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martedì 20 marzo 2018

Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato



Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.

Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.

Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.

Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.

Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.

Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.

I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.

Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.

Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.

I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.

Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.

Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.

Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.

Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.

Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti  manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.

Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.

Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.

Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.



martedì 21 novembre 2017

Lavoro. Whistleblowing è legge: tutelato il dipendente che denuncia illeciti



La legge sul whistleblowing, che reca disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, contiene numerose e importanti novità.

Soffiatore di fischietto, in inglese 'whistleblower', detto anche impropriamente gola profonda (deep throat), identifica un individuo che denuncia pubblicamente o riferisca alle autorità attività illecite o fraudolente. E' il protagonista della nuova legge, ovvero è un lavoratore che, nello svolgimento delle proprie mansioni in amministrazioni pubbliche o in un'azienda privata, si accorge di una frode, un rischio o una situazione di pericolo, che possa arrecare un danno e lo segnala.

Quindi il cosiddetto whistleblowing è la segnalazione di attività illecite da parte del dipendente che ne sia venuto a conoscenza per ragioni di lavoro ed  è uno strumento legale usato per segnalare all'autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all'Autorità nazionale anticorruzione o al responsabile nella propria azienda di un eventuale pericolo sul posto di lavoro, frode, danno ambientale, false comunicazioni sociali, illecite operazioni finanziarie, casi di corruzione, concussione o negligenza medica.

Dopo la segnalazione il lavoratore non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, sottoposto ad altre misure di ritorsione e sarà vietato rivelarne l'identità. Si prevede il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento e la nullità di ogni atto discriminatorio o ritorsivo. L'onere della prova è invertito. Spetterà cioè al datore di lavoro dimostrare che le misure sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione del dipendente.

L'eventuale adozione di misure discriminatorie va comunicata dall'interessato o dai sindacati all'Anac che a sua volta ne dà comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica e agli altri organismi di garanzia. In questi casi l’Anac può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del responsabile da 5.000 a 30.000 euro, fermi restando gli altri profili di responsabilità. Inoltre, l’Anac applica la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro a carico del responsabile che non svolga le attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. La misura della sanzione tiene conto delle dimensioni dell'amministrazione.

Spetta poi all'amministrazione l’onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente comunque sono nulli. Il segnalante licenziato ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno. Le tutele invece non sono garantite nel caso in cui, anche con sentenza di primo grado, sia stata accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque reati commessi con la denuncia del medesimo segnalante ovvero la sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave.

La nuova legge impone ai datori di lavoro di integrare e modificare i modelli organizzativi predisposti, ovvero dovranno individuare uno o più canali (di cui almeno uno di natura informatica) che consentano ai dipendenti di presentare, a tutela dell'integrità della società, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.

Ogni tutela salta nel caso di condanna del segnalante in sede penale (anche in primo grado) per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia o quando sia accertata la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave.



domenica 30 ottobre 2016

Lavorare con busta paga e Partita IVA



In alcune condizioni è possibile avere sia un lavoro dipendente o assimilato che una Partita IVA, questo significa ricevere sia una busta paga aziendale, sia redditi derivanti da lavoro autonomo. La scelta di avere un doppio reddito, da dipendente e da autonomo, può derivare ad esempio dalla necessità o dalla volontà di migliorare la propria condizione economica o anche semplicemente dalla possibilità di guadagnare degli extra facendo fruttare una propria passione o un proprio hobby.

Se si vuole intraprende questa strada, bisogna avere chiari alcuni passaggi:

versamento dei contributi INPS;

obblighi di comunicazione ai datori di lavoro;

cumulo dei redditi.

Il dipendente privato che decide di aprire una partita IVA, come ditta che sia individuale o società o come libero professionista, non deve trasgredire divieti inseriti nel contratto di lavoro. Anche per quanto riguarda la comunicazione con il proprio datore di lavoro, non esistono obblighi espliciti, potrebbe però essere comunque meglio comunicare tutte le eventuali informazioni, evitando così qualsiasi problematica.

Per quanto riguarda le regole previste dalla legge è importante ricordare l'art. 2015 del Codice Civile, che tratta l'obbligo di fedeltà da parte del lavoratore. Per questo motivo il lavoratore non può divulgare notizie riguardanti la propria azienda, o allo stesso tempo non può farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. In caso di violazione dell'obbligo di fedeltà il dipendente può essere licenziato ed inoltre è tenuto a risarcire il datore di lavoro dei danni subiti. La violazione dell’obbligo di fedeltà costituisce inadempimento contrattuale che dà luogo a responsabilità disciplinare e, nella maggior parte dei casi, integra la giusta causa di licenziamento. Il lavoratore è inoltre tenuto al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro (Cass. n. 6473/1993).

Infine per quanto riguarda contribuzione previdenziale INPS, per il dipendente a tempo indeterminato full time, che avvia un’attività d’impresa commerciale, non è necessaria l’iscrizione alla Gestione commercianti dell’INPS né il versamento di ulteriori contributi. Per un lavoratore dipendente che avvia un’attività da libero professionista, è previsto l’obbligo di iscriversi alla Gestione separata INPS versando il contributo proporzionale del 18%.

Un dipendente privato può aprire una partita IVA, come ditta individuale/società o come libero professionista, senza problemi di compatibilità, ovvero può aprire una propria attività conservando il proprio lavoro alle dipendenze di un’azienda privata a patto che non vi sia concorrenza tra lavoro svolto come dipendente e quello a partita IVA, se il contratto lo vieta espressamente. Se non vi è esplicito divieto non vi è alcun problema di coesistenza tra le due attività. In generale non vige alcun obbligo di comunicazione al datore di lavoro, anche se è generalmente conveniente informare l’azienda per non incorrere in problematiche che potrebbero portare ad un licenziamento per giusta causa.

Per quanto riguarda la contribuzione previdenziale INPS:

in caso di lavoratore dipendente a tempo indeterminato a tempo pieno (ovvero con almeno 26 ore lavorative settimanali) che avvia un’attività d’impresa commerciale, se è possibile qualificare il lavoro in azienda come prevalente sia in termini di tempo che in termini reddituali (reddito annuo come lavoratore dipendente maggiore del reddito derivante dall'attività commerciale), non è necessaria l’iscrizione alla Gestione commercianti dell’INPS né il versamento di ulteriori contributi.

Una volta avviata l’attività l’INPS invierà al lavoratore comunque una comunicazione in merito all'iscrizione del soggetto alla Gestione commercianti, tuttavia sarà sufficiente rispondere spiegando i motivi che prevedono la cancellazione dell’iscrizione e provando l’esistenza del rapporto di lavoro dipendente allegando una copia dell’ultima busta paga percepita.

Nel caso di lavoratore dipendente che avvia un’attività da libero professionista, è previsto l’obbligo di iscriversi alla Gestione separata INPS versando il contributo proporzionale del 18%;

in caso di contratto di lavoro a tempo determinato bisogna valutare se complessivamente nel corso dell’anno il periodo trascorso come lavoratore dipendente può essere o meno considerato prevalente rispetto all'attività commerciale esercitata.




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