mercoledì 8 febbraio 2017

Riduzione contributi INPS forfettari: domanda entro il 28 febbraio 2017


La riduzione dei contributi previdenziali per i contribuenti forfettari è opzionale e accessibile solo su domanda. Domanda di riduzione contributi INPS agevolati regime forfettario in scadenza il prossimo 28 febbraio 2017.

Ai contribuenti forfettari spetta la riduzione dei contributi previdenziali nella misura del 35% sia per la contribuzione dovuta sul reddito entro il minimale, sia quella sul reddito eventualmente eccedente.

La riduzione tuttavia non è automatica ma ha carattere opzionale ed è accessibile esclusivamente a domanda.

Se l’importo complessivamente versato risulta inferiore all’importo ordinario della contribuzione dovuta sul minimale di reddito, verrà accreditato un numero di mesi proporzionale a quanto versato.
Per richiedere il regime previdenziale agevolato occorre presentare apposita dichiarazione con modalità telematiche, entro i seguenti termini:

- per chi esercita già un’attività entro il 28 febbraio con effetto dal 1 gennaio dell’anno in cui si presenta la domanda;

- per chi invece inizia una attività dal 1 gennaio 2016 la domanda deve essere presentata  attraverso la procedura telematizzata all’uopo predisposta con la massima tempestività rispetto alla data di ricezione della delibera di avvenuta iscrizione alla gestione previdenziale. (Circ. 35 del 19/2/2016).

 I contribuenti titolari di partita IVA nel regime forfettario che svolgono attività d’impresa possono fruire di due diversi regimi contributivi: il regime ordinario ed il regime agevolato. Per fruire del regime agevolato occorre comunicare all’INPS l’intenzione di versare i contributi previdenziali in misura ridotta, secondo le disposizioni contenute nella Legge di Stabilità 2016.

L’INPS è intervenuta sulla questione dei contributi previdenziali agevolati ridotti per i contribuenti titolari di partita IVA nel regime forfettario con il messaggio numero 286 dello scorso 25 gennaio 2016 e con la recente circolare numero 22 del 31 gennaio 2017.


Ecco chi può beneficiare dei contributi INPS ridotti per le partite IVA con il regime forfettario 2017 e come effettuare la comunicazione all’INPS.

Contributi INPS ridotti per partita IVA nel regime forfettario 2017: modalità di comunicazione
I contribuenti titolari di partita IVA nel regime forfettario che svolgono attività d’impresa possono accedere al regime dei contributi INPS ridotti del 35% previa comunicazione telematica all’INPS medesima.

L’INPS ha chiarito che la comunicazione riguarda anche i contribuenti che hanno deciso di aprire una partita IVA nel regime forfettario 2015.

Fino allo scorso anno la comunicazione per la riduzione dei contributi INPS per le partite IVA nel regime forfettario doveva essere ripetuta entro il 28 febbraio di ogni anno, anche al fine di confermare la permanenza dei requisiti previsti per operare con partita IVA in regime forfettario medesimo.

Per effetto di quanto previsto invece dalla circolare INPS numero 22 del 31 gennaio 2017, a partire da quest’anno valgono le seguenti disposizioni:

“Con riferimento alle modalità di accesso al regime contributivo agevolato, nel ricordare che la circolare n. 29/15 e la circolare n. 35/16 hanno chiarito la natura facoltativa dell’accesso, che avviene a fronte di apposita domanda presentata dall’interessato, che attesti di essere in possesso dei requisiti di legge, si precisa quanto segue.

Il regime in parola che, come noto, consiste nella riduzione contributiva del 35% (cfr. par. 1 circolare 35/2016), si applicherà nel 2017 ai soggetti già beneficiari del regime agevolato nel 2016 che, ove permangano i requisiti di agevolazione fiscale, non abbiano prodotto espressa rinuncia allo stesso.
I soggetti che hanno invece intrapreso nel 2016 una nuova attività d’impresa per la quale intendono beneficiare nel 2017 del regime agevolato devono comunicare la propria adesione entro il termine perentorio del 28 febbraio 2017.

I soggetti, infine, che intraprendono una nuova attività nel 2017, per la quale intendono aderire al regime agevolato, devono comunicare tale volontà con la massima tempestività rispetto alla ricezione del provvedimento d’iscrizione, in modo da consentire all’Istituto la corretta e tempestiva predisposizione della tariffazione annuale”

Tuttavia, occorre osservare come la circolare in questione contrasti parzialmente con quanto previsto dal comma 83 della Legge 190/2014 dove si afferma che la riduzione deve obbligatoriamente essere richiesta ogni anno. Torneremo su questo punto nei prossimi giorni.

Come fare domanda per riduzione contributi INPS regime forfettario agevolato 2017?

La domanda di riduzione contributi INPS agevolati dovrà essere effettuata mediante la compilazione e l’invio dell’apposito modulo presente nel “Cassetto Previdenziale per Artigiani e Commercianti”, disponibile online previo accesso con le credenziali personali dell’utente.

La comunicazione INPS per i contribuenti titolari di partita IVA nel regime forfettario 2017 che vogliono accedere ai contributi INPS ridotti deve essere compilata:

entro il 28 febbraio di ogni anno per i contribuenti già in attività che hanno aderito al regime forfettario e vogliano accedere alle agevolazioni contributive;

in sede di iscrizione alla gestione artigiani e commercianti per le nuove attività. In questo senso l’INPS ha chiarito che la comunicazione telematica deve essere trasmessa il prima possibile in modo da anticipare l’elaborazione contributiva annuale.

Qualora la comunicazione telematica all’INPS per i contributi ridotti del 35% sia trasmessa oltre il 28 febbraio (ovvero oltre l’inizio dell’elaborazione contributiva annuale per le nuove attività) l’anno di riduzione contributiva slitterà a quello in cui verrà fatta la comunicazione.

Agevolazione contributi INPS ridotti per partite IVA nel regime forfettario 2017: a chi spetta?

I contribuenti titolari di partita IVA nel regime forfettario 2017 che svolgono attività d’impresa possono fruire, a scelta, di due diversi regimi previdenziali INPS:

regime ordinario;

regime agevolato.

In sostanza la circolare Inps specifica che i contribuenti a partita Iva in regime forfettario già titolari del diritto a beneficiare della riduzione contributi Inps nel 2016 non dovranno produrre nuova comunicazione e quindi non sarà necessario inviare nuovamente la domanda entro il 28 febbraio 2017, poiché, salvo esplicita rinuncia, resta valida la comunicazione della volontà di pagare i contributi in regime agevolato, ovvero con aliquota al 35%.

Al contrario, la domanda di riduzione contributi Inps 2017 dovrà essere effettuata obbligatoriamente da tutti coloro che intendono aderire al regime contributivo agevolato per la prima volta nel 2017, cioè tutti i contribuenti che hanno aperto partita Iva in regime forfettario nel 2016, e per tutti i titolari di nuova partita Iva, ovvero esercenti attività d’impresa al 2017.

Per i contribuenti che aprono partita Iva nel 2017 la comunicazione di riduzione contributi Inps 2017 dovrà essere effettuata tempestivamente, ovvero in sede di iscrizione alla gestione artigiani e commercianti per le nuove attività di modo da consentire all’Inps l’elaborazione contributiva annuale.

martedì 7 febbraio 2017

Busta paga:i nuovi obblighi ai datori di lavoro



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente. Il pagamento dello stipendio potrà essere effettuato solo con versamento in banca o alle Poste e la firma sulla busta paga non costituirà più una prova dell’avvenuto pagamento.

Stipendi versati solo in banca o in posta e la firma sulla busta paga non costituirà prova dell'avvenuto pagamento. Sono queste le principali novità introdotte dal disegno di legge (c1041) recante "disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori".

In arrivo cambiamenti in tema di busta paga con il disegno di legge C1041 recante “Disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori” che vede come prima firmataria la Titti Di Salvo (Dem) e relatrice Valentina Paris (Pd) ed è attualmente all’esame della Commissione Lavoro della Camera in sede referente.

L’obiettivo principale del provvedimento è quello di evitare brogli sulle retribuzioni, andando a contrastare il fenomeno che affligge molti lavoratori ai quali i datori di lavoro corrispondono una retribuzione inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva, pur facendo firmare loro una busta paga nella quale risulti una retribuzione regolare, dietro minaccia di licenziamento o dimissioni in bianco.

Il Ddl prevede quindi che il versamento dello stipendio possa avvenire solo in banca o alla posta, eliminando al contempo la validità probatoria della firma apposta sulla busta paga per l’avvenuto pagamento della retribuzione. Il tutto senza caricare di nuovi oneri imprese e/o lavoratori, allo scopo è prevista, entro tre mesi dall’entrata in vigore della norma, la stipula di una convenzione tra il Governo, Associazione bancaria italiana e Poste italiane Spa per individuare gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori.

Sarà il lavoratore, al momento della firma del contratto, a decidere per il pagamento mediante:

accredito diretto sul proprio conto corrente;

emissione di un assegno da parte dell’istituto bancario o dell’ufficio postale, consegnato direttamente al lavoratore (o ad un delegato in caso di comprovato impedimento);

pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale.

I datori di lavoro o committenti non potranno più corrispondere la retribuzione per mezzo di assegni o di somme contanti di denaro, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

In fase di assunzione il datore di lavoro dovrà comunicare, al Centro per l’Impiego competente per territorio gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy. La comunicazione, per evitare di attribuire nuovi carichi burocratici ai datori di lavoro, sarà inserita nello stesso modulo che i datori di lavoro inviano obbligatoriamente al Centro per l’impiego in caso di nuove assunzioni. Per annullare l’ordine di pagamento il datore di lavoro dovrà trasmettere alla banca o alle Poste copia della lettera di licenziamento/dimissioni del lavoratore.

In caso di inadempimento sono previste sanzioni amministrative pecuniarie da 5mila a 50mila euro. Per la mancata comunicazione al Centro per l’Impiego è prevista una sanzione di 500 euro seguita da un accertamento della direzione provinciale del lavoro.

Sono esclusi da tali obblighi i datori di lavoro non titolari di partita IVA, i rapporti di lavoro domestico e familiare e i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini.

l provvedimento che si compone di 5 articoli introduce un semplice meccanismo che consiste nel rendere obbligatorio il pagamento delle retribuzioni ai lavoratori (nonché ogni anticipo), attraverso gli istituti bancari o gli uffici postali.

La scelta del sistema di pagamento è rimessa direttamente al lavoratore, il quale potrà optare per l'accredito diretto sul proprio conto corrente, per l'emissione di un assegno (consegnato direttamente al lavoratore o in caso di comprovato impedimento a un suo delegato) oppure per il pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale.

Viene vietato in sostanza ai datori di lavoro il pagamento della retribuzione a mezzo di assegni o contante qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

Si stabilisce, inoltre, che la firma della busta paga non costituisce prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione.

Il provvedimento fissa l'obbligo per il datore di lavoro, al momento dell'assunzione, di comunicare al centro per l'impiego competente gli estremi dell'istituto bancario o dell'ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy.

La comunicazione, per evitare di attribuire nuovi oneri burocratici ai datori, sarà inserita nello stesso modulo che gli stessi inviano obbligatoriamente al centro per l'impiego quando effettuano nuove assunzioni. La modulistica, quindi, dovrà essere opportunamente modificata (dai centri per l'impiego) entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge per permettere l'invio corretto della comunicazione anche in modalità telematica.

Allo stesso modo, l'ordine di pagamento potrà essere annullato soltanto trasmettendo alla banca o alle poste copia della lettera di licenziamento o delle dimissioni del lavoratore, rese secondo le modalità di legge, fermo restando l'obbligo di effettuare tutti i pagamenti dovuti al lavoratore dopo la risoluzione del rapporto di lavoro.

La convenzione - La proposta di legge prevede, inoltre, la stipula di una convenzione (entro tre mesi dall'entrata in vigore) tra il Governo e l'Associazione bancaria italiana e la società Poste italiane Spa che individua gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori, con l'importante previsione che ciò non deve determinare nuovi oneri né per le imprese nè per i lavoratori.

Le esclusioni - Il ddl esclude dagli obblighi introdotti i datori di lavoro che non sono titolari di partita Iva, i quali spesso non sono neanche titolari di un conto corrente. In ogni caso sono esclusi dalla pdl, i rapporti di lavoro domestico e familiare (nei quali i datori spesso sono persone anziane o disabili), così come i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini (ad es. per pulizia scale o manutenzione verde condominiale).

Le sanzioni - Sono, infine, previste pesanti sanzioni pecuniarie (da 5mila a 50mila euro) per i datori di lavoro che non ottemperano agli obblighi introdotti dalla legge. Chi non comunica al centro per l'impiego competente per territorio gli estremi dell'istituto bancario o dell'ufficio postale che effettuerà il pagamento delle retribuzioni è soggetto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di 500 euro e al successivo accertamento della direzione provinciale del lavoro, che procederà alle conseguenti verifiche.





lunedì 6 febbraio 2017

Parlamentari: pensione e vitalizi cosa può spettare se si vota nel 2018



E' il gruppo parlamentare di maggiore consistenza, in assoluto. Trasversale, sconosciuto agli atti e agli uffici di Camera e Senato, costituito nonostante il distacco formale dei suoi stessi componenti. Però sono 402 i deputati e 193 i senatori che ancora non hanno maturato la pensione da parlamentare.

Un tesoretto da quasi 20  milioni di euro. Sono i soldi che finirebbero a sorpresa nelle casse del Parlamento nel caso le Camere venissero sciolte prima del 15 settembre 2017. Fondi accantonati dai parlamentari al primo mandato, che potrebbero ritrovarsi presto senza poltrona e senza contributi versati.

Per molti il vitalizio per gli ex parlamentari, nato per garantire a chiunque l'ingresso in politica, anche ai meno abbienti, è sinonimo di rendita a vita, uno dei temi più controversi del nostro confronto politico. Come confermano le cronache, ogni volta che torna alla ribalta, le polemiche sono assicurate. L'ultima in ordine di tempo le l'ha scatenata un sms dell'ex premier Matteo Renzi inviato il 31 gennaio scorso a Giovanni Floris nel corso del programma Di Martedì: «Per me votare nel 2017 o nel 2018 è lo stesso. L'unica cosa è evitare che scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini. Sarebbe assurdo».

Un affondo dal sapore populista e “grillino”, che non è piaciuto a molti parlamentari, anche del Pd, compatti nel respingere il pressing del segretario dem per le elezioni anticipate. E se l'ex segretario dem Pierluigi Bersani sottolinea che «i vitalizi non ci sono più, esiste un regime Inps integrativo, punto e basta», Andrea Mazziotti (Civici e Innovatori) ricorda a Renzi che «se vuole colpire le pensioni dei parlamentari in carica», allora «basta un atto dell'ufficio di presidenza della Camera, nel quale il Pd ha la maggioranza».

Ma come stanno davvero le cose? Per capire se effettivamente la “guerra del vitalizio” rischia di determinare la durata della legislatura occorre chiarire alcuni aspetti. Innanzitutto, il termine “vitalizio” è scorretto: a partire dal 2012, la rendita vitalizia concessa agli onorevoli al termine del mandato parlamentare e dopo il superamento di una certa soglia d'età è stata abolita e sostituita da una pensione calcolata con il metodo contributivo, basata cioè esclusivamente sui contributi versati (mediamente molto inferiore agli assegni pre-riforma). Per questo, ogni parlamentare versa mensilmente al Fondo pensioni di Camera e Senato un contributo pari all'8,8% della propria indennità parlamentare lorda (poco meno di 800 euro), che si sommano a quanto versano le Camere per ciascun eletto (poco meno di 1.500 euro mensili).

I requisiti per l’accesso
Il diritto alla pensione dell'ex parlamentare scatta però non al termine della legislatura ma al compimento dei 65 anni di età e a condizione che abbia alle spalle almeno cinque anni di mandato parlamentare effettivo. In realtà, il minimo sono 4 anni sei mesi e un giorno da parlamentare, per evitare che la pensione salti in caso di “scioglimento tecnico” dei due rami prima dei 5 anni. Per ogni mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno fino al minimo inderogabile di 60 anni. Se si considera che la XVII legislatura è iniziata il 15 marzo 2013, la data da tener d'occhio è quindi quella del 15 settembre 2017. Uno scioglimento prima di questa data farebbe perdere infatti ai parlamentari il diritto alla pensione e tutti i contributi versati in questi anni (un tesoretto stimabile intorno ai 20 milioni di euro).

Per questo, l'appuntamento del 15 settembre dovrebbe interessare in particolare i parlamentari alla prima esperienza, che potrebbero essere tentati di “fare melina” sulle elezioni, cercando di far coincidere il voto con la scadenza naturale delle legislatura nel 2018. Anche perché, allo stato attuale, le loro possibilità di rielezione sono legate al “gradimento” del leader. I parlamentari al primo mandato sono molti: 438 su 630 deputati (69,5%) e 191 su 315 senatori (60,6%). Dunque una larga maggioranza trasversale, che pesca soprattutto tra i due partiti maggiori. L'incidenza dei “nuovi” sugli eletti passa infatti dal 100% del Movimento 5 Stelle, sia alla Camera che al Senato, al 69,44% (Camera) e 62,83% (Senato) degli onorevoli dem. Da un lato, questi numeri confermano la presenza di una “maggioranza silenziosa” in Parlamento potenzialmente favorevole alle elezioni nel 2018. Dall'altro, la sostituzione del vitalizio con una pensione e il fatto che per molti parlamentari questa si concretizzerà solo tra molti anni conferma che quella di Renzi era una provocazione (o una bufala). Tutto, pur di andare alle urne entro l'estate.

Non ci stanno, i 'pensionandi' di Camera e Senato, a passare per quelli che vogliono tirare per le lunghe la legislatura pur di incassare l'assegno a tempo debito. Assegno che, hanno sottolineato tutti, è su base contributiva come quello di tutti gli italiani. Con le nuove regole, che tra l'altro hanno abolito il vitalizio per i nuovi eletti, deputati e senatori riceveranno la pensione parlamentare al 65esimo anno di età solo se hanno completato i 5 anni di mandato.

Ecco, quindi, costituito il gruppo parlamentare dei 'pensionandi'. Quello che l'sms di Renzi ha implicitamente messo sotto accusa. Ma come è formato questo gruppo? A ricostruirlo è un dossier di 'Openpolis', che traccia un mappa di deputati e senatori che, sulla carta, dovrebbero avere interesse a far durare questa legislatura il più a lungo possibile.

Ogni mese deputati e senatori versano un contributo pari all’8,80 per cento dell’indennità parlamentare lorda, più o meno 750 euro. Soldi che vengono messi dal Parlamento in un fondo, in cui ovviamente confluiscono anche i contributi pagati da Camera e Senato (circa 1.400 euro al mese per ogni rappresentante). Ma se l’onorevole non dovesse arrivare ai fatidici 54 mesi e un giorno di mandato non avrebbe diritto a prendere un euro. Del resto funziona così anche per tutti gli altri lavoratori che, però, devono avere un minimo di 20 anni di contributi.

Le norme sono chiare. L’articolo 2 del regolamento per il trattamento previdenziale dei deputati, al comma 5, prevede che «per i contributi versati a decorrere dal 1° gennaio 2012 non è ammessa la restituzione». Dunque o i parlamentari al primo mandato saranno ancora in carica il 15 settembre del prossimo anno, oppure perderanno il diritto alla pensione da onorevoli e tutti i contributi versati.

Molti parlamentari sono in fibrillazione anche perché tra i 591 che rischiano di perdere i contributi versati ce ne sono parecchi che non verranno ricandidati. Dunque perderebbero l’occasione di avere una pensione da ex parlamentare. Non ricca come un tempo, in cui per un mandato si conquistavano tremila euro al mese, ma pur sempre una somma dignitosa (mille euro al mese). Alcuni deputati e senatori stanno ipotizzando, nel caso, di fare ricorso per chiedere la restituzione dei contributi ma sembra che i margini siano piuttosto ristretti.


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