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sabato 8 novembre 2014

Associazione in partecipazione quando è richiesta la forma scritta del contratto di lavoro



La stipulazione del contratto di associazione in partecipazione non è soggetta a forme particolari e non è prevista pertanto la forma scritta.

Per il versamento dei contributi i gli associati devono iscriversi alla Gestione Separata Inps.
La contribuzione è posta per 55% a carico dell’associante e per 45% a carico dell’associato. Le aliquote per l’anno 2014 sono:

- 22% per i soggetti iscritti anche ad altra gestione
- 28,72% per i soggetti privi di altra copertura previdenziale.

E’ prevista una nuova procedura finalizzata alla stabilizzazione degli associati.

Accordo tra datore di lavoro e sindacati. Vengono trasformati in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di apprendistato.

La procedura si concluderà il 31.07.2014 presso INPS

L’associazione in partecipazione è un contratto che lega un imprenditore (detto “associante”) con uno o più lavoratori (detti “associati”) con il quale questi si impegnano a fornire la loro attività lavorativa all’interno dell’impresa, ricevendo (al posto di uno stipendio, come invece generalmente accade nei rapporti di lavoro) come retribuzione il diritto di ottenere una parte degli utili della ditta. Va detto, per completezza, che il contributo degli associati può anche non consistere in un’attività lavorativa, come ad esempio quando si fornisce della strumentazione o delle somme di denaro a titolo di capitale Il lavoratore-associato si assume in questo caso una parte del c.d. rischio di impresa, ovverosia il rischio che l’imprenditore affronta e che consiste nella possibilità che l’attività non produca utili.

Nel caso in cui il contributo dell’associato sia una prestazione di lavoro la legge stabilisce limiti molto precisi. In queste ipotesi, infatti, l’associazione in partecipazione potrebbe essere utilizzata per aggirare le norme che tutelano il lavoro subordinato. Il codice civile quindi stabilisce in questo caso che il numero degli associati in partecipazione non può essere superiore a tre, anche nell’ipotesi in cui gli imprenditori-associanti siano più di uno. Questo limite non vale quando i lavoratori sono legati all’associante da un rapporto:

coniugale (ovverosia quando sono il marito o la moglie dell’associante);

di parentela fino al terzo grado;

di affinità fino al secondo grado (l’affinità è il rapporto che lega una persona ai parenti della propria moglie o del proprio marito).

Se il limite numerico viene violato allora il rapporto con i lavoratori-associati viene considerato a tutti gli effetti come un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Per principio generale la forma del contratto di lavoro è libera, non essendo previste particolari modalità di manifestazione del consenso. In particolari ipotesi, però, la legge richiede la forma scritta del contratto di lavoro o di alcune clausole dello stesso.

E’ richiesta la forma scritti a fini sostanziali per:
a) l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro: la mancanza determina la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato;
b) il contratto di lavoro con un’agenzia di somministrazione: la mancanza determina l’instaurazione di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’impresa utilizzatrice;
c) il contratto di apprendistato: la mancanza determina la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

d) il contratto di inserimento: la mancanza determina la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
e) la determinazione del periodo di prova: la mancanza determina la non sussistenza del periodo di prova.

E’ invece richiesta la forma scritta a fini probatori:
a) per tutte le tipologie di lavoro flessibile, quali il lavoro ripartito, il lavoro intermittente ed il lavoro a progetto;
b) per il lavoro a tempo parziale.

La mancanza della forma scritta a fini probatori, non determina automaticamente la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato; la reale natura del rapporto potrà essere dimostrata con altri mezzi di prova ad esclusione della prova testimoniale, che potrà essere richiesta solo se l’interessato dimostri che il documento scritto sia andato perduto non per propria colpa.

L’elemento idoneo a caratterizzare il rapporto di lavoro subordinato ed a differenziarlo da altri tipi di rapporto è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, tenendo presente che deve manifestarsi in ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e che il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale.”



Associazione in partecipazione e la lettera di assunzione



La lettera di assunzione è il documento che consente di individuare con certezza gli elementi essenziali che caratterizzano il rapporto di lavoro. Tale lettera, che ai sensi dell’art. 4bis comma 2 D.Lgs. n. 181/00 deve essere consegnata al lavoratore al momento dell’assunzione, deve contenere le condizioni di lavoro applicate al rapporto, di cui all’art. 1 comma 1 D.Lgs. n. 152/97, ovvero: a) l’identità delle parti; b) il luogo di lavoro; c) la data di inizio del rapporto di lavoro; d) la durata del rapporto di lavoro, precisando se si tratta di rapporto di lavoro a tempo determinato o indeterminato; e) la durata del periodo di prova se previsto; f) l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro; g) l’importo iniziale della retribuzione e i relativi elementi costitutivi, con l’indicazione del periodo di pagamento; h) la durata delle ferie retribuite cui ha diritto il lavoratore o le modalità dei determinazione e di fruizione delle ferie; i) l’orario di lavoro; l) i termini di preavviso in caso di recesso.

L’informazione circa le indicazioni di cui alle lettere e), g), h), i) ed l) può essere effettuata mediante il rinvio alle norme del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

In ordine alla distinzione tra contratto di associazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa, la giurisprudenza ha ritenuto riconducibile al primo caso la fattispecie in cui sussista l’obbligo del rendiconto periodico da parte dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio d’impresa, seppur limitato.

Rientrano invece nel secondo caso le situazioni in cui sussiste un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato. Per cogliere la prevalenza, secondo una sentenza della Cassazione del 2011, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti è necessaria un’indagine del giudice di merito che porti ad una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere.

L’art. 1 comma 31 della legge n. 92 del 2012 ha abrogato anche l’art. 86 comma 2 del Decreto Legislativo n. 276 del 2003 che, ai fini di evitare fenomeni elusivi della disciplina di legge sull’associazione in partecipazione e della disciplina dei contratti collettivi, prevedeva: “in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, o in mancanza di contratto collettivo, in una corrispondente posizione secondo il contratto di settore analogo, a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi, con idonee attestazioni o documentazioni, che la prestazione rientra in una delle tipologie di lavoro disciplinate nel presente decreto ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell’ordinamento”.

L’aliquota contributiva pari a quella delle collaborazioni a progetto. Un ulteriore novità riguarda l’impatto del costo del lavoro nelle associazioni. Viene elevata l’aliquota contributiva per la gestione separata Inps nella stessa misura delle collaborazioni a progetto, ossia il 27,72%.


Età minima per lavorare con l’associazione in partecipazione



L'associazione in partecipazione è una tipologia di lavoro autonomo con cui il lavoratore (associato) partecipa agli utili dell’impresa (associante) e ottiene un’adeguata erogazione di  compenso per un tipo di prestazione lavorativa può essere la più varia.

Il contratto di associazione in partecipazione non richiede una forma particolare e può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato.

Per evitare rapporti elusivi della normativa opera la presunzione legale di rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in questi due casi:
(N.B. Viene precisato che tale presunzione opera nel caso in cui l'apporto di lavoro non presenti i requisiti della collaborazione con Partita IVA)
Il lavoro dei ragazzi (i minori che non hanno compiuto i 15 anni) e degli adolescenti (persone di età compresa tra i 15 e i 18 anni compiuti) è disciplinato e tutelato dalla L. 17/10/67 n. 977.

La regola generale posta dalla legge è che la età minima per la ammissione al lavoro, anche per gli apprendisti, è di 15 anni compiuti. Tuttavia questa regola incontra alcune eccezioni: in agricoltura e nei servizi familiari, l'età minima per l'ammissione al lavoro è di 14 anni compiuti, purché ciò sia compatibile con la tutela della salute del minore e non comporti la trasgressione dell'obbligo scolastico; nelle attività non industriali, i fanciulli di età non inferiore a 14 anni compiuti possono essere ammessi a lavori leggeri (meglio precisati nel DPR 4/1/71 n. 36), che siano compatibili con la tutela della salute, non comportino trasgressione all'obbligo scolastico e sempre che il minore non sia adibito a lavoro notturno e festivo.

E' prevista una deroga anche per la preparazione o rappresentazione di spettacoli o riprese cinematografiche. In questo caso, l'ispettorato provinciale del lavoro, su conforme parere del prefetto e previo assenso scritto del genitore o tutore, può autorizzare l'ammissione al lavoro dei minori di età inferiore ai 15 anni e fino al compimento dei 18, sempre che il lavoro non sia pericoloso e non si protragga oltre le ore 24. Il rilascio di tale autorizzazione è subordinato all'esistenza di tutte le condizioni necessarie ad assicurare la salute fisica e la moralità del minore, nonché l'osservanza dell'eventuale obbligo scolastico. In ogni caso, il fanciullo o adolescente, dopo l'impegno in tali rappresentazioni, dovrà godere di un riposo di almeno 14 ore consecutive.

La legge appronta particolari tutele a favore dei fanciulli e adolescenti che siano impiegati al lavoro. In particolare, i minori di 16 anni non possono essere adibiti ai lavori pericolosi, insalubri e faticosi, precisati dal DPR 20/1/76 n. 432 (in ogni caso, la legge stessa pone precisi limiti in ordine al sollevamento e trasporto di pesi da parte dei fanciulli e degli adolescenti); è vietato adibire i fanciulli e gli adolescenti a lavori sotterranei in miniere o cave o gallerie, nonché alla somministrazione di bevande alcooliche. L'ammissione al lavoro deve essere preceduta da una visita medica che certifichi l'idoneità del minore al lavoro cui sarà adibito. La legge prevede infine un particolare trattamento di salvaguardia in tema di ferie, orario di lavoro, lavoro notturno, riposo settimanale. La violazione delle norme della legge 977 comporta l'inflizione di sanzioni penali, peraltro modeste.

L’Art. 2549 del codice civile disciplina l’associazione in partecipazione: “Con il contratto di associazione in partecipazione (att. 219) l`associante attribuisce all`associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”.

L’apporto può essere costituito anche da prestazioni di lavoro rese dall’associato nei confronti dell’associazione. Più precisamente, trattasi di attività lavorativa in forma autonoma. Ma essa che può  avere connotazioni del tutto analoghe alle prestazioni di lavoro rese in regime di lavoro subordinato (quindi ad esempio il rispetto di orari di lavoro).

Proprio per questo sottile limite tra lavoro subordinato e queste prestazioni di lavoro rese dall’associato nei confronti dell’associazione come apporto, secondo l’art. 2459 del codice civile, che è intervenuta la legge Fornero introducendo alcuni importanti limiti, nel tentativo di contrastare l’utilizzo improprio dell’associazione in partecipazione.

Qualora l’apporto dell’associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Il limite di tre associati è nell’apporto di lavoro nella “medesima attività”, che è da intendersi come tipologia di attività, indipendentemente dal luogo in cui viene resa. Ne consegue che qualora un’azienda svolga la sua attività in più unità produttive, la medesima attività è da riferire nella totalità delle unità produttive e non in riferimento ad una sola. Quindi gli associati che apportano lavoro devono essere tre in tutte le unità. Inoltre la norma precisa che il limite di tre associati si applica “indipendentemente dal numero degli associanti”.

Qualora il conferimento dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non possa essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti (a meno che gli associati siano legati da  rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo). Il limite non opera in assenza di apporto di lavoro e qualora l’associato è un soggetto imprenditore.

Eccezione: il limite dei tre associati non si applica nei seguenti casi:
• alle imprese a scopo mutualistico;
• agli associati individuati mediante elezione dall'organo assembleare di cui all'articolo 2540, il cui contratto sia certificato; I rapporti di associazione in partecipazione con  apporto di lavoro, instaurati o attuati senza che vi sia stata un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, o senza consegna del  rendiconto, si presumono, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Che cosa è l’associazione in partecipazione?



L'associazione in partecipazione è una particolare forma di contratto relativo al mondo dell'impresa con il quale un imprenditore (che viene detto appunto "associante") si accorda con uno o più soggetti (che vengono detti "associati") che svolgono la propria attività lavorativa e vengono ricompensati con una partecipazione agli utili dell'impresa. L'utilizzo di questo tipo di contratto offre dei vantaggi in termini di flessibilità ed è molto redditizio nel momento in cui l'impresa ottiene un utile. Diventa invece problematico nei casi in cui l'attività sia in perdita perché in questo caso il lavoratore associato può essere chiamato a rispondere delle passività.

L’associazione in partecipazione, disciplinata dagli artt. 2549-2554 del codice civile, è un contratto con il quale un imprenditore (detto associante) attribuisce ad un altro soggetto (detto associato) la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto che l’opinione dominante assume possa consistere anche in una prestazione di lavoro.

L’associante rimane, dunque, titolare dell’impresa, e come tale è l’unico soggetto a cui siano riferibili i rapporti giuridici (debiti – crediti) nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni (tra associante ed associato), in linea di principio e salvo patto contrario, l’associato si assume il rischio di impresa. In buona sostanza quest’ultimo partecipa, di regola, tanto alle perdite quanto agli utili, sebbene le perdite non possano superare il suo apporto (art. 2553 c.c.).

Inoltre, sempre fatto salvo il patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa (o per lo stesso affare) ad altre persone senza il consenso del precedente associato (art. 2550 c.c.). Tale disposizione si giustifica con l’esigenza di tutela dell’associato, in quanto una nuova partecipazione potrebbe determinare una riduzione degli utili a lui spettanti. Sempre in tale ottica può essere previsto, convenzionalmente, il potere di controllo, sulla gestione dell’impresa o sullo svolgimento dell’affare per cui l’associazione è stata contratta, da parte dell’associato (2° comma dell’art. 2552 c.c.). A quest’ultimo, in ogni caso, è attribuito il diritto (3° comma dell’art. 2552 c.c.) al rendiconto annuale, ovvero al rendiconto finale sull’affare compiuto.

Per evitare fenomeni elusivi, la tradizionale disciplina codicistica è stata integrata da altri interventi normativi successivi.

In principio, è stato introdotto l’art. 86 (2° comma) del D.Lgs. 276/03, secondo il quale il contratto di associazione in partecipazione è invalido quando manchino un’effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni a chi lavora. In tali casi, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi che la prestazione rientra in una tipologie di lavoro disciplinate nel D.Lgs. 276/03 ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell’ordinamento.

Tale norma, tuttavia, ha da subito suscitato perplessità negli interpreti. Pertanto, è stata abrogata dalla legge 92/2012 di riforma del lavoro, che ha, altresì, introdotto alcune norme aventi lo scopo di ridurre al minimo il rischio di utilizzo abusivo della fattispecie contrattuale in esame.

La riforma del 2012 è, infatti, intervenuta su due diversi fronti.

In primo luogo, ha stabilito che si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato tutti i rapporti associativi instaurati o attuati senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare ovvero senza consegna del rendiconto relativo all’affare compiuto o all’anno di gestione trascorso.

In secondo luogo, ha stabilito che quando l’apporto conferito alla società consiste anche in una prestazione di lavoro, non possono esserci più di tre associati in partecipazione (salvi i familiari entro il terzo grado), pena la conversione in rapporto di lavoro subordinato per tutti gli associati.

Infine, sempre a scopo antielusivo, la legge 92/2012 ha esteso l’applicazione del nuovo art. 69 bis d. lgs. 276/2003 anche all’associazione in partecipazione: la norma citata (introdotta dalla stessa riforma) prevede che tale forma di collaborazione debba essere considerata come collaborazione coordinata e continuativa (con conseguente applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto) quando ricorrono le seguenti condizioni:

la collaborazione per uno stesso committente sia durata almeno 8 mesi nell’ambito dello stesso anno solare;

oltre l’80% del fatturato del collaboratore nell’arco di un anno solare derivi da uno stesso committente;
il collaboratore deve avere la disponibilità di una postazione fissa presso il committente.

In sostanza, quando ricorrono due dei presupposti appena elencati, il rapporto – anziché di associazione in partecipazione- deve essere riqualificato come rapporto di collaborazione a progetto. Ad esso, dovrà essere pertanto applicata la disciplina prevista dagli artt. 61 e ss del d. lgs. 276/2003, compreso il prelievo contributivo e la disciplina sanzionatoria nel caso in cui il contratto non sia conforme al progetto legale.

Vi sono dei casi in cui l’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione può mascherare il tentativo di aggirare la disciplina propria del lavoro subordinato.

Per questi motivi, come abbiamo già visto, la legge stabilisce che, quando l’apporto degli associati consiste in un’attività lavorativa, il numero degli associati non può essere superiore a tre, diversamente il rapporto si tramuta in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Ma la recente riforma Fornero, attuata con la legge n. 92 del 2012, ha previsto altre ipotesi in cui si presume che il rapporto di partecipazione in associazione sia in realtà un rapporto di lavoro subordinato.

Si tratta dei casi in cui:
in concreto all’esecuzione del rapporto di lavoro non segue un’effettiva partecipazione agli utili (e quindi di fatto il lavoratore riceve una retribuzione del tutto simile allo stipendio di un dipendente);

l’attività lavorativa non viene seguita dal rendiconto da parte dell’imprenditore-associante;

l’attività svolta dall’associato non ha le caratteristiche proprie di un’attività da lavoro autonomo (e quindi presenta i connotati tipici di un rapporto di lavoro subordinato).

Ciò significa che in questi casi si presume fino a prova contraria che il rapporto tra associato e associante sia un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti con tutte le conseguenze del caso sia sotto l’aspetto retributivo e contributivo, sia dal punto di vista della disciplina (orario, mansioni, licenziamento ecc.).

Una importante novità è stata introdotta dal cd. decreto lavoro d.l. n. 76/2013: anche le dimissioni dei lavoratori associati sono assoggettate al procedimento di cui alla legge Fornero.

La legge di conversione del D.L. n. 76/2013 (Legge 9 agosto 2013, n. 99) ha previsto degli strumenti per facilitare l’assorbimento con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei lavoratori assunti in precedenza con contratto di associazione in partecipazione e per disincentivare gli abusi collegati all’utilizzo di questa particolare forma contrattuale.

Vi è la possibilità di stipulare degli specifici contratti collettivi che prevedono appunto queste assunzioni entro tre mesi dalla data di stipulazione del contratto.

L’assunzione, in questo caso, può avvenire anche con un contratto di apprendistato. Si prevede peraltro che nei 6 mesi successivi alle assunzioni il datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro a meno che non sussistano una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

All’atto dell’assunzione le parti sottoscrivono un atto di conciliazione sullo schema della conciliazione prevista per il processo del lavoro e tale atto viene depositato, assieme al contratto di lavoro subordinato, nelle competenti sedi INPS.

L’atto di conciliazione, tuttavia, è efficace soltanto se il datore di lavoro versa alla gestione separata una somma pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato.

Sulle somme di partecipazione agli utili che l’associato riceve, si applicano la ritenute fiscali:
nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini di attività lavorativa si applica una ritenuta del 20%
nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini capitale (ad esempio fornisce dei macchinari, delle somme di denaro ecc) si applica una ritenuta del 12,50%.



domenica 9 febbraio 2014

Lavorare come colf o badante nel 2014. La busta paga e le indennità




Scatta il primo ritocco previsto dal rinnovo del contratto collettivo, al quale si aggiungerà l’aggiornamento legato al costo della vita.

È un effetto del rinnovo del contratto collettivo del lavoro domestico, che è in vigore dallo scorso luglio, ma ha rimandato al 2014 i primi effetti sulle retribuzioni. “Un’ulteriore concessione alle resistenze dei datori di lavoro, che a causa della crisi hanno chiesto di far slittare di qualche mese l’esborso a carico delle famiglie” ha sostenuto  Rita De Blasis, segretaria nazionale del sindacato Federcolf.

Da quest’anno, per esempio, la retribuzione minima mensile delle lavoratrici conviventi che assistono persone autosufficienti e svolgono anche mansioni connesse al vitto e alla pulizia della casa (livello BS tabella A) aumenta di sette euro. Altri sei euro arriveranno nel 2015, altri sei nel 2016. Proporzionalmente si calcoleranno gli aumenti per chi è inquadrato in altri livelli e tabelle.

Non ci sono solo quei sette euro in più. Come succede ogni anno, le retribuzioni minime andranno infatti aggiornate tenendo conto dell’aumento del costo della vita.

La retribuzione base corrisponde allo stipendio convenuto tra datore di lavoro e lavoratore, orario o mensile, al netto di altri importi.

In nessun caso potrà essere inferiore ai minimi contrattuali indicati dalla legge.

Secondo quanto previsto dal CCNL, in busta paga lo stipendio paga deve espresso in importo:

orario se il collaboratore non è convivente;mensile se il collaboratore è convivente

Retribuzione oraria convenuta. Ai fini del calcolo dei contributi, il valore da prendere in considerazione è la retribuzione oraria convenuta, ovvero quella concordata per un’ora di lavoro, al netto di altri importi.

Se lo stipendio viene pagato al lavoratore su base mensile, per calcolare la retribuzione oraria convenuta occorrerà dividere lo stipendio per il numero delle ore lavorate nell’arco del mese.

Esempio di calcolo

Se il domestico percepisce uno stipendio di 600 euro al mese e lavora 7 ore al giorno per 22 giorni, occorre dividere lo stipendio mensile (€600) per le ore lavorate nell’arco del mese (5 ore x 22 giorni = 110 ore mese). Dunque:

€600/110= €5,45.

Se il domestico è convivente, l'importo mensile viene ripartito in misura oraria, suddividendo il valore mensile per il divisore mensile dei rapporti in regime di convivenza: 4,3333 (ovvero la media delle settimane media in un mese).

Esempio di calcolo

Se il domestico percepisce uno stipendio di 1200 euro al mese e lavora 54 ore a settimana, occorre moltiplicare le ore lavorate nella settimana per 4,3333 (54 x 4,3333 = 234 ore mensili) e dividere lo stipendio mensile (€1200) per il totale. Dunque:

€1200/234= €5,13.

Retribuzione oraria effettiva
Per calcolare la retribuzione oraria effettiva, alla retribuzione oraria convenuta si dovranno aggiungere i valori de:

l'indennità vitto e alloggio la quota tredicesima eventuali scatti di anzianità, eventuale superminimo Per saperne di più: retribuzione oraria effettiva.

Quando un lavoratore usufruisce gratuitamente dell’alloggio e/o del vitto, ha diritto ad avere l’indennità sostitutiva dell’alloggio nei casi in cui non possa usufruire dell’alloggio messo a sua disposizione dal datore di lavoro, indipendentemente dalla cittadinanza.

L’indennità sostitutiva dell’alloggio deve essere calcolata in base ai valori convenzionali indicati nella corrispettiva tabella all’interno del CCNL. Questi valori vengono rivalutati annualmente.

Quando spetta l'indennità di vitto e alloggio. Tale indennità spetta al lavoratore nei seguenti casi:

Ferie: se durante il periodo di ferie il lavoratore non usufruisce dell’alloggio dato in dotazione dal datore di lavoro, quest’ultimo deve pagare al lavoratore l’indennità sostitutiva dell’alloggio. Congedo matrimoniale: per il periodo del congedo, se il lavoratore non usufruisce dell’alloggio dato in dotazione dal datore di lavoro, quest’ultimo deve corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva dell’alloggio. Malattia e infortunio sul lavoro: nel caso in cui il lavoratore non si trovi in degenza presso l’ospedale oppure presso l’alloggio del datore di lavoro, quest’ultimo deve corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva dell’alloggio. Permessi retribuiti: nel caso in cui il lavoratore fruisca delle giornate di permessi retribuiti ma non usufruisca dell’alloggio dato in dotazione dal datore di lavoro, quest’ultimo deve corrispondere al lavoratore l’indennità sostitutiva dell’alloggio. Nel caso in cui al lavoratore venga concesso un permesso non retribuito, non ha diritto né alla retribuzione, né all’indennità sostitutiva dell’alloggio.


domenica 8 dicembre 2013

Licenziamento legittimo se il lavoratore non usa i dispositivi di sicurezza



La Cassazione civile sezione lavoro con sentenza del 12 novembre 2013, n. 25392 ha stabilito che il datore di lavoro è tenuto a garantire la sicurezza del lavoratore sul luogo di lavoro, informandolo e formandolo sui rischi dell'attività svolta e fornendogli inoltre tutti i dispositivi necessari per la sua protezione. Nel caso però in cui i dispositivi non vengano utilizzati senza una motivazione, dal lavoratore, quest’ultimo è inadempiente e, di conseguenza, è legittimo il licenziamento.

Quindi è legittimo il licenziamento del lavoratore che non rispetta ripetutamente le prescrizioni in materia di sicurezza. Il dipendente è stato licenziato per avere reiteratamente rifiutato di indossare gli occhiali di protezione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa all’interno del reparto produttivo, così come previsto dal documento di valutazione dei rischi e da specifica disposizione aziendale. Disposizione aziendale che è stata ritenuta legittima tenuto conto che il datore di lavoro è chiamato a rispondere non solo per l’omissione di misure di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge, ma anche per l’omissione di quelle che siano suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche. Pertanto è inadempiente il lavoratore che rifiuta reiteratamente di osservare l’obbligo discendente dalla prescrizione del datore. All’interno del rapporto di lavoro subordinato, non è legittimo il rifiuto del lavoratore.
datore di lavoro


l

venerdì 1 novembre 2013

Infortunio sul lavoro in itinere : missione e trasferta circolare INAIL n. 52 del 2013




Con la circolare n. 52 del 2013, l'INAIL specifica gli istituti dell’occasione di lavoro e dell’infortunio in itinere, basandosi sull'evoluzione giurisprudenziale fornita in materia dalla giurisprudenza di legittimità, per poi verificare come gli stessi debbano trovare applicazione nelle ipotesi in cui l’infortunio sia occorso durante la missione e/o la trasferta del lavoratore. Ed introduce nuove ipotesi di "occasione di lavoro" in materia di infortunio ricomprendendo eventi durante missioni e trasferte del lavoratore.

L’INAIL interviene sulla qualificazione degli  infortuni in itinere ovvero in attualità di lavoro, nello specifico riguardo gli eventi lesivi occorsi a lavoratori in missione e/o in trasferta. Sono meritevoli di tutela e quindi rimborsate le ipotesi occorse nell’arco temporale che va dal momento dell’inizio della missione e/o trasferta fino al rientro presso l’abitazione. Sussiste occasione di lavoro e quindi infortunio in itinere per gli eventi occorsi al lavoratore nei limiti espressi dalla circolare durante il tragitto dall’abitazione al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa, nonché durante il tragitto dall’ albergo del luogo in cui la missione e/o trasferta deve essere svolta al luogo in cui deve essere prestata l’attività lavorativa.

Quindi  tre elementi che lo caratterizzano:
la lesione
la causa violenta
l’occasione di lavoro.

Vediamo cosa si intende per infortuni in itinere. In virtù dell’art. 12 del d.lgs. 38/2000 la tutela assicurativa è stata estesa agli eventi infortunistici occorsi durante il normale tragitto di andata e ritorno dal luogo di abitazione al luogo di lavoro, effettuato a piedi o con mezzo pubblico o con mezzo di trasporto privato purché necessitato. Mentre per normalità del percorso si intende sia il percorso più breve e diretto che collega i due luoghi, sia quello più lungo, giustificato da particolari esigenze di viabilità (es. traffico, lavori in corso), sia quello misto (con l’impiego di vari mezzi di trasporto), sia quel percorso che ha subito delle deviazioni a causa di:

cause di forza maggiore (es. malore, viabilità interrotta)

esigenze essenziali ed improrogabili (es. maltempo, esigenze familiari)

adempimento di obblighi penalmente rilevanti (es. soccorso)

Il termine necessitato invece si riferisce ad una serie di condizioni, al cui verificarsi, l’uso del mezzo potremo definirlo “giustificato” quali :

la mancanza di mezzi pubblici di trasporto che collegano il luogo di abitazione con il luogo di lavoro;

la mancanza di coincidenza tra l’orario dei mezzi pubblici e quello di lavoro (es. orario treno incompatibile);

il risparmio di tempo, conseguito utilizzando il mezzo privato, tale da essere pari o superiore a un’ora per ogni tragitto, e il carattere di regolarità dello stesso oggettivamente riscontrabile;

i tempi d’attesa derivanti dall’uso dei mezzi pubblici troppo lunghi e tali da rendere troppo lunga l’assenza del lavoratore dalla famiglia;

la notevole la distanza tra abitazione e luogo di lavoro, nel quale caso l’uso del mezzo privato è ritenuto giustificato per distanze superiori a 1Km da percorrere a piedi per ogni singolo tragitto.

Alla luce delle considerazioni esposte, si devono ritenere meritevoli di tutela, nei limiti sopra delineati, tutti gli eventi occorsi a un lavoratore in missione e/o trasferta dal momento dell’inizio della missione e/o trasferta fino al rientro presso l’abitazione.

Le disposizioni si applicano ai casi futuri nonché alle fattispecie in istruttoria e a quelle per le quali sono in atto controversie amministrative o giudiziarie o, comunque, che non siano prescritte o decise con sentenza passata in giudicato.


martedì 24 settembre 2013

Politiche del lavoro per il 2014. Ipotesi taglio del cuneo fiscale per un rilancio dell’occupazione



Il cuneo fiscale, ricordiamo, è la differenza tra il costo del lavoro (retribuzione lorda+oneri sociali) a carico dell’azienda e la retribuzione netta percepita dal lavoratore. Ed a tormentare è soprattutto la situazione  attuale del mercato di lavoro che si espone  in modo considerevole ai più giovani: nella fascia under 25, nonostante il calo di oltre un punto in un mese, si contano quasi due disoccupati su cinque (38,5%), anche se nei prossimi mesi l'Italia potrà contare su 1,5 miliardi di fondi Ue da destinare al piano garanzia giovani (youth guarantee)  per agevolare il loro ingresso nel mercato del lavoro.

Il problema principale sono le risorse necessarie per dare il via libera al taglio del costo del lavoro che riguarda tutte le fasce di età e che potrebbe spingere le imprese ad assumere a tempo indeterminato. A riguardo tra gli esperti in materia domina un forte scetticismo.  l governo del premier Letta sta cercando di mettere sul piatto 8 miliardi, anche se la cifra potrebbe essere inferiore e non è detto che alla fine sia sufficiente: il ministro dell’Economia del Lavoro Enrico Giovannini ha ricordato che per tagliare il costo del lavoro il governo Prodi mobilitò 5 miliardi di euro, ma "senza sortire gli effetti sperati".

La legge di Stabilità deve portare un taglio della tassazione su stipendi e pensioni, oppure "saremo costretti a riaprire una nuovo periodo di mobilitazione unitaria" è quanto ha sostenuto il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, : “questo sarà il punto dirimente, la misura di giudizio del provvedimento", ha affermato. "Il dibattito attuale - ha spiegato - non ci convince. Stiamo galleggiando, non ci si sta confrontando con il profilo del Paese e con le reali necessità dei cittadini. Non aggredisce il nodo fondamentale che è l’ingiusta distribuzione del reddito". Se il provvedimento "non cambierà il passo, saremo costretti a declinare", ha puntualizzato chiedendo l’apertura di un confronto tra Governo e parti sociali. "Se non si scioglie questo nodo non si potrebbe che procedere con una mobilitazione con Cisl e Uil. Non vogliamo seguire uno schema di galleggiamento c’è bisogno di risposte differenti".

Il sostegno all’occupazione deve avere come punti partenza. abbassare la pretesa contributiva e sul reddito di chi emergeva dal nero, incentivare i lavori autonomi invece di alzare i loro contributi come è stato fatto fino ad ora. Quello che continua a mancare è la capacità di abbassare le imposte sui lavoro e reddito: abbiamo un cuneo fiscale troppo alto, se ai contributi obbligatori per impresa e dipendente sommiamo Irap, Tfr e Inail, arriviamo al 53,5% della busta paga lorda, solo il Belgio ci supera col 55%.

Il costo del lavoro è una delle voci che più incide in modo significativo sulla competitività di un’azienda. Il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci, ha sottolineato che «l’elevato livello del cuneo fiscale e contributivo sul lavoro e del carico fiscale sulle imprese ancora differenzia e penalizza il nostro Paese rispetto ai partner europei». Secondo i dati Ocse 2011, il cuneo fiscale in Italia è pari al 47,6%, un valore che è cresciuto negli anni e che ha subito un’impennata tra il 2010 e l’anno successivo pari al 4,2%. Se ci confrontiamo con gli altri Paesi europei, risultiamo al sesto posto dopo Belgio, Germania, Francia, Ungheria e Austria.

Scomponendo la parte a carico del lavoratore e quella a carico dell’impresa, si osserva che siamo tra quei Paesi in cui gli oneri a carico delle aziende sono maggiori rispetto alle trattenute dei lavoratori. Peggio di noi fa la Francia, ma in un contesto industriale differente, dove ad esempio il costo dell’energia è il 40% in meno rispetto al resto dell’Europa, tale da consentire alle aziende d’Oltralpe di reggere la concorrenza. Se si guarda il paese che sta guidando l’economia in d’Europa, si osserva che il cuneo fiscale è tra i più alti, ma a carico del dipendente. A fronte di 100 euro di retribuzione netta, un’azienda tedesca ne versa 32,9 di tasse mentre le trattenute del lavoratore sono 66,3. Se poi si prende in considerazione l’incidenza del cuneo fiscale sul costo del lavoro negli ultimi undici anni, si constata che in Germania è sceso del 6%, dal 52,9% al 49,8%, consentendo a Berlino di restare competitiva sui mercati mondiali.

Il taglio del cuneo fiscale potrebbe avere un duplice effetto: rilanciare la competitività delle nostre imprese e liberare risorse a vantaggio del lavoratore.

sabato 1 giugno 2013

Tecnopatia, riconosciuto il danno da mouse

Con sentenza definitiva della Corte d’Appello di l’Aquila del 14 Febbraio 2013 è stato riconosciuto un indennizzo, con inabilità lavorativa pari al 15%, ad un bancario per accertata tecnopatia causata da uso eccessivo del mouse del computer dopo la rinuncia da parte dell’Inail di interporre ricorso in Cassazione.

I fatti. I giudici, confermando la sentenza di primo grado del Tribunale di Pescara, hanno riconosciuto ad un lavoratore di 53 anni, dipendente della Caripe dal 1983, impiegato come addetto alla «movimentazione titoli», la «sindrome pronatoria» dell’arto superiore destro causata da «overuse» da mouse del computer. La consulenza tecnica d’ufficio in primo grado (in secondo grado non è stata rinnovata), infatti, aveva ricondotto l’insorgenza della malattia all’esercizio della sua abituale attività lavorativa. In particolare il funzionario utilizzava il mouse tutti i giorni dalle 8:15 fino alle 17:00; 18:00, ora di chiusura della Borsa.

La perizia medica. Secondo la perizia, che ha citato anche la letteratura anglosassone sulla materia, “nella SOU (sindrome da over ouse) accade che la ripetuta attività muscolo-tendinea esaurisca la capacità ricostitutiva dei tessuti (tendini, muscoli, legamenti, etc.) che manifestano un danno locale acuto di tipo flogistico, nell’esercizio cronico il danno cumulativo tende ad estendersi alle strutture limitrofe compromettendo il microcircolo di uno o di tutti i compartimenti (normalmente già poco estensibili) del segmento interessato con un sub-edema interstiziale ipertensivo che, l’eventuale ulteriore flogosi riparativa, stabilizza fino a provocare ispessimento e retrazione della trama connettivale ed un ulteriore aumento di tensione. Nell’avambraccio, questa condizione può condurre all’instaurarsi di una sindrome compartimentale cronica, con eventuale associato danno nervoso”.

La tesi dell’Inail. Bocciata dunque la tesi dei sanitari dell’Inail secondo cui l’uso eccessivo del mouse non poteva cagionare la tecnopatia de qua, dovendosi al contrario ritenere che la malattia fosse di origine congenita. Infatti: “Lo sforzo richiesto ad un impiegato per manovrare il mouse del computer, non può giustificare.. .un superlavoro del muscolo stesso”.

La decisione. Secondo il tribunale di Pescara, decisione confermata anche in appello, invece: “Il consulente tecnico d’ufficio, sulla scorta della documentazione in atti, nonché di diretti e specifici accertamenti, tenendo anche adeguatamente conto degli elementi indicati dalla stessa parte attrice, ha accertato che il ricorrente è affetto da ‘sindrome pronatoria con compressione del nervo mediano all’avambraccio destro da overuse’, ed altresì stabilito che l’insorgenza di tale malattia deve ritenersi determinata dai fattori morbigeni cui il medesimo è stato nell’esercizio della sua abituale attività lavorativa”.

Per queste ragioni il tribunale ha dichiarato l’inabilità generica del 15% e condannato l’Inail a corrispondere al lavoratore il relativo indennizzo ai sensi dell’articolo 13 del Dlgs 38/2000, più interessi.

Inca, primo caso in Italia. La vicenda – ha commentato l’Inca Cgil – assume particolare rilievo perché si tratta del primo caso accertato in Italia e va incontro alle nuove esigenze di tutela dalle malattie professionali che possono essere causate dall’uso massivo delle nuove tecnologie, quali i computer.

mercoledì 27 marzo 2013

Licenziamento del lavoratore possibilità al trasferimento o al tempo parziale

Rispetto rigoroso della tempistica, esatta individuazione dei requisiti dimensionali dell'azienda, definizione del perimetro del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva. Senza dimenticare l'obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1 gennaio 2013, che va versato a prescindere dall'esito della conciliazione.

A parte i passaggi previsti dalla conciliazione obbligatoria, bisogna considerare con attenzione anche i diversi effetti che questa produce sul rapporto di lavoro, a seconda dell'esito finale.

Il datore di lavoro può avanzare la procedura del licenziamento del lavoratore se il tentativo di conciliazione viene meno perché le parti non hanno trovato un accordo, perché si è verificato l'abbandono o l'assenza di una di esse, oppure se la convocazione da parte della Direzione Territoriale del lavoro (Dtl ) non è arrivata nei termini previsti: in queste ipotesi, la cessazione del rapporto ha effetto dal giorno della comunicazione alla Dtl con cui il procedimento è stato avviato (individuata nella data di ricezione della comunicazione da parte dell'ufficio), fatti salvi il diritto al periodo di preavviso – se il lavoratore non ha continuato a lavorare, durante la procedura – oppure, in alternativa, all'indennità sostitutiva in favore del lavoratore.

In alcuni casi, come quello di un periodo contrattuale di preavviso breve, si pone il problema di computare a questo titolo soltanto una parte dei giorni lavorati.

Per evitare eccessi, la riforma del lavoro ha previsto che eventuali malattie insorte dopo la comunicazione di avvio non producano alcuna sospensione del licenziamento, mentre restano validi gli effetti sospensivi previsti dalle norme a tutela della maternità e della paternità e in caso di impedimento derivante da un infortunio sul lavoro.

Viceversa, nell'ipotesi di esito positivo della conciliazione, le soluzioni alternative al licenziamento possono essere diverse: si pensi, ad esempio al trasferimento del lavoratore, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno tempo parziale.
I contenuti dell'accordo sono verbalizzati dalla commissione di conciliazione, e acquistano un valore incontestabile.

Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, invece, la Dtl ne dà sempre atto con un verbale e resta escluso l'obbligo di convalida – previsto dall'articolo 4, comma 17, della legge 92/2012 – davanti a uno degli organismi abilitati. Inoltre, in deroga alla disciplina ordinaria, il lavoratore può accedere all'Aspi ed essere affidato a un'agenzia del lavoro per la ricollocazione.

Sugli adempimenti operativi che riguardano la comunicazione obbligatoria del licenziamento ai servizi per l'impiego, che in via ordinaria deve essere effettuata nei cinque giorni successivi al recesso, il ministero del Lavoro (con la nota 18273 del 12 ottobre 2012) ha già chiarito che il termine di riferimento decorre dalla conclusione della procedura di conciliazione: vale a dire dalla data di effettiva risoluzione del rapporto, e non dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, che la legge 92/2012 individua come «data legale» e dalla quale si producono gli effetti del licenziamento.

Ricordaiamo che, in caso di omissione della comunicazione obbligatoria, è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro, con un importo che va da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro.
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