domenica 25 gennaio 2015

Jobs Act: le novità per il licenziamento e la conciliazione



Il Jobs Act introduce per il licenziamento l’offerta di conciliazione. Lo schema di decreto legislativo sul contratto a tutele crescenti, infatti, prevede uno strumento innovativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie sul licenziamento. Il datore di lavoro può offrire, con assegno circolare, al lavoratore un importo esente da tasse e contributi di ammontare pari a una mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità.

La richiesta dell'indennità sostitutiva deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Trattandosi di termine avente natura perentoria, il mancato rispetto dello stesso ne determina la decadenza.

La mancata previsione di analogo diritto in capo al datore di lavoro ha indotto a parlare di “Opting out unilaterale” ovvero il diritto riconosciuto al solo lavoratore di chiedere al datore di lavoro un indennità al posto della reintegrazione nel posto di lavoro, diritto già riconosciuto al lavoratore dalla normativa vigente.
Tuttavia è opportuno porre l'attenzione a quanto disposto dall'art. 6 del decreto legislativo il quale introduce uno strumento innovativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie sul licenziamento, l’offerta di conciliazione.

Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti previsto dal Jobs Act e oggetto del primo decreto legislativo attuativo della delega, cambia profondamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quindi il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, per i nuovi assunti e introduce una nuova possibilità di conciliazione. Esaminiamo con precisione le nuove disposizioni in materia di licenziamenti, anche evidenziando i principali punti critici.

Il diritto al reintegro nel posto di lavoro resta nei seguenti casi:

licenziamento discriminatorio o riconducibile ad altri casi di nullità;

licenziamento intimato in forma orale;

licenziamento per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) per il quale sia dimostrata in giudizio «l’insussistenza del fatto materiale».

Per il licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, e in tutti gli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, decade il diritto al reintegro previsto dall’articolo 18, sostituito dall’indennizzo economico.

Le novità, rispetto alla Riforma Fornero (legge 92/2012), che già aveva riformato l’articolo 18, sono due: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (motivi economici) non prevede più in nessun caso il reintegro. Il diritto a tornare nel posto di lavoro viene fortemente limitato anche nel caso dei licenziamenti disciplinari. Qui, è già iniziato il dibattito giurisprudenziale sul preciso significato da dare all’espressione utilizzata (insussistenza del fatto materiale). In linea generale, significa che se la motivazione addotta dall’azienda (che come è noto deve essere esplicitata in forma scritta) si rivela inesistente (esempio: si contesta un fatto che in realtà non si è verificato), il lavoratore ha diritto al reintegro. Questo, indipendentemente da qualsiasi valutazione del giudice sulla sproporzione del licenziamento.

Il problema è che la formulazione della norma potrebbe rendere licenziabile il lavoratore per un fatto che sussiste, ma per il quale il contratto non prevede il licenziamento. In parole semplici, cosa succede se un dipendente commette effettivamente un fatto materiale, che però non è illecito, o è sproporzionato rispetto al provvedimento di licenziamento? Perde il diritto al reintegro? Oppure, deve valere un’interpretazione più estensiva per cui l’azienda non può comunque effettuare un licenziamento per motivazioni che non sono esplicitamente previste dalle leggi e dai contratti di riferimento? Il dibattito è aperto. Ricordiamo che tutto questo vale solo per gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti, gli altri contratti a tempo indeterminato continuano ad applicare l’articolo 18.

Licenziamento discriminatorio o nullo
Per quanto riguarda le altre fattispecie sopra citate, il licenziamento discriminatorio è definito dall’articolo 3 della legge 108/1990, e riguarda ad esempio i casi in cui avvenga per motivi legati a credo politico o fede religiosa, appartenenza ad un sindacato o partecipazione attività sindacali, partecipazione a uno sciopero, discriminazioni di natura razziale, di lingua o di sesso. Gli altri casi di nullità del licenziamento sono previsti dal comma 1 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: matrimonio, gravidanza, diritti legati a maternità e paternità (congedi parentali), violazione dell’articolo 1345 del codice civile (in base al quale sono nulli i contratti in cui le parti agiscono esclusivamente per un motivo illecito): quest’ultima è una fattispecie complessa, su cui comunque esiste ampia giurisprudenza.

Nuova procedura di conciliazione
Un’altra novità introdotta dalla riforma è rappresentata dalla nuova procedura di conciliazione, prevista dall’articolo 6 del decreto. Il datore di lavoro può offrire al dipendente un’indennità risarcitoria pari a una mensilità per ogni anni di servizio, in misura comunque non inferiore a due mensilità e non superiore a 18. Questa nuova forma di conciliazione è fiscalmente incentivata in due modi: l’indennità non rileva ai fini dell’imponibile IRPEF del lavoratore (quindi, è detassata), e non è assoggettata a contribuzione previdenziale. Non solo: il datore di lavoro è tenuto a pagarla mediante assegno circolare (che garantisce la totale sicurezza del pagamento). Se il lavoratore accetta, rinuncia a impugnare il licenziamento (anche se aveva già iniziato una procedura in tal senso).

La modalità di conciliazione introdotta non può passare inosservata.
Infatti, come evidenziato dalla stessa relazione illustrativa, suddetta conciliazione è incentivata attraverso la totale esenzione fiscale, oltre che contributiva, della indennità prevista, resa possibile dalla predeterminazione per legge del criterio di calcolo dell'importo vincolato al pagamento oggettivo dell'anzianità di servizio e, quindi, sottratto alla disponibilità delle parti.

Non solo, il pagamento immediato mediante assegno circolare, previene ulteriori possibili contenziosi ed assicura la lavoratore l'immediata disponibilità della somma.

Infatti con questa modalità di conciliazione le parti rispettivamente, possono oltre a beneficiare della totale esenzione fiscale e contributiva, evitare di intraprendere un percorso giudiziale il cui esito oltre a non essere certo è anche estenuante per i tempi richiesti.



Tfr in busta paga, cosa accadrà dal 1 marzo 2015?



Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR), rappresenta una porzione di retribuzione dovuta al lavoratore subordinato che viene erogata, dal datore di lavoro, in maniera differita rispetto la cessazione del rapporto di lavoro.

Se il lavoratore richiede di ricevere il Tfr in busta paga, l'opzione resta irrevocabile fino al 30.06.2018.

La misura, sperimentale, vale per i periodi di paga decorrenti dal 1° marzo 2015 e fino al 30 giugno 2018, nei confronti dei lavoratori dipendenti del settore privato, esclusi i lavoratori domestici e i lavoratori del settore agricolo, che siano in forza da almeno sei mesi.

Alcuni emendamenti propongono la modifica dei requisiti per l’accesso: viene, per esempio, elevata ad un anno la durata del rapporto di lavoro in essere presso lo stesso datore di lavoro e con questa anzianità di servizio viene consentito anche ai dipendenti contrattualizzati del settore pubblico di chiedere direttamente all’Inps l’anticipazione del trattamento di fine rapporto o di fine servizio a cui avrebbe diritto al momento della richiesta.

In base a questa proposta emendativa anche per i dipendenti del settore privato l’erogazione non sarebbe più una quota integrativa della retribuzione, ma diventerebbe una richiesta di anticipazione ed in quanto tale soggetta a tassazione.

Il datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze meno di 50 dipendenti e che non intenda erogare l’anticipazione con risorse proprie potrà accedere ad un finanziamento assistito da fondo di garanzia, da rimborsare in rate mensili con un minimo di cinque anni e un massimo di dieci.

L'opzione, qualora esercitata, è irrevocabile fino al 30.06.2018. L'opzione può essere esercitata anche per le quote destinate dal lavoratore a forme di previdenza complementare. La parte integrativa della retribuzione costituita dalla quota di Tfr corrisposta è assoggetta a tassazione ordinaria (non, quindi, a tassazione sostituiva come accadrebbe in caso di corresponsione del TFR al termine del percorso lavorativo). Tuttavia, non è imponibile ai fini previdenziali e non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini della verifica della spettanza del bonus "80 euro".

Dal 1° marzo potrà acquisire la forma di un'integrazione della retribuzione mensile, ovvero viene ora riconosciuta al dipendente un'ulteriore e alternativa possibilità, cioè quella di chiedere il pagamento mensile dell'importo maturando di Tfr (nel medesimo mese), che in tal modo diventa, come precisa la stessa norma, un'integrazione della retribuzione, previdenziale non imponibile, da assoggettare a tassazione ordinaria.

La nuova opzione, che si aggiunge a quelle già esistenti (mantenimento in azienda o trasferimento ad un fondo pensione), rischia però di modificare le scelte già effettuate, posto che lo stesso articolo 6 della legge di Stabilità prevede che la scelta della monetizzazione può riguardare anche la quota già destinata al fondo pensione.

Le conseguenze dell'opzione La legge di Stabilità precisa che la manifestazione della volontà in favore della liquidazione monetaria, una volta effettuata, non possa essere modificata fino al 30 giugno 2018.

La norma riserva questa nuova possibilità a tutti i lavoratori dipendenti privati, esclusi gli agricoli e i domestici, con almeno sei mesi di anzianità di servizio presso il datore di lavoro tenuto all'erogazione, ed esclude dall'obbligo le sole aziende sottoposte a procedure concorsuali e quelle in crisi in base all'articolo 4 della legge 297/1982.

La nuova opzione produce effetti differenziati i nei confronti dei numerosi soggetti coinvolti. Il primo interessato è sicuramente il dipendente che attraverso la nuova scelta potrà fruire di un incremento del netto in busta paga. Ma il beneficio sarà fortemente attenuato dalla circostanza che sull'integrazione della retribuzione subirà la tassazione ordinaria, con applicazione dell'aliquota marginale Irpef e delle addizionali, mentre sull'importo erogato a fine rapporto di lavoro a titolo di Tfr avrebbe subito la tassazione separata, che è una tassazione Irpef (escluse addizionali) agevolata in quanto tiene conto del fatto che la somma è maturata nel corso del rapporto a fronte di un'erogazione differita al momento della cessazione.

Ecco perché il maggior guadagno sarà per l'Erario, che incasserà subito e cioè mese per mese, un'Irpef più alta in quanto calcolata con modalità ordinaria.

A perdere saranno i fondi pensioni che per i prossimi tre anni, salvo successive proroghe, rischiano di perdere una delle più importanti fonti, rappresentata appunto dal Tfr trasferito dai lavoratori dipendenti.

Ma l'effetto più immediato ed evidente sarà comunque rappresentato per aziende, consulenti, spetterà l’ulteriore complicazione “gestionale” ed ”amministrativa” del Tfr, o meglio di quello che fino al 31 dicembre 2006 era una semplice forma di retribuzione differita e che dal 2007 a oggi può assumere forme e diverse, e cambiarle nel corso della vita lavorativa. A “perdersi” probabilmente non saranno solo gli operatori del settore, che in fase di assunzione dovranno intervistare in modo approfondito il lavoratore sulle pregresse scelte effettuate, ma anche gli stessi lavoratori che potranno non avere più contezza di quella che un tempo era una consolazione economica della fine del rapporto di lavoro.

Dopo le perplessità espresse in sede di audizione parlamentare da Banca d’Italia e Corte dei Conti, arriva una presa di posizione di Assofondipensione, che ritiene la misura un pericolo per lo sviluppo della previdenza complementare. L’associazione ha espresso preoccupazione ritenendo che l’anticipazione del TFR, unitamente all'aumento della tassazione sui fondi pensione prevista dalla Legge di Stabilità, è una sfida al sistema della previdenza complementare, che coinvolge circa 2 milioni di lavoratori. Sulla tassazione dei fondi pensione l’associazione non esclude ricorsi per via giudiziaria, anche rivolgendosi alla Corte Europea.



Criteri per scegliere i lavoratori da sospendere in CIG



Per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione, la l. n. 223/91, art. 1, e. 7, prescrive che il datore di lavoro comunichi alle organizzazioni sindacali i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, in relazione a quanto previsto dall'art. 5 l. n. 164/75. Tale disposizione tutela, nella gestione della cassa integrazione, i diritti dei singoli lavoratori e le prerogative delle organizzazioni sindacali, la comunicazione che il datore è tenuto a dare alle rappresentanze sindacali aziendali debba contenere l'indicazione dei criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere e le modalità della rotazione, i quali solo successivamente dovranno costituire oggetto del successivo esame congiunto).

La Cassa Integrazioni Guadagni è un beneficio per il datore di lavoro che può sospendere in tutto o in parte l'attività di un certo numero di lavoratori al contempo liberandosi dell'obbligo retributivo nei loro confronti. Infatti, i lavoratori sospesi dal lavoro, percepiscono per la durata dell’intervento un’integrazione salariale a carico dell’INPS; consentendo così al datore di lavoro di affrontare situazioni particolari come crisi o ristrutturazione Il nostro ordinamento prevede due ipotesi di CIG, rispettivamente ordinaria (CIGO) e straordinaria (CIGS), ognuna delle quali segue una disciplina specifica e non necessariamente coincidente con quella vigente per l'altra.

Dal 2009 è stata attivata a seguito del completo esaurimento degli ammortizzatori sociali previsti dalla legge ordinaria (CIGO, CIGS) la cassa integrazione in deroga CIGD.

Poiché la riduzione dell’attività lavorativa, normalmente, non coinvolge tutti i dipendenti, è quasi sempre necessario che il datore di lavoro compia una scelta, decidendo chi sospendere e chi no. Naturalmente, non può trattarsi di una decisione arbitraria, ma deve sempre essere fondata su valutazioni oggettive e verificabili dal giudice.

Da questo punto di vista, la legge dice solamente che i criteri di scelta devono essere preventivamente comunicati alle organizzazioni sindacali e, su loro richiesta, devono costituire oggetto di esame congiunto. Questo evidentemente basta a garantire che il datore di lavoro debba stabilire i criteri di scelta in via preventiva rispetto alle sospensioni; inoltre, la circostanza che i criteri siano oggetto di preventiva informazione comporta l’impossibilità del datore di lavoro di modificarli successivamente in via unilaterale (ciò potrebbe accadere solo nel corso dell’eventuale trattativa con il sindacato e solo previo accordo con questo); infine, il fatto che gli stessi siano oggetto, a richiesta, di esame con il sindacato dovrebbe garantire in ordine alla loro oggettività.

In ogni caso, come si vede, la legge nulla dice in ordine ai criteri che possono essere concretamente adottati. A questo fine interviene peraltro la giurisprudenza, che ha elaborato una serie di principi ormai consolidati.

In primo luogo, si esclude che i criteri di scelta del personale da sospendere in CIG siano necessariamente gli stessi previsti esplicitamente dalla legge per la mobilità: infatti, i due istituti hanno finalità del tutto diverse, con conseguente impossibilità di applicare analogicamente all’uno le norme dell’altro.

E’ altrettanto pacifico che i criteri di scelta debbano essere oggettivi, razionali e coerenti con il motivo che ha causato la sospensione dal lavoro. Da questo punto di vista, la giurisprudenza ha individuato due limiti al potere del datore di lavoro di scegliere il personale da sospendere. Più precisamente, il datore di lavoro deve innanzi tutto rispettare limiti interni: ciò significa che il datore di lavoro, dopo aver chiesto l’intervento della CIG per una determinata causa (di crisi o di ristrutturazione o altro) deve applicare criteri che siano coerenti. Per esempio, se la CIGS si fonda sulla riorganizzazione di un determinato reparto, sarebbe illegittimo il criterio di scelta che comportasse la sospensione di un lavoratore non appartenente a quel reparto. Ciò potrebbe anche avvenire mediante trasferimenti mirati e precedenti al provvedimento di sospensione.

In secondo luogo, il datore di lavoro deve rispettare limiti esterni, derivanti dall'applicazione in concreto dei generali principi di correttezza e buona fede, nonché dal divieto di non discriminazione. Sotto questo profilo, sarebbero per esempio illegittimi i criteri che implicassero scelte e valutazioni di tipo soggettivo o che discriminassero i lavoratori – per esempio – in considerazione del sesso o dell’appartenenza sindacale.

Per poter beneficiare dell’intervento di integrazione salariale dispone che il datore di lavoro debba previamente informare ed, eventualmente, consultare il sindacato Per la concessione della Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria,la procedura di informazione è diversa a seconda dell'urgenza:

nel caso di eventi transitori e situazioni temporanee di mercato (la richiesta deve essere preventiva all’utilizzo);

nelle situazioni caratterizzate da urgenza o legate a “eventi oggettivamente non evitabili”. la richiesta può essere successiva all'utilizzo).

Per la concessione della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria e Deroga l'informazione sindacale deve sempre essere preventiva alla richiesta di concessione, nonché all'effettiva sospensione dei lavoratori. Tale comunicazione deve contenere le cause di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile dell’intervento e il numero dei lavoratori interessati nonché i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere e le modalità di rotazione, ovvero le ragioni tecnico-organizzative che hanno indotto il datore di lavoro nel caso ad escludere l’adozione del meccanismo della rotazione.



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