mercoledì 28 marzo 2018

Assegno di ricollocazione dal 3 aprile 2018



Entra a regime dal 3 aprile l’assegno di ricollocazione, il contributo economico che va da 250 a 5.000 euro per i servizi per il lavoro che offrono un’opportunità di impiego ad un disoccupato che sia almeno da quattro mesi percettore di Naspi, la nuova indennità di disoccupazione, ma anche a chi rientra nelle politiche di contrasto alla povertà (nel Rei) o è in cassa integrazione straordinaria.

Si chiama  Assegno di ricollocazione  (AdR) ed è  un finanziamento che ogni disoccupato può richiedere  all'ANPAL (Agenzia nazionale delle politiche attive per il lavoro)  per avere aiuto nella ricerca di un nuovo lavoro. L'assistenza consiste in un  progetto personalizzato, sulla base del suo profilo,  che viene effettuata sia  direttamente dai Centri per l'impiego (CPI ) che da  enti privati come le Agenzie per il lavoro accreditate.

L'ANPAL ha una funzione di coordinamento dei centri per l'impiego territoriali e di gestione del sistema informativo unitario SIU ma l'erogazione dell'assegno è gestita dai Centri per l'impiego.

Il contributo non viene versato al soggetto disoccupato bensì all'ente , ma  solo se il progetto raggiunge effettivamente  l'obiettivo di una nuova occupazione.

Dal 2017 è stata attiva una sperimentazione su un campione di 30mila soggetti (non del tutto  utilizzata) e adesso si apre la possibilità di richiederlo per tutti gli aventi diritto, L assegno di ricollocazione è indirizzato alle persone disoccupate che percepiscono la Nuova Prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASPI) da almeno quattro mesi, purché non siano:

impegnate in analoghe misure di politica attiva erogate dalle Regioni e Province autonome (solitamente tali misure sono denominate contratto/assegno di ricollocazione, accompagnamento al lavoro o dote lavoro);

coinvolte in misure di politica attiva finanziate da un soggetto pubblico (quali corsi di formazione per l'inserimento lavorativo, corsi di formazione per l'adempimento dell'obbligo formativo, tirocini extracurriculari, servizio civile);

destinatarie di un finanziamento pubblico per l'avvio di un'attività di lavoro.

A chi ci si deve rivolgere per utilizzare l'assegno di ricollocazione ? Allo scadere del 4 mese di percezione della NASPI il sistema informativo unitario dell' ANPAL dovrebbe inviare via al potenziale destinatario una comunicazione che descrive il funzionamento dell' ADR .

La persona è  libera di decidere se usufruire di questo strumento e  può fare domanda di assegno di ricollocazione:

sul sito dell'ANPAL www.anpal.gov.it  oppure al Centro per l'impiego competente (quello del domicilio del percettore indicato nella domanda NASPI ) dove può scegliere l'ente da cui farsi seguire per il progetto di ricollocazione:  può essere il Centro stesso o le agenzie del lavoro accreditate dal Ministero o la Fondazione Consulenti del lavoro.  Non è indispensabile scegliere per il progetto un ente accreditato della propria zona di residenza.

Dopo  la domanda il CPI ha 15 giorni di tempo per definire l'assegno che viene destinato al lavoratore e fissare un primo appuntamento 

In caso affermativo, il cittadino deve recarsi all'appuntamento. In questo caso, sarà sospeso il Patto di servizio Personalizzato eventualmente sottoscritto dal destinatario con il CPI al momento della dichiarazione DID.
Il progetto di ricollocazione prevede iniziative di orientamento e formazione e contatti con aziende, fino all'offerta di un lavoro coerente con la figura del lavoratore.

I passaggi  previsti sono:

primo incontro e assegnazione di un tutor;

definizione e firma del  programma di ricerca di un lavoro con la collaborazione attiva della persona disoccupata;

eventuali corsi di formazione per migliorare l'occupabilità del soggetto.

Il soggetto disoccupato è tenuto a partecipare agli incontri concordati e ad accettare l'offerta congrua di lavoro; in caso contrario verranno applicate le dovute sanzioni che vanno da una prima riduzione fino alla perdita totale della prestazione di sostegno al reddito.

Il programma dura al massimo 6 mesi, prorogabili di altri sei  per ogni periodo di fruizione della NASPI.

Per dare diritto all'effettiva erogazione dell'assegno alle agenzie per il lavoro , la ricerca di lavoro deve portare:

a un contratto a tempo indeterminato , anche in apprendistato, o a un contratto a tempo determinato di almeno 6 mesi, (anche 3 mesi nelle regioni meridionali in via di sviluppo ).

Una volta che il disoccupato presenta domanda, sceglie chi eroga il servizio di assistenza: può essere un centro per l’impiego o un ente accreditato ai servizi per il lavoro. La richiesta dell’assegno è volontaria e si può presentare anche in via telematica. Il centro per l’impiego, entro 15 giorni, deve decidere se rilasciare o meno l’assegno dopo le verifiche. Se viene accettato si deve quindi elaborare il Patto di servizio personalizzato e il programma di ricerca intensivo. A quel punto il disoccupato deve ,può andare incontro a sanzioni che partono da una prima riduzione dell’assegno e arrivano alla sua perdita totale.

La somma viene intascata dal Centro per l’impiego o dall'agenzia privata per il lavoro “a risultato raggiunto”, cioè alla firma del contratto subordinato. Il disoccupato, per ottenere l’assegno, deve presentare al servizio pubblico (una novità è il coinvolgimento anche dei patronati) la dichiarazione di immediata disponibilità a lavorare, la “Did”, e richiedere la somma. Il servizio si conclude dopo 180 giorni, con una possibile proroga di altri 180 giorni in caso di assunzione con contratto di almeno sei mesi.



martedì 20 marzo 2018

Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato



Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.

Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.

Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.

Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.

Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.

Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.

I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.

Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.

Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.

I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.

Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.

Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.

Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.

Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.

Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti  manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.

Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.

Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.

Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.



domenica 18 marzo 2018

Visite mediche fiscali: i casi di esonero dalla reperibilità



In caso di malattia il dipendente pubblico o privato deve farsi rilasciare il certificato medico e rendersi reperibile presso l’indirizzo indicato per la visita fiscale.

Sarà poi obbligo del medico curante inviare, in modo telematico, l’attestato medico all’Istituto di Previdenza.

Solo nel caso in cui la trasmissione per via telematica non sarà possibile il certificato medico sarà rilasciato in modalità cartacea.

Il dipendente avrà quindi due giorni di tempo, dal verificarsi della malattia, per presentare il certificato medico all'ufficio INPS di competenza e una copia al datore di lavoro.

Per visita fiscale si intende l’accertamento sanitario, cioè una visita medica, che viene effettuata da parte di un medico dell’Inps nei confronti del lavoratore, quando è assente per malattia.

La visita fiscale può essere effettuata:

su richiesta del datore di lavoro pubblico, fin dal primo giorno di assenza dal servizio attraverso il canale telematico messo a disposizione dall’INPS;

su disposizione dell’INPS.

La richiesta può essere presentata fin dal primo giorno di assenza del lavoratore.

Il lavoratore è tenuto a rendersi reperibile, per la visita fiscale, in determinati orari; in particolare, le fasce di reperibilità per la visita fiscale sono le seguenti: dipendenti statali e degli enti locali devono essere reperibili per l’intera settimana, festivi compresi, nelle fasce orarie dalle 9 alle 13, e dalle 15 alle 18.

Anche i lavoratori del settore privato devono essere reperibili tutta la settimana, compresi sabati e domeniche, ma le fasce orarie sono differenti e vanno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.

Durante le fasce di reperibilità, sin dal primo giorno in cui si ammala, il lavoratore in malattia deve restare a disposizione del medico fiscale. Al verificarsi della malattia, il dipendente è tenuto a comunicare la malattia al datore di lavoro e a recarsi dal proprio medico curante perché rediga ed invii all’Inps in tempo reale il certificato telematico.

Se il lavoratore si reca dal medico il giorno successivo alla malattia e la visita è ambulatoriale, perde il primo giorno di malattia; lo stesso accade nel caso in cui la visita non sia ambulatoriale, ma il lavoratore si presenti alla visita medica con oltre un giorno di ritardo dal verificarsi della patologia. Dunque il dipendente in malattia dovrà  dimostrare che queste prestazioni non potevano essere effettuate in un momento diverso, in modo da poter essere presente nel proprio domicilio di malattia durante le fasce orarie di reperibilità.

L’INPS ha fornito chiarimenti in merito al campo di applicazione della normativa che prevede le esclusioni dall’obbligo di reperibilità per i lavoratori dipendenti del settore privato.

Si ricorda che, sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i lavoratori subordinati la cui assenza sia connessa con:

patologie gravi che richiedono terapie salvavita, comprovate da idonea documentazione della Struttura sanitaria;

stati patologici sottesi o connessi a situazioni di invalidità riconosciuta, in misura pari o superiore al 67%.

I lavoratori interessati dall’esenzione, sono quelli con contratto di lavoro subordinato appartenenti al settore privato, sono esclusi quindi i lavoratori iscritti alla gestione separata dell’Inps.

In base al nuovo art. 4 del DM 206/17:
Sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti per i quali l’assenza è riconducibile ad una delle seguenti cause di esclusione:

patologie gravi che richiedono terapie salvavita;

causa di servizio riconosciuta che abbia dato luogo all’ascrivibilità della menomazione unica o plurima alle prime tre categorie della Tabella A allegata al decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1981, n. 834, ovvero a patologie rientranti nella Tabella E del medesimo decreto: la novità riguarda il riferimento ad una norma ed a tabelle specifiche. Per leggere il decreto: Tabella causa di servizio 2018 esclusione visite fiscali.

stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta, pari o superiore al 67%: la novità introdotta riguarda solo la precisazione che la percentuale minima di invalidità che dà diritto all'esenzione dalle visite fiscali, è un'invalidità pari o superiore al 67%.

Per cui nelle patologie gravi che richiedono terapie salvavita, rientrano malattia molto gravi come per esempio tumori con terapie chemioterapiche o dialisi per il malfunzionamento dei reni, per malattie professionali INAIL e infortunio già accertate dall'amministrazione e comprovate dall'istituto come malattia causa di servizio.

Riassumendo, le esclusioni dall'obbligo di reperibilità per la visita fiscale, vi sono solo se la malattia è connessa ad una delle condizioni sopra elencate e solo se l'amministrazione si già in possesso della documentazione formale sanitaria che certifichi la patologia che causa l'esclusione dal suddetto obbligo, pertanto, nel caso in cui il dipendente che rientra nel regime di esenzione non fosse trovato presso il proprio domicilio in occasione della visita fiscale, non andrebbe incontro a responsabilità e all'applicazione di alcuna sanzioni.





sabato 17 marzo 2018

Contratti di lavoro si cambia



E' stato firmato il testo definitivo della riforma del modello contrattuale. Dopo anni di tentativi Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno finalmente chiuso una partita che si protraeva da tempo e che - oltre a definire un modello con cui disciplinare il contratto nazionale (su due livelli di contrattazione e livelli salariali autonomi) - definisce anche nuove regole sulla rappresentanza sindacale e, per la prima volta, anche quella delle imprese.

Una firma, inoltre, che riporta in primo piano il ruolo di regolatore che Confindustria e sindacati giocano nella vita economica del Paese dopo una lunga stagione che ne aveva messo in discussione le competenze ed allontana eventuali interventi di legge con cui scavalcare le parti sociali, come quel salario minimo per legge a cui ha pensato negli ultimi mesi la politica.

Viene individuato un trattamento economico complessivo (Tec), costituito dal trattamento economico minimo (Tem, i minimi tabellari) e da tutte quelle voci (dagli scatti di anzianità, all’Edr, all’elemento perequativo, al welfare sanitario o previdenziale) che il Ccnl considera comuni a tutti i lavoratori del settore. In sostanza le differenti esperienze negoziali delle categorie vengono sistematizzate dal documento conclusivo delle parti sociali. Alla luce di queste esperienze, il menù a disposizione delle parti nella negoziazione si è arricchito. Il contratto nazionale non si limita più a indicare i minimi tabellari ma ricomprende ormai altre voci: tra queste, il welfare entra a pieno titolo nel trattamento economico complessivo. Il contratto nazionale individuerà, dunque, i minimi tabellari per la vigenza contrattuale e la variazione avverrà, secondo le regole dei singoli Ccnl, in base agli scostamenti registrati dall’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi Ue (depurato dei prezzi dei beni energetici importati), calcolato dall’Istat.

In busta paga, inoltre, entreranno anche eventuali forme di welfare: il trattamento economico complessivo, infatti, sarà costituito dal salario minimo e da tutti i trattamenti economici, dunque compreso il welfare, che il contratto collettivo nazionale di categoria qualifica come "comuni a tutti i lavoratori del settore". Per quanto riguarda la contrattazione aziendale, il secondo livello, invece, l'accordo punta ad incentivarne uno "sviluppo virtuoso", sia quantitativo che qualitativo. E tornando alle norme sulla rappresentanza e all'obiettivo anti dumping che si pongono le parti sociali sembrano non voler escludere un intervento di legge che rafforzi lo scopo anti pirateria. "Le intese in materia di rappresentanza possono costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l'eventuale definizione di un quadro normativo in materia", si legge infatti nel documento.

Un modello contrattuale che spinge alla crescita della produttività aziendale e, con essa, dei salari dei lavoratori. Il documento conclusivo di Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, confermando gli attuali due livelli contrattuali (nazionale e aziendale o, in alternativa, territoriale) valorizza il ruolo del contratto nazionale e della contrattazione decentrata: il primo come fonte di regolazione dei rapporti di lavoro e garante dei trattamenti economici e normativi comuni ai lavoratori del settore, sull’intero territorio nazionale; la seconda, come luogo in cui si realizza l’incontro virtuoso tra salario e produttività.

Le parti riconoscono un ruolo importante alla contrattazione collettiva che può creare le condizioni per «migliorare il valore reale» delle retribuzioni e, nel contempo, «favorire la crescita del valore aggiunto e dei risultati aziendali», valorizzando le «competenze tecniche e organizzative dei lavoratori» contro il rischio di un appiattimento nelle politiche salariali.

Si tratta, appunto, di un modello che lascia alle categorie la decisione se distribuire gli aumenti ex post (come fanno i meccanici) o ex ante (come i chimici). Sempre in tema di autonomia e responsabilità delle parti, attraverso la contrattazione si potrà valorizzare nei diversi settori la partecipazione organizzativa, per contribuire alla competitività delle imprese e valorizzare il lavoro.




domenica 11 marzo 2018

Lavoro dipendente: trasferte e orario di lavoro





La trasferta presuppone che al lavoratore venga temporaneamente richiesto di prestare la propria opera in un luogo diverso da quello in cui deve abitualmente eseguirla (si tratta della sede indicata nel contratto di lavoro quale luogo normale di svolgimento dell’attività lavorativa) anche all'estero. A tale richiesta alla quale il lavoratore in genere è tenuto a adeguarsi.

Trasferte, le indicazioni del Ministero del Lavoro sulla nozione di orario di lavoro, nella quale non rientrano le ore trascorse in viaggio.

Per il Ministero del Lavoro, il tempo impiegato per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non è da considerarsi orario di lavoro, quindi, per definire se un periodo sia da ricomprendersi nell’orario di lavoro è necessario che si verifichi la coesistenza di tre criteri indicati dall’art. 1, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 66/2003:

il prestatore di lavoro deve essere al lavoro,

deve essere anche a disposizione del datore di lavoro,

nonché deve essere nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.

Nella normativa non è più quindi presente alcun riferimento alla nozione di orario di lavoro effettivo e per questo va considerato orario di lavoro sia il tempo dedicato al lavoro che quello in cui il lavoratore è presente nel luogo di lavoro, disponibile a far fronte alle necessità del datore di lavoro con la propria attività. A titolo di esempio, si ritiene che rientrino nell’orario di lavoro:

la timbratura del cartellino;

il tempo necessario per la vestizione e la vestizione quando è d’obbligo una divisa ed è disciplinato il tempo e il luogo in cui deve avvenire;

l’entrata ed uscita dal pozzo nelle cave e nelle miniere.

Il luogo della prestazione lavorativa è un elemento fondamentale del contratto di lavoro subordinato. Per quanto nella maggior parte dei casi la sede di lavoro sia fissa e identificata in modo specifico al momento della stipula del contratto di assunzione, per particolari tipologie di attività può essere richiesto, occasionalmente o con maggior frequenza, lo svolgimento della prestazione lavorativa in luoghi differenti rispetto alla normale sede di lavoro contrattualmente definita. In queste ipotesi il datore di lavoro deve valutare se vi sia l’obbligo di erogare trattamenti economici aggiuntivi rispetto alla retribuzione ordinaria che vadano a remunerare il tempo impiegato dal lavoratore per raggiungere il luogo di temporanea assegnazione e per il rientro.

Va considerato orario di lavoro sia il tempo dedicato al lavoro che quello in cui il lavoratore è presente nel luogo di lavoro, disponibile a far fronte alle necessità del datore di lavoro con la propria attività, ad esempio per timbrare il cartellino, vestirsi, se è d’obbligo una divisa. Non rientra nella nozione di orario di lavoro, invece, il periodo di reperibilità del lavoratore, a meno che egli non venga effettivamente chiamato al lavoro.

Dubbi sono sorti in passato anche con riferimento alle ore di viaggio effettuate quando il lavoratore è in trasferta, ovvero quando presti temporaneamente la propria attività in un luogo diverso da quello in cui effettua normalmente la sua prestazione lavorativa. Poiché in generale, non rientrano nell’orario di lavoro tutte le attività preparatorie allo svolgimento della prestazione se avvengono quando il prestatore non è soggetto al potere direttivo del datore di lavoro ma può godere di una certa autonomia, le ore di viaggio non rientrano nell’orario di lavoro qualora il lavoratore sia libero di scegliere i tempi di partenza, il mezzo di trasporto e così via. La giurisprudenza con riferimento alla trasferta ritiene che qualora al lavoratore sia corrisposta un’indennità di trasferta di tipo retributivo, il tempo impiegato per raggiungere la sede di lavoro non sia da sommare al normale orario di lavoro perché l’indennità di trasferta è volta anche a compensare il disagio psico-fisico degli spostamenti; qualora, invece, l’indennità di trasferta abbia una funzione di rimborso delle spese sostenute dal prestatore di lavoro, se il tempo di viaggio avviene al di fuori dell’orario di lavoro va assimilato all’orario di lavoro.



mercoledì 7 marzo 2018

Il contratto di apprendistato per il 2018: retribuzione, età e tipologie





L'apprendistato è lo strumento più diffuso per l'inserimento nel mercato del lavoro. Si tratta di un particolare rapporto all'interno del quale il lavoratore acquisisce delle competenze professionali attraverso l'inserimento all'interno dell'organizzazione produttiva del datore di lavoro presso il quale svolge le proprie mansioni. Il contratto di apprendistato è per definizione un contratto di lavoro a tempo indeterminato rivolto a giovani che studiano e che vogliono nel frattempo lavorare e formarsi anche a livello professionale in cui il datore di lavoro deve corrispondere all’apprendista:

la retribuzione per la prestazione di lavoro resa, ridotta, rispetto al reolgare contratto a tempo indeterminato, a motivo della inesperienza dell'apprendista;

la formazione necessaria (in parte interna e in parte esterna) all’acquisizione di una maggiore competenza professionale.

Per evitare abusi e uso improprio del contratto di apprendistato, che gode di agevolazioni dal punto di vista retributivo e contributivo, il legislatore ha introdotto specifici limiti numerici, in rapporto al numero di dipendenti dell'azienda.

Esistono tre tipologie di apprendistato, diverse per finalità, soggetti destinatari e profili normativi, con le caratteristiche e requisiti riassunti a seguire:

apprendistato per la qualifica e il diploma superiore, tra i 15 e i 25 anni con il conseguimento di un titolo di studio (qualifica o diploma professionale  e anche per l’assolvimento dell’obbligo scolastico;

apprendistato di alta formazione e ricerca, tra i 18 e i 29 anni con il conseguimento di un  diploma di istruzione secondaria superiore, di titolo di studio universitari e dell’alta formazione, compresi i dottorati di ricerca;

apprendistato professionalizzante o "contratto di mestiere", tra i 18 e i 29 anni* con la qualifica professionale, valida ai fini contrattuali  (non titolo di studio) . * Dal 2016 è possibile assumere con questo contratto anche  i lavoratori OVER 29 beneficiari di mobilità o di trattamenti di disoccupazione, senza limiti di età, ai fini della loro qualificazione o riqualificazione professionale. Per l'accesso l'Inps ha chiarito che il lavoratore non deve necessariamente  percepire materialmente ad es. la NASPI ma semplicemente essere titolare del diritto.

Il contratto di apprendistato va stipulato in forma scritta ai fini della prova. Il contratto  deve contenere il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali.

Nell'apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma o certificato di specializzazione e nell'apprendistato di alta formazione e ricerca, il piano formativo individuale è  predisposto dalla istituzione formativa con il coinvolgimento dell'impresa.

L'apprendistato è una forma di contratto di lavoro a tempo indeterminato, finalizzato però alla formazione e alla occupazione dei giovani.

In altre parole,
l'apprendistato consente al giovane di poter svolgere contemporaneamente una mansione all'interno di una azienda e studiare e frequentare una scuola superiore o l'università al fine di acquisire il titolo di studio.

Al conseguimento della qualifica professionale, professionalizzante o di alta formazione e di ricerca, il giovane lavoratore ha avuto competenze direttamente sul campo per tutta la durata della sua formazione e una qualifica, che e potrà essere inserito definitivamente nell’impresa con la sua assunzione a tempo indeterminato. I benefici e i vantaggi del contratto di apprendistato però, non solo solo verso il giovane ma anche per le aziende e imprese, infatti, il datore di lavoro che assume giovani con contratti di apprendistato ottiene notevoli sgravi contributivi e fiscali a fronte di una retribuzione stabilita dal CCNL e di una formazione professionale sul campo.

Per il 2018 è stata prevista la possibilità di applicare la decontribuzione del 50% triennale per l’assunzione di giovani fino a 35 anni, poi dal 2019 il limite verrà riportato a 29 anni. Il riferimento è alle assunzioni a tempo indeterminato e alle conversioni da contratto a termine a contratto a tutele crescenti.  Per l’assunzione di  giovani entro 6 mesi dal conseguimento del titolo di studio che precedentemente avevano svolto apprendistato o alternanza scuola lavoro presso la stessa azienda è previsto uno sgravio contributivo totale triennale. Decontribuzione al 100% anche per l’assunzione di giovani del Sud e NEET iscritti al programma europeo Garanzia Giovani.

Per quanto riguarda lo stipendio che l'azienda paga all'apprendista contrattualizzato. Tale retribuzione, è stabilita dalla contrattazione collettiva, in base alla tipologia di contratto di apprendistato, alla qualifica da conseguire e al livello di inquadramento. Ai fini di determinazione della retribuzione spettante, si deve far riferimento alla normale retribuzione dei lavoratori qualificati di pari livello ed è progressiva, in generale si parte dal 60% fino ad arrivare al 100% della retribuzione dei lavoratori qualificati di pari livello. Sempre riguardo alla retribuzione, la legge dà la possibilità al datore di lavoro di inquadrare l’apprendista fino a due livelli in meno rispetto alla qualifica da conseguire e/o di riconoscere una retribuzione pari ad una percentuale di quella prevista per un lavoratore già qualificato, pertanto al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto sia delle ore di lavoro effettivamente prestate che delle ore di formazione nella misura minima del 35%.

venerdì 2 marzo 2018

INPS: nuova procedura online per la NASPI



La NASPI è l’ammortizzatore sociale che spetta a tutti i lavoratori dipendenti che perdono involontariamente il lavoro ed è arrivata nell'area MyINPS un link per presentare la domanda e  per ottenere la NASPI è diventato più semplice, anche grazie alle informazioni presenti nelle banche dati INPS che vengono utilizzate per facilitare l’adempimento: al lavoratore che rimane senza lavoro, che deve presentare domanda all’INPS entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto, arriverà direttamente nella propria area del sito INPS il link per compilare la richiesta di ammortizzatori sociali.

Ecco le istruzioni dettagliate alla domanda di disoccupazione INPS sul sito, i requisiti da rispettare e i documenti necessari fra cui la DID, il modello SR163 e il Patto di servizio Personalizzato.

Innanzitutto possono accedere al sussidio di disoccupazione NASPI coloro i quali abbiamo i seguenti requisiti:

stato di disoccupazione involontario;

requisito contributivo: il lavoratore deve poter far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione;

requisito lavorativo: il lavoratore deve poter far valere trenta giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.

Verificate le condizioni di cui sopra per richiedere la prestazione si può optare per una di questa tre modalità:

direttamente dal sito www.inps.it se in possesso del PIN dispositivo INPS;

attraverso l’ausilio di un patronato;

tramite Contact Center Multicanale INPS-INAIL, chiamando da rete fissa il numero gratuito 803164 oppure da cellulare il numero 06164164.

L’utilizzo degli archivi e le tecnologie, consentono all’INPS di individuare velocemente i lavoratori che si trovano in questa situazione e di mettere loro a disposizione, nell’area MyINPS del portale, il link per l’accesso alla domanda di NASPI. La nuova modalità di presentazione della domanda è partita  dal 23 febbraio 2018 in via sperimentale.

Un servizio personalizzato, dunque, che facilita un adempimento burocratico. C’è anche un vantaggio in termini di rispetto delle tempistiche: la domanda di NASPI deve essere presentata all’INPS entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, altrimenti il lavoratore decade dal diritto. Il fatto che arrivi direttamente un link nella propria area del sito INPS facilita il rispetto di questo termine.

E probabilmente consente anche un più rapido svolgimento dell’intera operazione, con una ricaduta positiva sull’erogazione del trattamento, la cui decorrenza cambia a seconda del momento in cui viene presentata la domanda: se la richiesta viene presentata all’INPS entro l’ottavo giorno dal termine della prestazione lavorativa, la NASPI parte dall’ottavo giorno, dal giorno successivo alla presentazione della domanda negli altri casi.

Se il licenziamento è per giusta causa, il trattamento parte dal 38esimo giorno successivo se la domanda è presentata entro questo termine oppure il giorno la presentazione.

Come si vede, la semplificazione e la personalizzazione del servizio di presentazione della domanda, con un link indirizzato all’avente diritto e immediatamente disponibile, facilita il rispetto dei tempi. Il lavoratore dovrà comunque compilare la domanda e inviarla. Il servizio parte per ora in via sperimentale ma verrà gradualmente esteso a tutti i lavoratori con diritto alla NASPI.

L’indennità di disoccupazione si calcola sommando tutte le retribuzioni imponibili ai fini previdenziali, ricevute negli ultimi 4 anni e dividendo il risultato per il numero di settimane di contribuzione. Il quoziente ottenuto va infine moltiplicato per il numero 4,33. La base di calcolo è l’imponibile previdenziale degli ultimi 4 anni, divisa per le settimane di contribuzione e moltiplicata per il coefficiente 4,33. Per le frazioni di mese, il valore giornaliero dell’indennità si determina dividendo l’importo ottenuto con calcolo appena esposto per 30. Si considerano tutte le settimane, interamente o parzialmente retribuite.

Se la retribuzione mensile è inferiore a 1.195 euro mensili, l’indennità è pari al 75% della retribuzione. Per stipendi superiori, la NASPI è pari al 75% a cui si aggiunge il 25% del differenziale fra retribuzione mensile e 1.195. Dal quarto mese si riduce del 3% ogni mese. La prestazione è erogata per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni (24 mesi).









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