Visualizzazione post con etichetta legge. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta legge. Mostra tutti i post

martedì 21 novembre 2017

Lavoro. Whistleblowing è legge: tutelato il dipendente che denuncia illeciti



La legge sul whistleblowing, che reca disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, contiene numerose e importanti novità.

Soffiatore di fischietto, in inglese 'whistleblower', detto anche impropriamente gola profonda (deep throat), identifica un individuo che denuncia pubblicamente o riferisca alle autorità attività illecite o fraudolente. E' il protagonista della nuova legge, ovvero è un lavoratore che, nello svolgimento delle proprie mansioni in amministrazioni pubbliche o in un'azienda privata, si accorge di una frode, un rischio o una situazione di pericolo, che possa arrecare un danno e lo segnala.

Quindi il cosiddetto whistleblowing è la segnalazione di attività illecite da parte del dipendente che ne sia venuto a conoscenza per ragioni di lavoro ed  è uno strumento legale usato per segnalare all'autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all'Autorità nazionale anticorruzione o al responsabile nella propria azienda di un eventuale pericolo sul posto di lavoro, frode, danno ambientale, false comunicazioni sociali, illecite operazioni finanziarie, casi di corruzione, concussione o negligenza medica.

Dopo la segnalazione il lavoratore non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, sottoposto ad altre misure di ritorsione e sarà vietato rivelarne l'identità. Si prevede il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento e la nullità di ogni atto discriminatorio o ritorsivo. L'onere della prova è invertito. Spetterà cioè al datore di lavoro dimostrare che le misure sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione del dipendente.

L'eventuale adozione di misure discriminatorie va comunicata dall'interessato o dai sindacati all'Anac che a sua volta ne dà comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica e agli altri organismi di garanzia. In questi casi l’Anac può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del responsabile da 5.000 a 30.000 euro, fermi restando gli altri profili di responsabilità. Inoltre, l’Anac applica la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro a carico del responsabile che non svolga le attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. La misura della sanzione tiene conto delle dimensioni dell'amministrazione.

Spetta poi all'amministrazione l’onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente comunque sono nulli. Il segnalante licenziato ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno. Le tutele invece non sono garantite nel caso in cui, anche con sentenza di primo grado, sia stata accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque reati commessi con la denuncia del medesimo segnalante ovvero la sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave.

La nuova legge impone ai datori di lavoro di integrare e modificare i modelli organizzativi predisposti, ovvero dovranno individuare uno o più canali (di cui almeno uno di natura informatica) che consentano ai dipendenti di presentare, a tutela dell'integrità della società, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.

Ogni tutela salta nel caso di condanna del segnalante in sede penale (anche in primo grado) per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia o quando sia accertata la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave.



domenica 6 novembre 2016

La malattia insorta durante le ferie ecco quando si possono sospendere



Una visita fiscale può determinare la sospensione delle ferie qualora il medico verifichi che la malattia o la patologia della quale si soffre non permette la fruizione del periodo di vacanza. Tale questione degli effetti della malattia intervenuta nel periodo di ferie è stata oggetto di un ampio dibattito in giurisprudenza. Il contrasto si può però oggi definire risolto per effetto della pubblicazione della sentenza 616/87 della Corte Costituzionale che ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 2109 c.c. nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante le ferie ne sospenda il decorso".

Il ragionamento della Corte è il seguente: la Costituzione pone il principio dell'irrinunciabilità delle ferie, che comporta la conseguente necessità di fruire effettivamente delle ferie stesse. Da ciò discende quindi il diritto del lavoratore ad un congruo periodo di riposo, al fine di ritemprare le energie psico-fisiche usurate dal lavoro, nonché di soddisfare le sue esigenze ricreative-culturali e più incisivamente partecipare alla vita familiare e sociale. Lo stesso datore di lavoro è interessato a che effettivamente avvenga il recupero delle energie del lavoratore, affinché il suo successivo apporto all'impresa sia più proficuo di risultati. Le finalità che si intendono perseguire sono certamente frustrate dall'insorgere della malattia durante il periodo di ferie. Quindi l'insorgenza di una malattia nel corso delle ferie ne determini la sospensione; le ferie riprenderanno a decorrere solo a guarigione raggiunta, e il lavoratore avrà diritto a un nuovo periodo di ferie di durata equivalente a quella perduta per effetto della malattia.

A tal fine è peraltro indispensabile che il lavoratore, ammalatosi durante le vacanze, si munisca immediatamente di un certificato medico che attesti il suo stato di malattia e che copia di questo certificato venga spedito a mezzo lettera raccomandata al datore di lavoro e alla USL di competenza entro due giorni dall'insorgenza della malattia. Solo così facendo si ha poi diritto di richiedere di godere del periodo di ferie perduto a causa della malattia.

Se dunque il principio generale è questo, risulta pacifico che la malattia sospende le ferie, salvo il caso in cui la malattia stessa non sia tale da pregiudicare la fruizione delle ferie, che è quella di consentire il recupero delle energie psico-fisiche attraverso il riposo e la ricreazione. Interpretata in tal modo la norma, appare nulla ogni clausola contrattuale che consenta la sospensione solo in caso di ricovero ospedaliero, in quanto pone una limitazione non consentita.

Si tenga presente, infine, che il lavoratore che si trovi in malattia  nel corso delle ferie non è tenuto a fare rientro presso il proprio domicilio per poter invocare la sospensione delle ferie stesse. Infatti, il periodo di malattia può essere trascorso anche in un luogo diverso dalla propria abitazione, e dunque anche in una località di villeggiatura, a condizione che di ciò venga data immediata notizia, tramite le opportune indicazioni da apporsi sul certificato di malattia, all’Istituto Previdenziale, che deve sempre avere la possibilità di valutare le effettive condizioni di salute del lavoratore.

Quindi sintetizzando vediamo quando le ferie si possono sospendere:

La Corte Costituzionale ha chiarito che si determina una sospensione del periodo di ferie e che ciò può accadere in forza del fatto che la funzione di relax e distrazione tipica delle agognate “vacanze” potrebbe essere pregiudicata dalla presenza di una determinata patologia. Naturalmente è necessario valutare caso per caso, in ragione della compatibilità della malattia con le ferie stesse.

E’ stato deciso in sede ministeriale di dover applicare il principio della prevalenza delle improcrastinabili esigenze di assistenza e di tutela del diritto del disabile. Ha dunque stabilito che anche l’assistenza al disabile congiunto, da parte del lavoratore, sospende la fruizione delle ferie programmate.

Se però la malattia insorge prima dell’inizio delle ferie, essa non dà luogo al decorso delle ferie.
Nel caso in cui il lavoratore entri in ferie quando è già ammalato – cioè se la malattia è insorta prima – essa allora non permette il decorrere delle ferie stesse.

Il lavoratore in ferie che si ammali deve sottoporsi quanto più tempestivamente possibile alla visita fiscale, al fine di certificare in maniera “ufficiale” il proprio stato di malattia. Se il proprio medico curante non ha rilasciato certificazione telematica della visita effettuata, per ottenere la visita fiscale il lavoratore dovrà inviare all’INPS il certificato stesso corredato dall’indirizzo presso cui egli è reperibile e ove sono effettuabili le visite. Questo è un passaggio fondamentale, perché qualora non si invii la comunicazione, il diritto al recupero delle ferie non godute a causa della malattia è escluso.

Più che per la durata della malattia stessa le ferie possono essere sospese dalla presenza di una patologia, in forza dell’incidenza che tale patologia ha sull’essenziale funzione di riposo che sarebbe propria del periodo di ferie retribuite, il criterio della durata della prognosi sarebbe dunque secondario.

Il datore ha la possibilità di dimostrare che la malattia non pregiudica in alcun modo la finalità delle ferie. In questo caso esse non saranno sospese. Al fine di dimostrare questa condizione il datore dovrà operare naturalmente attraverso i controlli fiscali operati dalle strutture pubbliche; nella richiesta di visita all’INPS e alla ASL, il datore di lavoro deve precisare che il controllo è mirato a verificare se lo stato di malattia è tale da consentire la sospensione delle ferie.

L’effetto sospensivo si produce a partire dal momento in cui il datore di lavoro viene a conoscenza della malattia.

Come è noto il datore di lavoro può decidere di definire delle ferie collettive – delle giornate di chiusura dell’azienda – che rendono al lavoratore obbligatorio prendere un periodo specifico di vacanza (ad esempio le due settimane centrali di agosto). Qualora in quel periodo di chiusura il lavoratore entri in ferie, allora l’effetto sospensivo delle ferie ha luogo ugualmente e il lavoratore potrà fruire del periodo di ferie annuali a lui spettanti in un periodo successivo e diverso, previo opportuno accordo con il datore di lavoro, pur avendo fruito di fatto delle ferie obbligatorie.




giovedì 1 settembre 2016

Lavoratore dequalificato: rivendicazioni, danni e nuove mansioni



La legge stabilisce che il lavoratore deve essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero comunque a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,, senza alcuna diminuzione delle retribuzione. Ciò significa che il lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori e l'eventuale comportamento contrario del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro per ottenere l'accertamento giudiziale dell'intervenuta dequalificazione e la conseguente riassegnazione a mansioni adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.

Ovvero chi ritiene di essere utilizzato in modo improprio, in violazione della legge, mediante assegnazione a mansioni che effettivamente siano di contenuto professionale inferiore a quelle precedentemente svolte, può rivolgersi, anche a mezzo di procedura d'urgenza, all'autorità giudiziaria.

Costituisce poi un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza il fatto che un demansionamento o una dequalificazione protratta nel tempo si riflette sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo valore sul mercato del lavoro e gli determina dei danni, che sono stati ripetutamente ritenuti risarcibile dalla legge.

Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:

il danno patrimoniale (o professionale);

il danno biologico;

il danno esistenziale;

Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.

Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.

Nella maggior parte dei casi è stato riconosciuto un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi poi è stato ritenuto che il protratto demansionamento, traducendosi anche in una sofferenza fisicopsichica, può aver prodotto danni alla salute del dipendente, e nel caso di prova rigorosa del nesso di causalità tra comportamento illegittimo del datore di lavoro e malattia - da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica - è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico.

Il lavoratore non ha solo il dovere di svolgere le mansioni di sua competenza, ma anche un vero e proprio diritto di essere messo nelle condizioni di svolgere tali mansioni. Conseguentemente, l’eventuale assegnazione di compiti non attinenti alla sua professionalità, ovvero lo svuotamento delle mansioni da ultimo svolte, costituiscono comportamenti senza dubbio illegittimi.

In tali casi il lavoratore subisce un danno che investe la sfera della sua professionalità, diminuendo progressivamente l’insieme delle sue conoscenze teoriche e delle capacità tecnico-professionali con un conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato. La perdita di competenze professionali, inoltre, compromette anche il valore complessivo del dipendente nel mercato del lavoro. Quindi il lavoratore ingiustamente privato del proprio lavoro, o che si veda costretto a svolgere un lavoro non pertinente con il suo inquadramento e con la sua professionalità, ha diritto al risarcimento del danno subito; risarcimento che, peraltro, risulta non sempre facile da quantificare, e che comunque si dimostra spesso inidoneo a compensare il pregiudizio subito dal lavoratore.

Ne consegue, dunque, che in tale ipotesi il lavoratore ha diritto innanzitutto di essere reintegrato in mansioni compatibili con la propria effettiva professionalità. In secondo luogo, il prestatore di lavoro ha diritto al risarcimento del danno patito che può essere quantificato in via equitativa utilizzando come parametro la retribuzione mensile del lavoratore, o quanto mento una quota significativa della stessa, per tutto il periodo della dequalificazione.

E’ onere del lavoratore fornire la prova del pregiudizio alla professionalità. Il danno professionale, quindi, non sarebbe più, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza, peraltro maggioritaria, implicito alla dequalificazione, ma dovrebbe essere provato con specifici fatti ed allegazioni.

E’ bene ricordare che il datore di lavoro può sempre modificare le mansioni del lavoratore, a condizione però che si tratti di mansioni superiori o almeno equivalenti. A tale riguardo, va anche precisato che l'equivalenza della mansione non ricorre necessariamente tra due mansioni di pari livello ; infatti, due mansioni, per essere equivalenti, devono appartenere al medesimo ambito di professionalità: così, sarebbe dequalificante adibire un lavoratore tecnico a mansioni di tipo amministrativo, anche se le due mansioni appartenessero al medesimo livello di inquadramento. può accadere che il datore di lavoro non cambi radicalmente la mansione del proprio dipendente, ma si limiti ad aggiungere una mansione nuova e dequalificante rispetto a quella che veniva precedentemente svolta. In questo caso, si parla di mansioni promiscue.

Il lavoratore non è tenuto a svolgere le mansioni dequalificanti che gli venissero richieste, in quanto si tratterebbe di un ordine illegittimo. Tuttavia, bisogna avvertire che il rifiuto di cui si parla è legittimo a condizione che il lavoratore rispetti il generale principio della buona fede : in altri termini, il lavoratore, che rifiuti lo svolgimento della nuova mansione dequalificante, esplicitamente deve offrire la propria disponibilità ad eseguire la mansione precedente. Si osservi inoltre che la Suprema Corte ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori in modo occasionale o per un periodo meramente transitorio integra un grave inadempimento che può legittimarne il licenziamento da parte del datore di lavoro.

Sussiste dunque nel nostro ordinamento un divieto di variazione in peius, divieto che si ispira al principio di tutela della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, la quale pertanto non deve essere “dispersa”. Secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui una mansione si sia “esaurita” e non sia stata affidata alla esecuzione di altro lavoratore, ugualmente può sussistere un demansionamento ove le mansioni affidate siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Ogni ipotesi di dequalifica va infatti sempre concordata tra le parti del rapporto di lavoro (nei limitati casi in cui è ammessa). Al riguardo occorrerà vedere se tali principi verranno confermati anche in base alla nuova normativa.

Va anche detto che, quand'anche venisse adottata questa precauzione, il lavoratore non sarebbe al riparo da ogni inconveniente. Infatti, non è da escludersi che il datore di lavoro, a fronte del rifiuto, licenzi il lavoratore. Ebbene, la giurisprudenza subordina la dichiarazione di illegittimità di un simile licenziamento al preventivo accertamento che la mansione rifiutata dal lavoratore fosse realmente dequalificante. In caso contrario, il licenziamento sarebbe legittimo.

Si capisce dunque il rischio cui un lavoratore andrebbe incontro qualora rifiutasse di eseguire la nuova mansione ritenuta dequalificante. In primo luogo, la valutazione, compiuta dal lavoratore interessato in ordine alla ricorrenza della dequalificazione, potrebbe essere inesatta. In secondo luogo, quand'anche tale valutazione fosse corretta, il lavoratore correrebbe pur sempre il rischio di non riuscire a provare, davanti al giudice, di aver effettivamente subito una dequalificazione. Pertanto, in simili casi, il lavoratore perderebbe, oltre alla mansione originaria, anche il posto di lavoro.

Per non incorrere in rischi così gravi, è dunque preferibile che il lavoratore, pur manifestando il proprio dissenso in ordine alla assegnazione della nuova mansione, esegua l'ordine impartito dal datore di lavoro, provvedendo al più presto a far accertare in sede giudiziaria la dequalificazione subita. Solo in presenza di una condanna, nei confronti del datore di lavoro, ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, e a fronte dell'inottemperanza da parte del datore di lavoro, il lavoratore può rifiutare la mansione dequalificante senza incorrere nei rischi sopra indicati.

E’ possibile derogare a il diritto del lavoratore al fine di tutelarne uno superiore, quale ad esempio quello alla conservazione del posto di lavoro. In sostanza, secondo tale orientamento, la dequalificazione del lavoratore è legittima quando costituisce l’unica alternativa al licenziamento; in questo caso, l’attribuzione di mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale, e comunque indipendentemente dal consenso del lavoratore. A sostegno di tale tesi viene invocata anche una norma di legge che, nell’ambito della procedura che regola il licenziamento collettivo, autorizza il sindacato a firmare accordi che prevedano il riassorbimento di lavoratori ritenuti eccedenti dall’azienda anche in mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle dagli stessi svolte in precedenza.



martedì 1 ottobre 2013

Occupazione giovanile: lavoro, contratti e regole



La legge del Governo Letta, oltre agli incentivi per il lavoro, prevede molti altri provvedimenti significativi.

I datori di lavoro che entro il 30 giugno 2015 assumano, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, dipendenti di età tra i 18 e i 29 anni, che non hanno un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi o privi di un diploma di scuola media superiore o professionale, avranno diritto per 18 mesi a un contributo pari a un terzo della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali. Questa somma non potrà superare i 650 euro. Lo stesso incentivo è previsto, per un periodo di 12 mesi, per chi trasforma un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato. A patto che l'imprenditore assuma, entro un mese, un altro lavoratore. Se invece decide, senza esservi tenuto, di stabilizzare un disoccupato che percepisce l'Aspi (l'indennità specifica), riceverà un contributo pari al 50% dell'indennità mensile residua. Per il finanziamento dell'incentivo sono previste risorse statali pari a 500 milioni per le regioni del Sud e a 294 per le altre, nonché possibili finanziamenti da parte delle Regioni stesse. Previste norme anche per la stabilizzazione degli associati in partecipazione con apporto di lavoro. Mentre cresce la dote per la liquidazione dei debiti della Pubblica amministrazione, che si spera invogli gli imprenditori ad assumere: altri 20-25 miliardi in arrivo.

Sarà più semplice mettere su un’ azienda . Per costituire una società a responsabilità limitata, basterà un euro, e i soci fondatori non dovranno per forza avere meno di 35 anni. Si estendono anche al 2016 le agevolazioni fiscali previste per il 2013-2015 in favore di persone fisiche e giuridiche che vogliano investire nel capitale sociale di imprese innovative, e si diminuisce dal 20 al 15% la quota della spesa da destinare ad attività di ricerca e sviluppo. Il fondo per promuovere l'autoimpiego nel Mezzogiorno è finanziato con 80 milioni, e altri 80 milioni ai progetti del piano azione coesione.

La legge sul lavoro prevede l'adozione di linee-guida per l'apprendimento professionalizzante, che dovranno essere adottate entro il 30 settembre dalla conferenza Stato-Regioni. Un milione di euro andrà al Fondo «mille giovani per la cultura» destinato alla promozione di tirocini formativi e orientamento nei settori delle attività e dei servizi per cultura destinati ai giovani fino ai 29 anni. E vengono stanziati 10 milioni per l'alternanza scuola-lavoro, che permette ai ragazzi di passare alcuni giorni negli uffici o nelle officine, a imparare un mestiere. Stanziati 168 milioni per borse di tirocinio per giovani del Sud.

Sono ridotti i tempi tra un contratto a termine e l'altro: da 60 a 10 giorni per i contratti fino a sei mesi e da 90 a 20 giorni per i più lunghi. Senza la pausa, scatta la conversione a tempo indeterminato. Viene estesa la possibilità di fare contratti senza causale, ed eliminato il divieto di proroga del primo contratto a termine casuale. Il contratto a progetto è ampliato: se l'attività di ricerca scientifica si prolunga, il progetto prosegue. Fissato invece un limite massimo di chiamata per i lavori intermittenti: 400 giornate di lavoro effettivo in tre anni.


venerdì 11 gennaio 2013

Emergenza lavoro in area Euro: idea salario minimo europeo


Jean Claude Juncker: «Lavoro, sì al salario minimo europeo». La situazione della disoccupazione "è drammatica, avevamo detto che l'euro avrebbe riequilibrato la società e invece la disoccupazione aumenta" ha detto il presidente dell'Eurogruppo Juncker al Parlamento Ue. "Nell'area euro - ha continuato - supera l'11%, e non ce lo possiamo permettere. E' una tragedia che stiamo sottovalutando". Per questo, ha aggiunto, "dobbiamo realizzare politiche più attive per il mercato del lavoro".

Serve salario minimo su tutta l'Eurozona. "Bisogna ritrovare la dimensione sociale dell'unione economica e monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemmo credibilità' e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx.".

Ha quindi lanciato un appello affinché si ritrovi "la dimensione sociale dell'unione economica e monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemmo credibilità e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx". Infine ha annunciato che sarà una donna francese a dirigere il meccanismo unico di sorveglianza sulle banche europee.

Il salario minimo è una soglia di paga base oraria che i datori di lavoro devono corrispondere a impiegati e operari. Ha fatto il suo esordio in Australia e Nuova Zelanda, ma in Europa non esiste una legislazione comune sul tema. In Francia, c'è lo "Smic", introdotto nel 1950, e che ora viene calcolato in base a un mix tra potere d'acquisto e altri fattori (nel 2010 vale circa 1.343 euro lordi al mese). In Spagna il salario minimo è disciplinato nello statuto dei lavoratori. Il salario minimo è previsto per legge in molti altri Paesi. Mentre altri Stati, come i paesi scandinavi, Germania, Italia, Austria e Cipro, non hanno un salario minimo imposto per legge, ma delegano alla contrattazione fra le parti sociali tale decisione.

"'La discussione sul Salario Minimo per Legge a livello Europeo quale strumento necessario per tutelare meglio i redditi dei lavoratori , contrastare le diseguaglianze ed introdurre maggiori elementi di equita' dovrebbe uscire dal solito schema polemico o di contrapposizione e guardare invece al merito ed ai contenuti delle scelte proposte e indicate''. Lo ha dichiarato in una nota il Segretario Confederale Cisl, Luigi Sbarra.

 
''L' Italia è uno dei pochi paesi europei a non avere un salario minimo di legge. Ma lo è a ragione - spiega Sbarra -, in virtù di una forte copertura contrattuale esercitata attraverso i contratti nazionali di
categoria , circa 500 , che coprono praticamente tutti i settori del lavoro presenti nel paese. Anche se non esiste un erga omnes di legge di fatto i CCNL vengono applicati a tutti i lavoratori. Il nostro sistema di minimi salariali definito dai contratti nazionali di lavoro si colloca ad un livello più elevato di retribuzione e di maggiore tutele del potere di acquisto dei redditi dei lavoratori, rispetto alla media dei minimi salariali definiti per legge nei paesi europei''.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
BlogItalia - La directory italiana dei blog