, senza esigere che l’associazione faccia parte di una confederazione né che sia maggiormente rappresentativa. In particolare, qualora dispongano dei requisiti sopra indicati, sono legittimate anche le associazioni sindacali intercategoriali, in riferimento alle quali però i limiti minimi di presenza sul territorio nazionale ai fini della rappresentatività devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti da un’associazione di categoria. L’individuazione degli organismi locali delle associazioni sindacali legittimati ad agire deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture che tali istituti ritengono maggiormente idonee alla tutela degli interessi locali.

In tema di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro la legittimazione ad agire deve essere riconosciuta anche a quelle associazioni sindacali di categoria che, seppur singolarmente siano prive del requisito di rappresentatività. si siano associate in modo da garantire la sussistenza dei requisiti di diffusione sul territorio nazionale e del concreto esercizio dell'attività sindacale a livello nazionale.

Anche un sindacato che non ha proclamato lo sciopero per la partecipazione al quale sono stati sanzionati disciplinarmente dei lavoratori ha interesse ad agire per l'accertamento della natura antisindacale delle sanzioni, in quanto l'accertamento dell'illiceità della condotta del datore di lavoro soddisfa un interesse concreto di tutti i sindacati operanti nel contesto in cui la condotta stessa è posta in essere, a prescindere dal coinvolgimento dei propri aderenti o iscritti.


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