La legge stabilisce che il lavoratore deve essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero comunque a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,, senza alcuna diminuzione delle retribuzione. Ciò significa che il lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori e l'eventuale comportamento contrario del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro per ottenere l'accertamento giudiziale dell'intervenuta dequalificazione e la conseguente riassegnazione a mansioni adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.
Ovvero chi ritiene di essere utilizzato in modo improprio, in violazione della legge, mediante assegnazione a mansioni che effettivamente siano di contenuto professionale inferiore a quelle precedentemente svolte, può rivolgersi, anche a mezzo di procedura d'urgenza, all'autorità giudiziaria.
Costituisce poi un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza il fatto che un
demansionamento o una dequalificazione protratta nel tempo si riflette sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo valore sul mercato del lavoro e gli determina dei danni, che sono stati ripetutamente ritenuti risarcibile dalla legge.
Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:
il danno patrimoniale (o professionale);
il danno biologico;
il danno esistenziale;
Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.
Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.
Nella maggior parte dei casi è stato riconosciuto un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi poi è stato ritenuto che il protratto demansionamento, traducendosi anche in una sofferenza fisicopsichica, può aver prodotto danni alla salute del dipendente, e nel caso di prova rigorosa del nesso di causalità tra comportamento illegittimo del datore di lavoro e malattia - da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica - è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico.
Il lavoratore non ha solo il dovere di svolgere le mansioni di sua competenza, ma anche un vero e proprio diritto di essere messo nelle condizioni di svolgere tali mansioni. Conseguentemente, l’eventuale assegnazione di compiti non attinenti alla sua professionalità, ovvero lo svuotamento delle mansioni da ultimo svolte, costituiscono comportamenti senza dubbio illegittimi.
In tali casi il lavoratore subisce un danno che investe la sfera della sua professionalità, diminuendo progressivamente l’insieme delle sue conoscenze teoriche e delle capacità tecnico-professionali con un conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato. La perdita di competenze professionali, inoltre, compromette anche il valore complessivo del dipendente nel mercato del lavoro. Quindi il lavoratore ingiustamente privato del proprio lavoro, o che si veda costretto a svolgere un lavoro non pertinente con il suo inquadramento e con la sua professionalità, ha diritto al risarcimento del danno subito; risarcimento che, peraltro, risulta non sempre facile da quantificare, e che comunque si dimostra spesso inidoneo a compensare il pregiudizio subito dal lavoratore.
Ne consegue, dunque, che in tale ipotesi il lavoratore ha diritto innanzitutto di essere reintegrato in mansioni compatibili con la propria effettiva professionalità. In secondo luogo, il prestatore di lavoro ha diritto al risarcimento del danno patito che può essere quantificato in via equitativa utilizzando come parametro la retribuzione mensile del lavoratore, o quanto mento una quota significativa della stessa, per tutto il periodo della dequalificazione.
E’ onere del lavoratore fornire la prova del pregiudizio alla professionalità. Il danno professionale, quindi, non sarebbe più, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza, peraltro maggioritaria, implicito alla dequalificazione, ma dovrebbe essere provato con specifici fatti ed allegazioni.
E’ bene ricordare che il datore di lavoro può sempre modificare le mansioni del lavoratore, a condizione però che si tratti di mansioni superiori o almeno equivalenti. A tale riguardo, va anche precisato che l'equivalenza della mansione non ricorre necessariamente tra due mansioni di pari livello ; infatti, due mansioni, per essere equivalenti, devono appartenere al medesimo ambito di professionalità: così, sarebbe dequalificante adibire un lavoratore tecnico a mansioni di tipo amministrativo, anche se le due mansioni appartenessero al medesimo livello di inquadramento. può accadere che il datore di lavoro non cambi radicalmente la mansione del proprio dipendente, ma si limiti ad aggiungere una mansione nuova e dequalificante rispetto a quella che veniva precedentemente svolta. In questo caso, si parla di mansioni promiscue.
Il lavoratore non è tenuto a svolgere le mansioni dequalificanti che gli venissero richieste, in quanto si tratterebbe di un ordine illegittimo. Tuttavia, bisogna avvertire che il rifiuto di cui si parla è legittimo a condizione che il lavoratore rispetti il generale principio della buona fede : in altri termini, il lavoratore, che rifiuti lo svolgimento della nuova mansione dequalificante, esplicitamente deve offrire la propria disponibilità ad eseguire la mansione precedente. Si osservi inoltre che la Suprema Corte ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori in modo occasionale o per un periodo meramente transitorio integra un grave inadempimento che può legittimarne il licenziamento da parte del datore di lavoro.
Sussiste dunque nel nostro ordinamento un divieto di variazione in peius, divieto che si ispira al principio di tutela della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, la quale pertanto non deve essere “dispersa”. Secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui una mansione si sia “esaurita” e non sia stata affidata alla esecuzione di altro lavoratore, ugualmente può sussistere un demansionamento ove le mansioni affidate siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Ogni ipotesi di dequalifica va infatti sempre concordata tra le parti del rapporto di lavoro (nei limitati casi in cui è ammessa). Al riguardo occorrerà vedere se tali principi verranno confermati anche in base alla nuova normativa.
Va anche detto che, quand'anche venisse adottata questa precauzione, il lavoratore non sarebbe al riparo da ogni inconveniente. Infatti, non è da escludersi che il datore di lavoro, a fronte del rifiuto, licenzi il lavoratore. Ebbene, la giurisprudenza subordina la dichiarazione di illegittimità di un simile licenziamento al preventivo accertamento che la mansione rifiutata dal lavoratore fosse realmente dequalificante. In caso contrario, il licenziamento sarebbe legittimo.
Si capisce dunque il rischio cui un lavoratore andrebbe incontro qualora rifiutasse di eseguire la nuova mansione ritenuta dequalificante. In primo luogo, la valutazione, compiuta dal lavoratore interessato in ordine alla ricorrenza della dequalificazione, potrebbe essere inesatta. In secondo luogo, quand'anche tale valutazione fosse corretta, il lavoratore correrebbe pur sempre il rischio di non riuscire a provare, davanti al giudice, di aver effettivamente subito una dequalificazione. Pertanto, in simili casi, il lavoratore perderebbe, oltre alla mansione originaria, anche il posto di lavoro.
Per non incorrere in rischi così gravi, è dunque preferibile che il lavoratore, pur manifestando il proprio dissenso in ordine alla assegnazione della nuova mansione, esegua l'ordine impartito dal datore di lavoro, provvedendo al più presto a far accertare in sede giudiziaria la dequalificazione subita. Solo in presenza di una condanna, nei confronti del datore di lavoro, ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, e a fronte dell'inottemperanza da parte del datore di lavoro, il lavoratore può rifiutare la mansione dequalificante senza incorrere nei rischi sopra indicati.
E’ possibile derogare a il diritto del lavoratore al fine di tutelarne uno superiore, quale ad esempio quello alla conservazione del posto di lavoro. In sostanza, secondo tale orientamento, la dequalificazione del lavoratore è legittima quando costituisce l’unica alternativa al licenziamento; in questo caso, l’attribuzione di mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale, e comunque indipendentemente dal consenso del lavoratore. A sostegno di tale tesi viene invocata anche una norma di legge che, nell’ambito della procedura che regola il licenziamento collettivo, autorizza il sindacato a firmare accordi che prevedano il riassorbimento di lavoratori ritenuti eccedenti dall’azienda anche in mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle dagli stessi svolte in precedenza.