mercoledì 30 aprile 2014
Piano garanzia giovani dal 1° maggio 2014
Parte il Primo maggio, nella giornata dedicata al lavoro, il Piano nazionale Garanzia giovani, che è un programma europeo per favorire l'occupabilità e l'avvicinamento dei giovani al mercato del lavoro. Un percorso che prevede una serie di misure, a livello nazionale e territoriale, volte a facilitare la presa in carico dei giovani tra 15 e 25 anni per offrire loro opportunità di orientamento, formazione e inserimento al lavoro.
Oltre 1,5 miliardi di euro, nel biennio 2014-2015, per garantire ai giovani una offerta "qualitativamente valida" di lavoro, di istruzione, di apprendistato o tirocinio, di autoimprenditorialità o servizio civile.
Il programma europeo si rivolge ai ragazzi tra i 15 e i 24 anni, in Italia il governo ha deciso di estenderlo fino ai 29 anni. Si rivolge a disoccupati o Neet (coloro che non studiano, non lavorano e non si formano). In Italia, secondo gli ultimi dati disponibili e relativi al 2012, i Neet tra i 15 e i 29 anni sono 2,250 milioni. Il Piano riguarda tutto il territorio nazionale, ad eccezione della Provincia di Bolzano, l'unica che presenta un tasso di disoccupazione giovanile inferiore al 25%. A livello nazionale questo tasso ha superato il 42%.
Il Piano Italiano prevede un sistema universale di informazione e orientamento a cui il giovane accede registrandosi attraverso vari punti di contatto fino al 31 dicembre 2015: il sito www.garanziaperigiovani.it (in fase di realizzazione), il portale Cliclavoro, i portali regionali, i Servizi per l'Impiego e altri servizi competenti, sportelli ad hoc che saranno aperti presso gli istituti di istruzione e formazione. Nella fase di informazione e comunicazione saranno coinvolte varie istituzioni o associazioni, tra cui Camere di Commercio, associazioni sindacali e datoriali, associazioni giovanili e del Terzo Settore.
Dopo la registrazione e un primo colloquio nella fase di accoglienza, al giovane verrà indicato un percorso di orientamento individuale destinato a definire un progetto personalizzato di formazione o lavorativo/professionale. In sintesi, s'intende rendere sistematiche le attività di orientamento al lavoro anche con il mondo dell'educazione (istituti scolastici, istruzione e formazione professionale ed università.
Una volta iscritti i giovani potranno quindi scegliere la Regione in cui vogliono lavorare, che "prenderà in carico" la persona attraverso i Servizi per l'impiego o le Agenzie private accreditate. Ai giovani sarà offerta l’opportunità di un colloquio specializzato da parte di orientatori qualificati che preparino i giovani all'ingresso nel mercato del lavoro con percorsi di costruzione del curriculum e di autovalutazione delle esperienze e delle competenze. In base a profilo e disponibilità territoriali, stipuleranno con gli operatori competenti un "Patto di servizio" ed, entro i quattro mesi successivi, riceveranno un'opportunità.
Ai giovani che presenteranno i requisiti verrà offerto un finanziamento diretto (bonus, voucher, ecc.) per accedere ad una gamma di possibili percorsi, tra cui: l'inserimento in un contratto di lavoro dipendente, l'avvio di un contratto di apprendistato o di un'esperienza di tirocinio, l'impegno nel servizio civile, la formazione specifica professionalizzante e l'accompagnamento nell'avvio di una iniziativa imprenditoriale o di lavoro autonomo.
I giovani dovranno innanzitutto aderire all’iniziativa: sino al 31 dicembre 2015 potranno farlo attraverso il sito nazionale www.garanziagiovani.gov.it o i siti attivati dalle Regioni, comunque collegati in rete fra loro. E dopo tale data ? I ragazzi potranno scegliere la Regione in cui vogliono lavorare, che «prenderà in carico» la persona attraverso i Servizi per l’impiego o le Agenzie private accreditate. In base a profilo e disponibilità territoriali, stipuleranno con gli operatori competenti un «Patto di servizio» ed, entro i quattro mesi successivi, riceveranno un’opportunità.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di azioni di comunicazione e di orientamento, per il ministro Poletti è essenziale coinvolgere il mondo delle imprese, «sollecitandone la responsabilità verso una delle maggiori emergenze del momento», sottolinea il ministero di via Veneto, e attraendo anche il loro interesse per le misure che le Regioni dispongono a favore di chi offre occupazione, apprendistato, tirocini.
Il Piano Italiano mette in risalto i punti seguenti:
Informazione - Il Piano Italiano prevede un sistema universale di informazione e orientamento a cui il giovane accede registrandosi attraverso vari punti di contatto: il sito www.garanziaperigiovani.it, il portale Cliclavoro, i portali regionali, i Servizi per l'Impiego e altri servizi competenti, sportelli ad hoc che saranno aperti presso gli istituti di istruzione e formazione. Nella fase di informazione e comunicazione saranno coinvolte varie istituzioni o associazioni, tra cui Camere di Commercio, associazioni sindacali e datoriali, associazioni giovanili e del Terzo Settore.
Orientamento - Dopo la registrazione e un primo colloquio nella fase di accoglienza, al giovane verrà indicato un percorso di orientamento individuale destinato a definire un progetto personalizzato di formazione o lavorativo/professionale. In sintesi, s'intende rendere sistematiche le attività di orientamento al lavoro anche con il mondo dell'educazione (istituti scolastici, istruzione e formazione professionale ed università), attraverso gli operatori e supporti informatici ad alto valore aggiunto.
Colloquio - Il Piano italiano intende offrire ai giovani l'opportunità di un colloquio specializzato da parte di orientatori qualificati che preparino i giovani all'ingresso nel mercato del lavoro con percorsi di costruzione del curriculum e di autovalutazione delle esperienze e delle competenze. In altri termini, si vogliono incoraggiare interventi nei confronti dei giovani che non studiano e non lavorano (Neet) o che hanno abbandonato precocemente gli studi promuovendo percorsi verso l'occupazione, anche incentivati, attraverso servizi e strumenti che favoriscano l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.
I percorsi possibili - Ai giovani che presenteranno i requisiti verrà offerto un finanziamento diretto (bonus, voucher, ecc.) per accedere ad una gamma di possibili percorsi, tra cui: l'inserimento in un contratto di lavoro dipendente, l'avvio di un contratto di apprendistato o di un'esperienza di tirocinio, l'impegno nel servizio civile, la formazione specifica professionalizzante e l'accompagnamento nell'avvio di una iniziativa imprenditoriale o di lavoro autonomo.
La comunicazione – Per informare i giovani delle misure messe in campo dal Piano italiano e spingerli ad attivarsi per cogliere le opportunità descritte, è stato predisposto un piano di comunicazione integrata. La prima fase, avviata a novembre, prevede l'avvio di un contest online per la definizione della linea grafica e dello spot che caratterizzeranno la campagna di comunicazione. L'idea di indire una gara sul web per la creazione dei principali strumenti di comunicazione della Garanzia Giovani nasce dal desiderio far partecipare il più ampio numero possibile di giovani ad un progetto rivolto proprio a loro, coinvolgendoli fin dall'inizio e stimolando un dibattito "virale", che faccia circolare idee e proposte creative per sviluppare messaggi e prodotti adatti ai giovani elaborati dai giovani stessi.
La struttura di missione ha l’obiettivo di contribuire a realizzare le finalità previste dalla Garanzia elaborare il piano di attuazione italiano della Garanzia per i Giovani, ne fanno parte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Isfol e Italia Lavoro, Ministero dell’Istruzione, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell’Economia, Dipartimento della Gioventù, Regioni e Province Autonome, Province, Inps e Unioncamere
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martedì 29 aprile 2014
Busta paga di maggio 2014 come applicare il credito di 80 euro
Arrivano a tempo record le istruzioni dell'Agenzia delle Entrate per applicare a partire dalla busta paga di maggio il bonus Irpef da 80 euro. E' stata infatti pubblicata la circolare con le indicazioni per riconoscere il credito ai lavoratori dipendenti "e assimilati" con un reddito fino a 26 mila euro.
Il bonus per lavoratori dipendenti e assimilati sarà riconosciuto in busta paga, a partire da maggio, senza dover fare alcuna domanda. Il credito, riservato a chi guadagna fino a 26mila euro, sarà infatti erogato direttamente dai datori di lavoro in tutti i casi in cui l'imposta lorda dell'anno è superiore alle detrazioni per lavoro dipendente.
Chi ha tutti i requisiti per ricevere il bonus, ma non ha un sostituto d'imposta, ad esempio perché il rapporto di lavoro si è concluso prima del mese di maggio, chiarisce l'Agenzia, potrà comunque richiederlo nella dichiarazione dei redditi per il 2014.
I soggetti titolari nel 2014 di redditi da lavoro dipendente, le cui remunerazioni sono erogate da un soggetto che non è sostituto di imposta, tenuto al riconoscimento del credito in via automatica, per esempio le colf casalinghe, e tutti i soggetti il cui rapporto di lavoro si è concluso prima di maggio, potranno chiedere il credito nella dichiarazione dei redditi 2014, utilizzarlo in compensazione, o richiederlo a rimborso. E' uno dei chiarimenti forniti dall'Agenzia delle Entrate in merito al bonus Irpef.
"Siamo in presenza di un bonus, che è in media annua di 54 euro, e non di un intervento strutturale. Meglio di niente, però non è quello che era stato detto", anche per quanto riguarda "la platea, che non è larga come si era detto all'inizio". E’ quanto ha sostenuto il leader della Cisl, Raffaele Bonanni sottolineando che comunque questo da solo non basta per rilanciare i consumi e quindi l'economia. "Mi pare - ha aggiunto - siano provvedimenti che hanno il sapore elettoralistico".
I contribuenti che hanno diritto al credito sono i soggetti che nel 2014 percepiscono redditi da lavoro dipendente (e alcuni redditi assimilati) - al netto del reddito da abitazione principale - fino a 26 mila euro, purché l'imposta lorda dell'anno sia superiore alle detrazioni per lavoro dipendente. Il bonus spetta invece se l'imposta lorda è azzerata da altre categorie di detrazioni, ad esempio quelle per carichi di famiglia.
Il credito complessivo di 640 euro, 80 euro mensili a partire da maggio, vale per i redditi fino a 24mila euro. Se il reddito supera i 24mila il bonus si riduce gradualmente fino a 26 mila. Il bonus (che non concorre alla formazione del reddito) andrà ai lavoratori dipendenti e assimilati la cui imposta lorda sia superiore all'importo della propria detrazione per lavoro dipendente. Inoltre, per espressa previsione del Decreto legge, il credito "è rapportato al periodo di lavoro nell'anno". Per questo motivo il credito dovrà essere calcolato in relazione alla durata del rapporto di lavoro, considerando il numero di giorni lavorati nell'anno.
I sostituti d'imposta riconosceranno il credito spettante ai beneficiari a partire dalle retribuzioni erogate nel mese di maggio. Nel caso in cui ciò non sia possibile per ragioni tecniche legate alle procedure di pagamento degli stipendi, i sostituti riconosceranno il credito a partire dalle retribuzioni del mese di giugno, ma dovranno comunque assicurare al lavoratore tutto il credito spettante nel corso del 2014.
I soggetti titolari nel corso dell'anno 2014 di redditi di lavoro dipendente, le cui remunerazioni sono erogate da un soggetto che non è sostituto di imposta, tenuto al riconoscimento del credito in via automatica, e tutti i soggetti il cui rapporto di lavoro si è concluso prima del mese di maggio, potranno chiedere il credito nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta 2014, utilizzarlo in compensazione, oppure richiederlo a rimborso.
I contribuenti che non hanno i requisiti per ricevere il bonus, ad esempio perché hanno un reddito complessivo superiore a 26 mila euro per via di altri redditi (oltre a quelli erogati dal sostituto d'imposta), devono comunicarlo al sostituto che recupererà il credito nelle successive buste paga. Se un contribuente ha comunque percepito un credito in tutto o in parte non spettante dovrà restituirlo nella dichiarazione dei redditi.
I soggetti titolari nel 2014 di redditi da lavoro dipendente, le cui remunerazioni sono erogate da un soggetto che non è sostituto di imposta, tenuto al riconoscimento del credito in via automatica, per esempio le colf casalinghe, e tutti i soggetti il cui rapporto di lavoro si è concluso prima di maggio, potranno chiedere il credito nella dichiarazione dei redditi 2014, utilizzarlo in compensazione, o richiederlo a rimborso.
Per consentirne una rapida fruizione da parte dei beneficiari, il decreto prevede che il credito sia riconosciuto automaticamente da parte dei datori di lavoro, senza attendere alcuna richiesta esplicita da parte dei beneficiari stessi. Il credito spettante è attribuito dai datori di lavoro ripartendone il relativo ammontare sulle retribuzioni erogate a partire dal primo periodo di paga utile successivo alla data di entrata in vigore del decreto.
I sostituti di imposta devono determinare la spettanza del credito e il relativo importo sulla base dei dati reddituali a loro disposizione. In particolare, i sostituti d’imposta devono effettuare le verifiche di spettanza del credito e del relativo importo in base al reddito previsionale e alle detrazioni riferiti alle somme e valori che il sostituto corrisponderà durante l’anno, nonché in base ai dati di cui i sostituti d’imposta entrano in possesso, ad esempio, per effetto di comunicazioni da parte del lavoratore, relative ai redditi rivenienti da altri rapporti di lavoro intercorsi nell’anno 2014.
Il credito “è rapportato al periodo di lavoro nell’anno”. Per tale ragione, ove ricorrano i presupposti per fruirne, il credito di euro 640, o il minore importo spettante per effetto della riduzione prevista per i titolari di reddito complessivo superiore a euro 24.000 ma non a euro 26.000, deve essere rapportato in relazione alla durata, eventualmente inferiore all’anno, del rapporto di lavoro, considerando il numero di giorni lavorati nell’anno.
Al riguardo si precisa che il calcolo del periodo di lavoro nell’anno 2014 va effettuato tenendo conto delle ordinarie regole applicabili a ciascuna tipologia di reddito beneficiaria, non prevedendo il decreto delle deroghe a tal riguardo.
Il bonus (che non concorre alla formazione del reddito) andrà ai lavoratori dipendenti e assimilati la cui imposta lorda sia superiore all'importo della propria detrazione per lavoro dipendente. Inoltre, per espressa previsione del Decreto legge, il credito "è rapportato al periodo di lavoro nell'anno". Per questo motivo il credito dovrà essere calcolato in relazione alla durata del rapporto di lavoro, considerando il numero di giorni lavorati nell'anno.
Il datore di lavoro (sostituto d’imposta) utilizza, fino a capienza, l’ammontare complessivo delle ritenute disponibile in ciascun periodo di paga e, per la differenza, i contributi previdenziali dovuti per il medesimo periodo di paga, in relazione ai quali, limitatamente all’applicazione del presente articolo, non si procede al versamento della quota determinata ai sensi del presente articolo, ferme restando le aliquote di computo delle prestazioni.
“L’INPS recupera i contributi non versati dai datori di lavoro alle gestioni previdenziali rivalendosi sulle ritenute da versare mensilmente all’Erario nella sua qualità di sostituto
d’imposta.
I soggetti titolari nel corso dell'anno 2014 di redditi di lavoro dipendente, le cui remunerazioni sono erogate da un soggetto che non è sostituto di imposta, tenuto al riconoscimento del credito in via automatica, e tutti i soggetti il cui rapporto di lavoro si è concluso prima del mese di maggio, potranno chiedere il credito nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta 2014, utilizzarlo in compensazione, oppure richiederlo a rimborso.
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domenica 27 aprile 2014
Clausola penale nel contratto di agenzia?
Alla cessazione del rapporto di agenzia competono a favore dell’agente alcuni diritti.
Innanzitutto, si evidenzia che l’art. 1750 c.c. stabilisce che se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito.
In tal caso, se il recesso è posto in essere dal preponente, il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi.
E’ previsto inoltre che le parti possano concordare termini di preavviso di maggiore durata, ma il preponente non può osservare un termine inferiore a quello posto a carico dell'agente.
Anche gli accordi collettivi prevedono termini e forme di preavviso specifici e distinte, a seconda che si tratti di agente monomandatario o plurimandatario.
In ogni caso, nell’ipotesi in cui il preponente non voglia rispettare tali termini, potrà corrispondere all'agente un'indennità commisurata ai mesi di preavviso spettanti che quindi rappresenta il primo diritto in favore dell’agente al termine del rapporto.
In secondo luogo, l’agente ha diritto di ricevere alla cessazione del rapporto da parte del preponente un’indennità per la cessazione del rapporto medesimo.
Tale istituto è regolamentato dall’art. 1751 c.c. il quale è stato da ultimo modificato dai D.Lgs. n. 303/1991 e n. 65/1999 che hanno recepito la direttiva 86/653/CEE.
La clausola penale é una specifica pattuizione contrattuale collegata ed accessoria rispetto ad una o più obbligazioni principali con la quale si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il debitore sarà tenuto ad una certa prestazione, di norma consistente nella dazione di una somma di denaro.
Essa svolge la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di stabilire, in via preventiva, la prestazione dovuta per il caso di inadempimento o ritardo, con l’effetto di determinare e limitare a tale prestazione (sempreché non sia stata pattuita la risarcibilità del danno ulteriore) la misura del risarcimento dovuto, indipendentemente dalla prova della concreta esistenza del danno effettivamente sofferto (Cass. 6 novembre 1998, n. 11204). Tale patto accessorio trova la sua compiuta disciplina negli artt. 1382-1384 c.c.
Nell’ambito del contratto di agenzia, dunque, è molto diffuso dar luogo all’inserzione di tali clausole collegate all’adempimento di obblighi di non concorrenza specie dopo la cessazione del contratto. Peraltro, la domanda di applicazione di tale clausola che può essere azionata in giudizio da qualsiasi soggetto contraente va opportunamente distinta da quella di risoluzione del contratto per inadempimento giacché «la clausola penale si configura causalmente e negozialmente autonoma sia rispetto all’inadempimento, sia rispetto al danno».
Recessione contratto di lavoro per giusta causa in caso di cessione dell’azienda preponente
La cessione dell’azienda preponente può costituire per l’agente giusta causa di recesso dal contratto di agenzia quando il cessionario non offra una sufficiente sicurezza di solidità finanziaria e quindi non garantisca all’agente l’adempimento delle obbligazioni derivanti dalla prosecuzione del rapporto. Lo ha deciso il Tribunale di Roma nella sentenza n.6322 del 5 aprile 2011.
È molto interessante comprendere cosa avvenga qualora nell’ambito di un trasferimento d’azienda tra due società preponenti si inserisca un recesso per giusta causa dell’agente ceduto: ciò infatti comporta una responsabilità solidale del cedente per debiti in corso di maturazione alla data della cessione.
A tal proposito, si rammenta, innanzitutto, che costituisce principio assolutamente costante in giurisprudenza che, in materia di rapporto di agenzia, gli effetti del «trasferimento dell’azienda preponente ... sono disciplinati dalla normativa generale dell’art. 2558 c.c. e non dall’art. 2112 c.c. relativo al lavoro subordinato» (Cass. 16 novembre 2004, n. 21678 in Agenti & Rappresentanti, 2005, n. 1, pagg. 24-25).
Si ricordi a tal proposito che l’art. 2558 c.c. stabilisce che «se non é pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante». Tale norma considera effetto naturale della cessione d’azienda l’automatica successione in tutti i contratti, a prescindere dalla conoscenza che il cessionario ne abbia, salvo diversa pattuizione. La successione nei rapporti contrattuali riguarda quindi i contratti a prestazioni corrispettive in fase di esecuzione e deroga alla regola generale stabilita dall’art. 1406 c.c., secondo cui la cessione dei contratti necessita del consenso della controparte; infatti in caso di trasferimento d’azienda tale consenso non é necessario, salvo il diritto di recesso previsto dall’art. 2558, comma 2, c.c.
In tema di cessione d’azienda, tale disposizione riconosce il subingresso del cessionario in tutti i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda medesima che non abbiano carattere personale, salvo patto contrario. A tal proposito, risulta assolutamente prevalente in giurisprudenza l’indirizzo che identifica i contratti a carattere personale in quelli nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore alienante siano state in concreto determinanti per il consenso del terzo contraente, ossia nei quali, in considerazione dell’oggetto e della natura del negozio, la persona dell’alienante rivesta importanza tale da determinare la sua insostituibilità (Cass. 12 aprile 2001, n. 5495; Cass. 26 febbraio 1994, 1975 in motivazione). Si tratta di una categoria alla quale appartengono sia i contratti a prestazione oggettivamente infungibile (ad es. i contratti d’opera intellettuale o artistica), sia i contratti a prestazione soggettivamente infungibile, cioè considerata in concreto tale dalle parti. Per quanto ivi interessa, comunque, la giurisprudenza maggioritarie ha escluso il contratto di agenzia dalla categoria dei contratti a carattere personale, ricomprendendo tale tipologia negoziale nell’ambito di applicazione dell’art. 2558 c.c. (Cass. 16 maggio 2000, n. 6351; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1975).
Si osservi peraltro che la medesima giurisprudenza ha rilevato che «l’acquirente subentra nei contratti di agenzia stipulati dall’alienante per l’esercizio della azienda, ai sensi dell’art. 2558 cod. civ., solo se fra le parti del contratto di cessione non siano intervenuti patti diversi intesi alla novazione dei precedenti contratti» (Cass. 16 maggio 2000, n. 6351).
Alla luce di tali principi la società che cede un contratto di agenzia deve rispondere dei debiti esistenti, maturati ed esigibili, nei confronti dell’agente solo fino alla data della cessione escludendo di converso la responsabilità in solido con la società cessionaria per i debiti futuri e non esistenti al momento dell’intervenuta cessione.
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Patto di non concorrenza nell’ambito dei rapporti di agenzia
La Corte di Cassazione con sentenza della sez. lav. 5 giugno 2000, n.7481, ha confermato il precedente indirizzo secondo il qual qualora un contratto di agenzia preveda sin dall’inizio il conferimento conferisca all’agente anche di un incarico alla riscossione, deve presumersi – attesa la natura corrispettiva del rapporto – che il compenso per tale attività sia già stato compreso nella provvigione pattuita, che deve intendersi determinata in relazione al complesso dei compiti affidati all’agente. La medesima attività andrà separatamente compensata nel caso in cui il relativo incarico sia stato conferito all’agente nel corso del rapporto e costituisca una prestazione accessoria ulteriore rispetto a quella originariamente prevista nel contratto.
Il patto di non concorrenza stipulato tra agenti di assicurazione è valido solo nell'ambito della medesima zona e clientela, mentre deve ritenersi nullo per le parti eccedenti, con esclusione di ogni derogabilità da parte degli usi e dalla contrattazione collettiva attesa la natura indisponibile alle parti della previsione di cui all'art. 1751 bis, primo comma, cod. civ.
Innanzitutto, occorre rammentare che in origine ad esso si applicava il regime previsto dall’art. 2596 c.c. secondo cui «il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso é valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni», non prevedendosi all’epoca alcun compenso in favore dell’agente.
La giurisprudenza sul punto ha riconosciuto univocamente che «l’art. 2125 c.c., che disciplina il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto, riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato e, pertanto, non può applicarsi ad ipotesi diverse, come quella del rapporto di agenzia, dato che l’agente non è un lavoratore subordinato, ma (di norma) un imprenditore, essendo in tali ipotesi applicabile, invece, l’art. 2596 c.c., secondo cui il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto, deve essere circoscritto ad una determinata zona e non può eccedere la durata di cinque anni» (Cass. 24 agosto 1991, n. 9118; Cass. 6 novembre 2000, n. 14454). Con l’introduzione dell’art. 1751 bis cod. civ., ad opera del D.Lgs. 10 settembre 1991, n. 303 (attuativo della Direttiva CEE n. 86 del 1986), il legislatore italiano é poi intervenuto a disciplinare il patto di non concorrenza nel contratto di agenzia. Ai fini della validità del patto in questione, la norma citata richiede la forma scritta, una durata massima di due anni e che il patto riguardi la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi oggetto del contratto di agenzia.
Recentemente la disposizione è stata ulteriormente rinnovata dall’art. 23, Legge Comunitaria 29 dicembre 2000, n. 422 che ha modificato l’art. 1751 bis c.c., riconoscendo espressamente il diritto dell’agente ad un’indennità, di natura non provvigionale, a titolo di corrispettivo dell’obbligo di non concorrenza. Inoltre, la medesima disposizione prevede una serie di criteri per la determinazione del corrispettivo del patto di non concorrenza affidandola prima alle parti, che dovranno tener conto della durata del patto, della natura del rapporto nonché, qualora applicabili al caso specifico, di quanto previsto dagli AEC. La norma novellata, inoltre, rimette all’equità del giudice la determinazione del corrispettivo in assenza di accordo tra le parti. Tali disposizioni, tuttavia, soffrono di alcune limitazioni: innanzitutto si applicano esclusivamente agli agenti che esercitino in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con un solo socio, nonché, ove previsto da accordi economici nazionali di categoria, a società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente da agenti commerciali. E, in secondo luogo, tale disciplina vale esclusivamente per i patti di non concorrenza stipulati dopo l’entrata in vigore di tale norma, vale a dire dal 1° giugno 2001.
Ogni condotta di concorrenza è tenuta dall'imprenditore nella piena consapevolezza del danno che essa può arrecare al proprio concorrente ed è, anzi, finalizzata a questo obiettivo e solo una malintesa concezione dell'attività imprenditoriale può arrivare ad immaginare una concorrenza non finalizzata alla eliminazione del concorrente dal mercato.
Con particolare riguardo allo storno di dipendenti, va affermato il pieno diritto di ogni imprenditore di sottrarre dipendenti al concorrente, purché ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente.
Evoluzione della clausola star del credere
Tutti i tipi di contratto possono essere promossi da un agente (contratto di compravendita, contratto di locazione, contratto di appalto etc.) fermi restando alcuni elementi essenziali: promozione di contratti, zona, stabilità e continuità dell’attività dell’agente, onerosità.
Il requisito della stabilità obbliga l’agente ad attivarsi in modo continuativo per eseguire il contratto. L’ambito di attività dell’agente è delimitato in senso geografico e in relazione ai soggetti da contattare, individuati nominativamente o per categorie (ad esempio: grande distribuzione).
La clausola dello star del credere è stata eliminata per effetto della L. 21.12.1999, n. 526 che ha aggiunto il c. 3 all’art. 1746 del Codice Civile, che così recita: “È vietato il patto che ponga a carico dell’Agente la responsabilità, anche solo parziale, per l’inadempimento del terzo. È però consentito eccezionalmente alle parti di concordare di volta in volta la con¬cessione di una apposita garanzia da parte dell’Agente, purché ciò avvenga con riferimen¬to a singoli affari, di particolare natura e importo, individualmente determinati; l’obbligo di garanzia assunto dall’Agente non sia di ammontare più elevato della provvigione che per quell’affare l’Agente medesimo avrebbe diritto a percepire; sia previsto per l’Agente un apposito corrispettivo”.
Elementi naturali del contratto, anche in mancanza di espressa previsione: sopportazione delle spese per l’esecuzione del contratto da parte dell’agente, divieto di riscossione, esclusiva.
La sentenza n. 3902, pronunciata dalla Corte di cassazione il 20/4/99, si è occupata del patto dello star per credere (che, talvolta, viene inserito nei contratti di agenzia), introducendo alcuni limiti a tutela dell'agente.
Cosa sia un contratto di agenzia è abbastanza noto: una parte (l'agente) assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra (il preponente) e verso una retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. La retribuzione dell'agente è normalmente commisurata a provvigioni, cioè a percentuali sul fatturato procurato al preponente mediante la stipulazione dei contratti promossi dall'agente. Tuttavia, la legge stabilisce che il diritto dell'agente alla provvigione si configura solo con riguardo agli affari che hanno avuto regolare esecuzione; se l'affare ha avuto esecuzione parziale, la provvigione spetta all'agente in proporzione alla parte eseguita; dunque, nulla spetta all'agente per il caso in cui l'affare da lui promosso non abbia avuto alcuna esecuzione.
Il patto dello star per credere prevede invece che, nel caso di affari non andati a buon fine, l'agente non solo non percepisca alcuna provvigione; ma, in questo caso, l'agente è tenuto a sopportare in parte le perdite conseguentemente subite dal preponente, e ciò a prescindere dal fatto che la mancata esecuzione dell'affare dipenda, oppure no, da dolo o colpa dell'agente. Si vede, dunque, che tramite questo patto il preponente trasferisce, almeno in parte, il rischio d'impresa in capo all'agente.
Al fine di limitare tale trasferimento (che, il ripetersi, prescinde dal dolo o dalla colpa dell'agente), l'art. 6 dell'accordo collettivo 20/6/56 ha disposto che l'agente possa essere obbligato a rispondere delle perdite subite dal preponente per gli affari non andati a buon fine solo fino al 20% del danno subito dal preponente stesso. Il DPR 16/1/61 n. 145 ha conferito al citato accordo collettivo efficacia erga omnes, attribuendo dunque a tale accordo una efficacia simile a quella della legge.
Questo è il quadro normativo di riferimento, che la citata sentenza della Corte di cassazione ha dovuto tener presente per risolvere il caso di un agente che aveva sottoscritto un patto dello star per credere che prevedeva una limitazione superiore a quella consentita dall'accordo collettivo sopra richiamato. La Corte di cassazione ha dichiarato la nullità parziale di tale patto, nella parte in cui era appunto prevista la responsabilità dell'agente in misura superiore al 20%. La suprema Corte ha anche precisato che la parziale nullità del patto deve essere affermata qualunque sia lo strumento negoziale utilizzato dalle parti per stipulare il patto dello star per credere. Inoltre, è stato affermato che a diverse conclusioni non si potrebbe pervenire neppure qualora il patto fosse correlato alla generica violazione degli obblighi imposti all'agente dall'art. 1746 c.c..
Infatti, tale norma prevede genericamente che l'agente è tenuto ad adempiere l'incarico affidatogli in conformità alle istruzioni ricevute, oltre a dover fornire al preponente ogni informazione utile per valutare la convenienza di ciascun affare e, in particolare, le informazioni relative alle condizioni del mercato nella zona assegnatagli. Evidentemente, la Corte ha considerato che tali obblighi sono troppo generici per fondare su di essi la responsabilità dell'agente per gli affari non andati a buon fine. In altre parole, la violazione di questi obblighi non può legittimare il risarcimento dei danni conseguentemente subiti dal preponente in misura superiore a quella consentita dal citato accordo collettivo.
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Agente di commercio e il concetto di giusta causa
L’agente promuove la conclusione di contratti per conto del preponente svolgendo attività di ricerca della potenziale clientela, di descrizione e di pubblicizzazione dei prodotti per portare il cliente a poter formulare una determinata proposta, conforme alle aspettative del preponente. Se munito del potere di rappresentanza, l’agente conclude i contratti per conto del preponente.
Il concetto di giusta causa trae il suo fondamento giuridico dall’art. 2119 c.c. Al riguardo, l’orientamento è ormai pacifico nel considerare che anche il rapporto di agenzia possa essere risolto appunto per giusta causa in virtù dell’applicazione analogica al contratto di agenzia proprio del menzionato art. 2119 c.c. (tra le tante v. Cass. 12 dicembre 2001, n. 15661; Cass. 12 giugno 2000, n. 7986; Cass. 28 marzo 2000, n. 3738; nel merito, la recentissima Trib. Siracusa 3 febbraio 2004 in Agenti & Rappresentanti, 2004, n. 5, pag. 33 e 34).
La sentenza n. 4817, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 18/5/99, si è occupata di questo problema, enunciando principi rilevanti - oltre che nel caso di specie - in ordine ai rapporti tra legislazione nazionale e legislazione comunitaria.
Infatti, con riferimento agli agenti e alla obbligatorietà o meno dell'agente di essere iscritto ad un apposito albo, vi è una contraddizione tra le due discipline normative. Più precisamente, la L. 12/3/68 n. 316 dispone, per i soggetti che svolgano attività di agente, l'obbligo di iscrizione in un apposito albo; la successiva L. 9/5/85 n. 204 ribadisce il divieto di svolgimento dell'attività di agente per i soggetti non iscritti al ruolo. Al contrario, la direttiva comunitaria 86/653 del 18/12/86 sancisce il diritto degli agenti di commercio di svolgere la loro attività indipendentemente dall'iscrizione in appositi albi.
Sulla scorta di questa normativa di riferimento, nel caso specifico un soggetto aveva di fatto svolto attività di agente di commercio per una società, senza essere iscritto al corrispondente ruolo. Non avendo ricevuto tutti i compensi dovuti, l'agente di fatto si era rivolto al giudice del lavoro per ottenerne il pagamento. Tuttavia, il Tribunale di Roma rigettava la domanda, richiamando la normativa italiana sopra citata e, conseguentemente, ritenendo nullo il contratto di agenzia di fatto stipulato da un soggetto non iscritto all'albo.
La sentenza del Tribunale è stata però riformata dalla Corte di cassazione. Con la pronuncia prima indicata, la suprema Corte ha infatti ritenuto inapplicabile le leggi 316/68 e 204/85, in quanto contrastanti con la direttiva comunitaria. La Corte ha anche fatto riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 30/4/98, secondo cui la citata direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia alla iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo.
La Corte di cassazione ha ritenuto che tanto la sentenza della Corte di Giustizia, quanto la direttiva comunitaria devono ritenersi produttive di effetti nel nostro ordinamento. E' vero infatti che solo attraverso un regolamento la Comunità è in grado di dettare norme uniformi e capaci di inserirsi immediatamente negli ordinamenti nazionali. Tuttavia, prosegue la Corte, anche alle direttive comunitarie deve essere riconosciuta un'efficacia diretta, qualora esse presentino un contenuto sufficientemente preciso e non condizionato. Questa condizione si verifica allorquando la direttiva sancisca un obbligo in termini chiari e non soggetto ad alcuna condizione, né subordinato - in relazione alla sua osservanza o ai suoi effetti - all'emanazione di alcun atto da parte degli Stati membri o delle istituzioni della Comunità.
Pertanto, conclude la Corte, il giudice italiano deve disapplicare la norma nazionale in conflitto con la direttiva comunitaria, ove questa riguardi un rapporto fra Stato e privati. Poiché la normativa italiana sopra richiamata riguarda evidentemente il rapporto tra lo Stato e gli agenti, quindi un soggetto privato, deve ritenersi che rispetto a questa norma la direttiva comunitaria abbia efficacia diretta, con conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disposizione interna incompatibile.
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Agente di commercio e contratto di agenzia
Vediamo quali sono i diritti dell'agente al termine del rapporto di lavoro e alla cessazione del rapporto di agenzia competono a favore dell’agente alcuni diritti.
Il contratto di agenzia è un contratto tipico, disciplinato dalla contrattazione collettiva (oggi attraverso gli Accordi economici collettivi, cd. a.e.c. di diritto comune) e dal codice civile. Si instaura quando “una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata” (art. 1742 c.c.).
Si evidenzia che l’art. 1750 c.c. stabilisce che se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all'altra entro un termine stabilito.
In tal caso, se il recesso è posto in essere dal preponente, il termine di preavviso non può comunque essere inferiore ad un mese per il primo anno di durata del contratto, a due mesi per il secondo anno iniziato, a tre mesi per il terzo anno iniziato, a quattro mesi per il quarto anno, a cinque mesi per il quinto anno e a sei mesi per il sesto anno e per tutti gli anni successivi.
E’ previsto inoltre che le parti possano concordare termini di preavviso di maggiore durata, ma il preponente non può osservare un termine inferiore a quello posto a carico dell'agente.
Anche gli accordi collettivi prevedono termini e forme di preavviso specifici e distinte, a seconda che si tratti di agente monomandatario o plurimandatario.
In ogni caso, nell’ipotesi in cui il preponente non voglia rispettare tali termini, potrà corrispondere all'agente un'indennità commisurata ai mesi di preavviso spettanti che quindi rappresenta il primo diritto in favore dell’agente al termine del rapporto.
In secondo luogo, l’agente ha diritto di ricevere alla cessazione del rapporto da parte del preponente un’indennità per la cessazione del rapporto medesimo.
Tale istituto è regolamentato dall’art. 1751 c.c. il quale è stato da ultimo modificato dai D.Lgs. n. 303/1991 e n. 65/1999 che hanno recepito la direttiva 86/653/CEE.
Ad integrare l’articolo in esame intervengono gli accordi economici collettivi di settore. Questi disciplinano l’indennità di cessazione del rapporto prevedendo due distinte voci che, sino all’ultimo rinnovo (avvenuto nel febbraio 2002 per il settore commercio e nel marzo dello stesso anno per l’industria), erano del tutto svincolate da ogni valutazione meritocratica circa l’attività prestata dall’agente, vale a dire il il (fondo indennità risoluzione rapporto) o indennità di scioglimento del rapporto, da corrispondere sempre e comunque all’agente alla cessazione dello stesso, con liquidazione a carico dell’Enasarco presso cui il preponente – durante il contratto, anno per anno – deve accantonare le relative somme da determinarsi in percentuale sulle provvigioni, e la c.d. indennità suppletiva di clientela, in aggiunta al f.i.r.r.,da corrispondere solo se il contratto si scioglie su iniziativa del preponente per fatto non imputabile all’agente con liquidazione a carico del preponente e non dell’Enasarco.
Come detto, tale sistema è stato modificato innanzitutto dal D.Lgs. n. 303/1991 e successivamente dal D.Lgs. n. 65/1999 i quali hanno dato attuazione alla direttiva comunitaria n.653 del 1986. Attualmente, l’art. 1751 c.c. stabilisce che il preponente, all’atto della cessazione del rapporto, è tenuto a corrispondere all’agente medesimo un’indennità se:
a) l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
b) il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.
In sostanza, si richiede la persistenza - al momento della cessazione del rapporto - di un portafoglio clienti procurato dall’agente, dal quale trae indubbio vantaggio la casa mandante. In quest’ottica, la prima condizione considera il vantaggio che il preponente ricava dalla disponibilità di questo portafoglio; la seconda considera la perdita, in termini di provvigioni, che l’agente subisce dalla cessazione del rapporto.
Peraltro, il diritto all’indennità in questione è subordinato alla sussistenza di entrambe le predette condizioni (ossia, l’apporto di clientela e l’equità), considerato che la modifica dell’art. 1751 c.c., introdotta dal D.Lgs n. 65/99, ha ancorato il menzionato diritto a criteri prettamente meritocratici (cfr. in tal senso Cass. 5467/00).
L’ aggiornato art. 1751 c.c., inoltre, stabilisce che:
l’indennità non è dovuta quando il preponente risolve il contratto per grave inadempienza dell’agente che, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto oppure quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze per le quali non può essergli chiesta ragionevolmente la prosecuzione dell’attività (ad es. infermità o malattia);
il relativo importo non può superare una cifra pari ad una indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi 5 anni e, se il contratto risale a meno di 5 anni, sulla media del periodo in questione;
le disposizioni in esso contemplate non possono essere derogate a svantaggio dell’agente.
La giurisprudenza ha stabilito che la riformata disciplina dell’indennità di fine rapporto può essere derogata dalla contrattazione individuale e collettiva, purché ovviamente non a svantaggio dell’agente (Cass. 10659/00). Può quindi essere consentita alla contrattazione collettiva una deroga pattizia dei criteri di cui all’art. 1751 poiché l’inderogabilità ivi prevista è solo in peius (Cass.11402/00).
Peraltro, neppure a seguito dell’ultimo rinnovo dei principali A.E.C., che pure hanno cercato di recepire in parte le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza, è venuto meno il dibattito circa il carattere migliorativo o meno delle disposizioni pattizie in materia rispetto alla previsione legale.
Per quanto riguarda, infine, l’ipotesi di un recesso per giusta causa imputabile al preponente, l’agente può invocare tale fattispecie per escludere ogni suo obbligo nei confronti del preponente, in particolare quello di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso.
Al riguardo, si ricordi che essa si verifica allorché venga posto in essere da parte di un contraente un inadempimento di gravità tale da non consentire neanche in via provvisoria la prosecuzione del rapporto in essere.
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I dettagli del bonus Irpef: a partire da maggio 2014
Il decreto Irpef taglia il traguardo: permetterà ai lavoratori dipendenti con redditi fino a 24mila euro di percepire un bonus di 80 euro al mese fino a dicembre, ma non solo. Il decreto istituisce anche un fondo per rendere strutturale la riduzione del cuneo fiscale, con una dotazione di 2,7 miliardi nel 2015 e di 4,7 miliardi nel 2016. Il provvedimento non riguarda però solo l'Irpef, ma anche le rendite finanziarie, che da luglio saranno soggette a una tassazione più pesante, i debiti della Pa, l'edilizia scolastica, il contrasto all'evasione, e la razionalizzazione della spesa pubblica.
Nel testo è stato confermato il bonus di 80 euro al mese per gli stipendi fino a 24mila euro lordi l’anno, fino a dicembre 2014, per un totale di 640 euro. Restano esclusi gli incapienti, ossia coloro che non pagano l’Irpef perché l’imposta lorda determinata sui redditi è di importo inferiore a quello della detrazione spettante con reddito lordo annuo sotto gli 8mila euro così come restano fuori le Partite IVA, per i quali ci si impegna ad un decreto successivo. Bonus decrescenti, fino a zero previsti per i redditi da 24mila euro a 26mila euro.
Viene quindi riconosciuto un credito, che non concorre alla formazione del reddito, di importo pari a:
• 640 euro, se il reddito complessivo non è superiore a 24.000 euro;
• 640 euro, se il reddito complessivo è superiore a 24.000 euro ma non a 26.000 euro, in questo caso il credito spetta per la parte corrispondente al rapporto tra l’importo di 26.000 euro, diminuito del reddito complessivo, e l’importo di 2.000 euro.
Vediamo come funziona il bonus 2014, il cosiddetto bonus monetario che i lavoratori dipendenti si ritroveranno nelle buste paga a partire da maggio. Il Governo lo definisce impropriamente credito d’imposta (perché operativamente sarà un importo detratto dalle ritenute future operate dai sostituti d’imposta o, se insufficienti, dai contributi dai contributi previdenziali dovuti) e, altrettanto impropriamente, per attuarlo normativamente, interviene sulla disciplina dell’Irpef. Ma in realtà il “bonus” non modifica la struttura dell’Irpef, ed è collegato all’imposta personale unicamente perché il suo ammontare è legato al reddito complessivo a fini Irpef. La soluzione prescelta non è stata dunque quella inizialmente ipotizzata di agire attraverso un rafforzamento della detrazione Irpef da lavoro dipendente. E neppure quella di operare sui contributi sociali introducendo un’aliquota ridotta fino a una certa soglia di reddito e fiscalizzando lo sconto a fini previdenziali.
Il secondo elemento qualificante è la delimitazione della platea dei beneficiari del “bonus”. Sono i lavoratori dipendenti e gli assimilati (come i co.co.pro), ma tra questi sono esclusi i contribuenti con l’imposta lorda Irpef minore o uguale alla sola detrazione da lavoro (cioè quelli che hanno redditi inferiori a 8.145 euro se percepiti per l’intero anno, circa 3 milioni di soggetti. Restano fuori anche i pensionati.
Infine, la scalettatura del beneficio è variabile a seconda del reddito complessivo Irpef del lavoratore dipendente. In particolare, il “bonus” per il 2014 è pari a zero se il reddito complessivo, percepito per l’intero anno, è inferiore a 8.145 euro (la fascia dell’incapienza, come sopra specificato), a 640 euro costanti per i redditi compresi tra 8.145 e 24mila euro (circa 10 milioni di contribuenti); superata tale soglia, il “bonus” decresce in modo lineare e assai repentino fino ad azzerarsi a 26mila euro (circa 1,3 milioni di contribuenti).
Il beneficio massimo in termini di aumento di reddito netto, pertanto, è pari a 640 euro all’anno: sono circa 53 euro mensili, che diventano esattamente 80 se si considera il fatto che il beneficio per il 2014 non vale per tutto il periodo d’imposta, ma solo per i mesi che vanno da maggio a dicembre. Il costo della misura è pari a circa 7 miliardi, non poco se si considera il gettito complessivo Irpef.
Se il “bonus” dovesse essere confermato anche per il 2015, l’andamento del credito per l’anno intero dovrebbe avere l’andamento della linea rossa del grafico 1 con un beneficio annuo massimo pari 960 euro annui (sempre 80 euro mensili). In questo caso, il costo sarebbe un po’ superiore ai 10 miliardi di euro, che salirebbero a circa 13 se il “bonus” dovesse essere esteso nella medesima misura anche ai contribuenti incapienti.
Pregevole è innanzitutto che agli annunci del presidente del Consiglio siano seguiti in tempi brevi i fatti: gli 80 euro in più (su base mensile) sono ora realtà per ben 10 milioni di dipendenti: rispetto alla dispersione in micro-interventi del Governo Letta questa è un cambio di passo riconoscibile. Certo, la promessa è stata mantenuta solo in parte: l’annuncio originario di metà marzo lasciava intendere che i mille euro in più sarebbero stati recapitati a tutti i dipendenti con redditi minori di 25 mila euro, incapienti compresi. Ma la coperta finanziaria era evidentemente troppo stretta per includere anche i redditi più bassi, e si è preferito concentrare le risorse disponibili su un insieme comunque ampio di lavoratori (8-24mila euro).
Positiva è tutto sommato la scelta tecnica di aver veicolato la nuova misura attraverso un“bonus”, e non mediante un intervento sulle detrazioni Irpef. Data l’urgenza dell’intervento e l’indisponibilità di risorse finanziarie per affrontare in modo adeguato la questione degli incapienti, quella di evitare di intaccare in modo frettoloso gli elementi costitutivi dell’Irpef è stata una decisione prudenziale. Peraltro, il provvedimento dichiara apertamente che si tratta di una soluzione temporanea, preannunciando un intervento strutturale da realizzare con la Legge di stabilità per il 2015, quando anche il quadro delle coperture finanziarie sarà, si spera, più solido.
La scelta del “bonus” in luogo del rafforzamento della detrazione per redditi da lavoro, inizialmente ipotizzata, permette poi di includere tra i beneficiari anche alcuni lavoratori incapienti. Potranno infatti ricevere il bonus, anche se incapienti, i lavoratori con redditi superiori a 8.145 euro che non sono incapienti per la sola detrazione da lavoro, ma che lo diventano considerando anche altre tipologie di detrazioni, come quelle per carichi familiari (circa 1,1 milioni di soggetti).
Dall’altra parte, l’introduzione del “bonus” denuncia tutta una serie di criticità, legate soprattutto alla sua natura emergenziale, di misura da adottare a tamburo battente per dare un segno tangibile di cambiamento, che comporteranno la necessità di ritornarci sopra a breve in modo più strutturale.
Per ragioni di compatibilità finanziaria e, non da ultimo, di complessità operative, si è scelto, come detto, di rinviare al futuro l’attribuzione del beneficio anche ai redditi più bassi che per ora restano fuori dal perimetro dei beneficiari. Quello degli incapienti è un problema a lungo dibattuto, la cui mancata soluzione comporta problemi di iniquità fiscale e di indebolimento degli effetti macroeconomici di rilancio della domanda interna, nella misura in cui sono i lavoratori più poveri quelli ad avere la maggiore propensione al consumo.
È poi lo stesso disegno del bonus che desta qualche perplessità; anche se è svincolato dalla struttura dell’Irpef, la variazione di reddito disponibile (cioè tenendo conto sia del bonus sia del prelievo Irpef) al variare del reddito complessivo produce un effetto indesiderato: nella fascia 24-26mila euro: in soli 2mila euro l’ammontare del “bonus” crolla dal suo livello massimo a zero, comportando aliquote marginali effettive (Irpef + “bonus”) pari al 63,5 per cento su base annua con il bonus erogato per otto mesi come sarà effettivamente nel 2014 (ma che sfiorano l’80 per cento su base annua con il bonus erogato per dodici mesi “a regime”), contro un’aliquota Irpef che in questa fascia di reddito è attualmente pari al 31,5 per cento In questa ristretta fascia di reddito, in cui ricadono circa 1,3 milioni di contribuenti, un’ora di straordinario sarà dunque drammaticamente disincentivata. Per contro, in tutte le altre fasce di reddito le aliquote marginali effettive non cambiano.
Infine, c’è da osservare che il bonus è applicato indistintamente, a parità di reddito, a tutti i contribuenti interessati. Per esempio, lo stesso bonus verrà riconosciuto sia a un dipendente single sia, se con eguale reddito, a lavoratore con moglie e figli a carico. Si tratta insomma di una serie di distorsioni che rendono difficile immaginare che il bonus in questa forma avrà lunga vita, e che invece richiedono, superate le urgenze di questa fase, un intervento più strutturale nell’ambito dell’Irpef.
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mercoledì 23 aprile 2014
Calcolo 80 euro in busta paga da maggio 2014
Al momento dell'annuncio della misura, il premier Renzi è stato chiaro: l'aumento in busta paga di 80 euro sarà a beneficio di coloro che guadagnano meno di 1.500 euro al mese. Ma il bonus dovrebbe essere definito a seconda di fasce di reddito stabilite. Per chiarire, il bonus sarà erogato dal datore di lavoro sotto forma di credito e non, dunque, sotto forma di riduzione delle tasse da lavoro da versare e dovrebbe essere in vigore già dal prossimo mese di maggio.
Tornando alle fasce di reddito individuate, per quelli che percepiscono un reddito annuo fino a 8.000 euro, che avrebbero un reddito mensile netto di 407 euro, il bonus mensile dovrebbe essere di 25 euro; per chi percepisce tra gli 8.000 e i 12.000 euro all'anno e ha uno stipendio netto mensile medio di 750 euro, il bonus dovrebbe essere di 92 euro; che sale a 97 euro per chi invece ha in reddito compreso tra i 12.000 e i 15.000 euro all'anno.
Chi invece percepisce tra i 15.000 e i 20.000 euro l'anno e ha uno stipendio mensile medio di 1.250 euro, avrà un bonus di circa 83 euro; infine avrà un bonus di 60 euro chi ha un reddito annuo compreso tra i 20.000 e i 25.000 euro l'anno, cioè uno stipendio mensile di circa 1.416 euro. In questi casi il bonus scatta in maniera automatica, cosa che invece non accade in altri casi come, per esempio, per chi svolge un lavoro a contratto di collaborazione coordinata e continuativa da 12mila euro insieme ad un’altra occupazione.
Questo lavoratore se assunto da maggio a settembre con un contratto di lavoro subordinato compatibile con l’altro contratto e che riceve un compenso di 5mila euro, nel primo caso avrebbe un bonus da 480 euro, calcolando il 4% di 12mila euro; e nel secondo da 640 euro, prendendo però in considerazione entrambi i redditi percepiti, ma per ottenere il bonus deve comunicare i propri dati al datore di lavoro con cui ha il contratto da co.co.pro.
Il calcolo bonus Renzi che arricchirà le buste paga di milioni di italiani fino ad ottanta euro al mese per almeno tutto il 2014, è presto fatto.
Per chi ha una busta paga di 718,00 euro netti mensili il bonus equivale a 39,40 euro al mese e cioè 315,00 euro in più all'anno.
48,10 euro in più al mese invece per chi prende ad esempio 836,00 euro al mese e cioè 385,00 euro netti per l'anno 2014.
Per chi guadagna 1.063,00 euro al mese il bonus ammonta a 65,60 euro mensili e quindi 525,00 euro per quest'anno.
Per chi invece guadagna tra i 1.200,00 euro ai 1.609,00 euro al mese, ad esempio, vedrà riconoscersi un bonus pari a 80,00 euro al mese.
Oltre i 1.773,00 euro mensili, il bonus viene azzerato. Come detto prima restano fuori dal gettito positivo, coloro che sono stati definiti "incapienti" e cioè quelli che guadagnano meno di 8.000,00 euro netti all'anno.
Avere 80 euro in più in busta paga per almeno otto mesi è un bonus che giustifica una pensione più povera? I circa dieci milioni di lavoratori dipendenti che percepiranno la «mancia» del governo
Il taglio del cuneo fiscale può trasformarsi in una seccante partita di giro.
Ma proprio su un capitolo decisivo come quello previdenziale. Il perché è presto spiegato. Il decreto prevede che il tanto agognato bonus sia un «credito» e non una «detrazione». Le parole, in questo caso, sono importanti perché indicano che è compito del datore di lavoro (che in gergo fiscale si chiama «sostituto di imposta») individuare l'area nella quale effettuare il prelievo degli 80 euro da aggiungere alla busta paga.
La norma concede uno spazio di manovra abbastanza largo. Se, infatti, le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperire l'ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare» i soldi dai contributi previdenziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all'ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l'Inps) per costruire la futura pensione.
Sulla carta non dovrebbero esserci problemi perché la manovrina studiata dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e dal premier Matteo Renzi prevedrebbe che sia lo Stato a farsi carico di quei contributi. Spieghiamolo ancora meglio: se nella busta paga del dipendente le ritenute Irpef non superano gli 80 euro, il datore di lavoro può autonomamente decidere di prelevare in tutto o in parte quella cifra dai contributi previdenziali
Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tasse, ma i contributi previdenziali li versano ugualmente) e lavoratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell'aliquota contributiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni? Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione all'Agenzia delle entrate che successivamente avrebbe dovuto provvedere, a sua volta, a notificare la situazione all'Inps o a un altro ente. Questi ultimi constatano solamente che manca all'appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi carico di sanare lo sbilancio versando la parte residua.
Se ci si basasse sugli esempi del passato, la risposta dovrebbe essere negativa. La difficile situazione patrimoniale dell'istituto di previdenza pubblica è stata soprattutto generata dall'assorbimento dell'Inpdap, il vecchio ente previdenziale dei dipendenti pubblici. Negli anni scorsi lo Stato dichiarava di aver versato i contributi dei propri dipendenti senza, in realtà, provvedervi. Nell'imminenza dell'ingresso nell'euro, quei soldi furono trasformati in anticipazioni di cassa. I contributi «figurativi» si sono così trasformati in un pozzo senza fondo che hanno determinato 25 miliardi di passivo al cui ripianamento contribuiscono i lavoratori parasubordinati cui si chiede sempre un aumento dei versamenti.
Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui potrebbe mancare qualche «pezzo» (non trascurando che - con le attuali regole - solo i più fortunati otterranno il 60% dell'ultimo stipendio) ma soprattutto quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l'altra. Non si tratta del taglio alle detrazioni per il coniuge a carico e della stangata sulla Tasi, ma di un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi». Ecco, per avere circa 1.000 euro in più all'anno valeva la pena creare confusione e incertezza?
Se le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperire l’ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare » i soldi dai contributi previdenziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all’ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l’Inps) per costruire la futura pensione.
Se nella busta paga del dipendente le ritenute Irpef non superano gli 80 euro, il datore di lavoro può autonomamente decidere di prelevare in tutto o in parte quella cifra dai contributi previdenziali.
Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tasse, ma i contributi previdenziali li versano ugualmente) e lavoratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell’aliquota contributiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni?
Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione all’Agenzia delle entrate che successivamente avrebbe dovuto provvedere,a sua volta,a notificare la situazione all’Inps o a un altro ente. Questi ultimi constatano solamente che manca all’appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi carico di sanare lo sbilancio versando la parte residua. Ci si può fidare? Se ci si basasse sugli esempi del passato, la risposta dovrebbe essere negativa”.
De Francesco spiega poi un altro rischio: quello di un aumento delle aliquote contributive.
“Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui potrebbe mancare qualche «pezzo » (non trascurando che – con le attuali regole- solo i più fortunati otterranno il 60% dell’ultimo stipendio) ma soprattutto quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l’altra. Non si tratta del taglio alle detrazioni per il coniuge a carico e della stangata sulla Tasi, ma di un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi»”.
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martedì 15 aprile 2014
Contratto di lavoro flessibile cosa cambia con il Decreto lavoro n. 34/2014
È inammissibile perché trova la sua ratio politica nella stessa retorica che ha accompagnato ogni riforma del mercato del lavoro che è stata introdotta nel nostro ordinamento negli ultimi quindici anni e secondo cui con l’aumento della cosiddetta “flessibilità” si avrebbe come effetto un aumento dell’occupazione.
Ma non vi è alcun nesso causale tra l’aumento della flessibilità e l’aumento dell’occupazione. Se si osservano i dati sull’occupazione dal 2004 ad oggi vediamo che, al netto della crisi, la progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori ha avuto come unica conseguenza la perdita di potere contrattuale con un’incidenza sul reddito dei lavoratori a dir poco drammatica.
Dopo la Riforma del Lavoro del Governo Monti (elaborata dal Ministro Fornero) e le successive modifiche e integrazioni operate dal Governo Letta (Ministro Giovannini), il nuovo Esecutivo Renzi ha delineato un nuovo programma di riforme che interessano Mercato del Lavoro e Welfare, incentrato sul Jobs Act: testi, proposte di Sindacati e Confindustria, implicazioni per i dipendenti sulle modifiche all'Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Decreto Lavoro del governo Renzi (Decreto Legge Poletti 34/2014) ha modificato i contratti a termine, ridimensionando alcune novità della Riforma Lavoro 2012: l’obiettivo è rendere più flessibili le assunzioni a tempo determinato e quindi più vantaggiose per i datori di lavoro, incentivando una formula di occupazione più stabile rispetto ai contratti atipici, troppo spesso sinonimo di precarietà e più rispondente alle mansioni svolte rispetto a tante collaborazioni e consulenze a Partita IVA che mascherano un rapporto di lavoro subordinato. Le modifiche del Decreto, mirano a ridurre per l’azienda il rischio di contenziosi pur salvaguardando per il lavoratore le diverse tutele.
Per il giuslavorista Pietro Ichino, su questa nuova disciplina – che nei fatti produce una liberalizzazione dei contratti a termine – potrebbe sollevarsi un dubbio di compatibilità con le regole poste dalla Direttiva UE 99/70/CE visto che riduce drasticamente i limiti alla reiterazione di contratti. Inoltre, accentua la differenza reale tra assunti a termine e a tempo indeterminato.
Un limite superabile con l’inserimento nel DL della norma sull’indeterminato a protezioni crescenti, disponendo anche una «modesta indennità di cessazione proporzionata all’anzianità, sostitutiva del filtro giudiziale, identica per tempo indeterminato e determinato acausale. Solo in questo modo si otterrà di sdrammatizzare l’alternativa fra le due forme di contratto».
Un altro giuslavorista, Michele Tiraboschi, teme per il DL l’inefficacia nel lungo termine: «la liberalizzazione può produrre nel breve periodo maggiore occupazione, ma nel tempo questa deregolamentazione del contratto a termine indica mancanza di visione d’insieme su politiche e impianto sistematico del diritto del lavoro che, anche per il contratto di apprendistato, «sembra ora scardinato». In più, secondo Tiraboschi, invece di diminuirli la nuova norma potrebbe causare un aumento dei contenziosi: «liberalizzazione del termine non intacca il principio legislativo della centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato, con ciò aprendo la strada a interpretazioni restrittive dei giudici, specie sulle proroghe che non sono adeguatamente regolate».
Per Giuliano Cazzola (Università Ecampus), «la riforma del contratto a termine ridurrà il contenzioso. Prima il “causalone” sottoponeva le imprese alla roulette russa dei tribunali».Positivo anche il potenziamento della «centralità al momento dell’assunzione, sia rispetto al contratto a tempo indeterminato, sia nei confronti delle forme atipiche, il cui utilizzo è adesso a rischio di sanzione dopo le modifiche a “giro di vite” introdotte dalla legge n. 92 del 2012». Cazzola ritiene infine «meno interessante il ricorso ad un eventuale contratto unico a tempo indeterminato e a tutela crescente, perché ben pochi datori di lavoro ne faranno uso potendo avvalersi per un triennio di un contratto a termine liberalizzato e molto meno complicato, all’atto della risoluzione».
Garantire il salario minimo con una legge che preveda il carcere per i datori di lavoro che non la rispettano, un contratto nazionale che agisca solo qualora sul territorio non si siano raggiunti accordi di secondo livello così da aiutare la produttività e una “rivoluzione delle relazioni sindacali” che punti proprio sugli accordi di secondo livello.
Il D.L. n. 34/2014 è contrario alla normativa comunitaria (Direttiva 1999/70) in materia di contratti a tempo determinato.
Tale disciplina prevede che ciascuno degli Stati membri debba rispettare rigorosi principi di limitazione della temporaneità dei contratti e ribadisce la regola per cui il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato, vietando inoltre agli ordinamenti nazionali di porre riforme peggiorative in materia (“clausola di non regresso”).
La nuova disciplina prevede la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato a-causali (ovvero senza giustificazione) della durata complessiva di 36 mesi, all’interno dei quali è altresì possibile effettuare fino a 8 proroghe per ciascun contratto (con l’aberrante effetto di poter stipulare fino a 288 proroghe in 36 mesi senza motivazione alcuna – qui trovate un breve video che ne illustra le rovinose conseguenze).
Allo stesso modo è illegittima la riforma nella parte in cui viene modificato il contratto di apprendistato: eliminando ogni obbligo da parte dell’azienda di effettuare l’attività di formazione ai lavoratori apprendisti viene meno la causa stessa del contratto.
È evidente che nessuno assumerà più lavoratori con contratti a tempo indeterminato, così come evidente che i lavoratori assunti con questi nuovi tipi di contratti si guarderanno bene dall’avanzare richieste e rivendicare diritti sapendo che in qualsiasi momento potrebbero essere lasciati a casa.
Non è tollerabile perché in questo modo il diritto al lavoro perde definitivamente ogni valore e con esso buona parte dei principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento, dal momento in cui ogni accesso al lavoro avviene attraverso forme contrattuali che si fondano sul ricatto e lo sfruttamento della forza lavoro rispetto ai quali i lavoratori non avranno più alcuno strumento di difesa.
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martedì 8 aprile 2014
Documento di Economia e Finanza 2014 e gli 80 euro in busta paga
Al via il bonus del taglio Irpef con 80 euro in busta paga per lavoratori dipendenti da maggio 2014, nonché il taglio Irap del 10% per le imprese con il DEF 2014, il Documento di economia e finanza al varo del Consiglio dei Ministri.
Detrazioni Irpef con un risparmio fino a 80 euro mensili per 10-15 milioni di lavoratori dipendenti. Avvio della manovra di alleggerimento dell'Irap per le imprese. Aumento dell'aliquota per la tassazione del risparmio. Le novità sul pagamento dei debiti della Pa nei confronti delle aziende. Tetto agli stipendi per i dirigenti della Pubblica amministrazione. Interventi sui costi della sanità e sulle forniture di enti locali e altre amministrazioni.
Con gli 80 euro in busta paga ''gli italiani avranno la 14/ma grazie all'operazione di questo governo. E' giustizia sociale: in questi anni alcuni hanno preso tanto. Troppo. Ad esempio i manager pubblici. Che ora non potranno prendere più di quanto prende il Presidente della Repubblica''. E annunciando i tagli agli stipendi dei manager: "238.000 euro per chi lavora nel pubblico è più che sufficiente, è un elemento di limite che ci vuole, in questi anni si è totalmente sforato".
"Il 10 per cento della retribuzione la si prenderà solo se il paese va bene come le stock options nelle aziende. Non è possibile che un manager prenda un premio massimo se il paese va a rotoli. Da adesso inizia a pagare chi non ha mai pagato, è un'operazione di giustizia sociale". E parlando dei tetti agli stipendi pubblici: "Spero che anche gli organi costituzionali accettino l'equiparazione al presidente della Repubblica e abbiano la lungimiranza, il coraggio e l'intelligenza di tornare in sintonia col Paese".
Nel Def si legge che "l’effetto espansivo delle riforme si manifesterà debolmente nel 2014 per poi risultare via via più pronunciato negli anni successivi". Inoltre, il Pil raggiungerebbe gradualmente nel 2018 un livello di 2,1 punti percentuali più elevato. Nel 2015 la crescita sarà dell’1,3%, nel 2016 dell’1,6%, nel 2017 dell’1,8% e nel 2018 dell’1,9%.
Nel Def si legge che "l’effetto espansivo delle riforme si manifesterà debolmente nel 2014 per poi risultare via via più pronunciato negli anni successivi". Inoltre, il Pil raggiungerebbe gradualmente nel 2018 un livello di 2,1 punti percentuali più elevato. Nel 2015 la crescita sarà dell’1,3%, nel 2016 dell’1,6%, nel 2017 dell’1,8% e nel 2018 dell’1,9%.
Con il Def 2014 quindi ci sarà il “Taglio Irpef 10 miliardi a regime. I lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro di reddito lordi, circa 10 milioni di persone, avranno un ammontare di circa 1.000 euro netti annui a persona, attraverso coperture con la revisione della spesa”. Circa 10 miliardi quindi saranno destinati ad incrementare a partire dal 2015 l’aumento del reddito disponibile di lavoratori dipendenti e assimilati (co.co.co.) in modo da beneficiare, in particolare, i percettori di redditi medio-bassi. Già a partire da maggio 2014, in via transitoria i dipendenti che percepiscono oggi 1500 euro mensili netti da Irpef conseguiranno un guadagno in busta paga di 80 euro mensili.
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mercoledì 2 aprile 2014
Aspi e incentivi per i meno giovani
ASPI al datore di lavoro che assume il disoccupato cui spetta l'assegno previsto dalla Riforma Fornero la risposta è Si.
Il decreto n. 76/2013 prevede che le aziende che assumono a tempo indeterminato una persona alla quale spettava l'Aspi (cioè il sussidio nato con la Riforma Fornero) avranno diritto a percepire il 50% di questa indennità non ancora incassata dal disoccupato. Se un neo-assunto deve ancora ricevere 4 mesi di Aspi, per esempio, l'impresa avrà diritto a ottenere un bonus pari a 2 mensilità di assegno ASPI. Quindi , più alto è il numero di mensilità ancora da incassare, maggiore sarà anche il contributo ricevuto dall'azienda che decide di assumere.
Incentivi per disoccupati 2014 agevolazioni assunzione lavoratori ASPI, è una misura prevista dal DL 28 giugno 2013, n. 76, recante “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti”. Il decreto è stato successivamente convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 99 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.150 del 28-6-2013.
Gli incentivi per disoccupati 2014 ASPI consistono in agevolazioni assunzione lavoratori in disoccupazione, è un intervento che ha come obiettivo quello di facilitare e velocizzare l’occupazione attraverso una serie di incentivi per l’assunzione di giovani e per la ricollocazione sul lavoro di lavoratori disoccupati che fruiscono dell’indennità ASpI.
Tali incentivi, consistono in una serie di agevolazioni fiscali per i datori di lavoro che assumono full time e a tempo indeterminato, lavoratori che si trovano nello stato di disoccupazione, ovvero, che sono precettori dell'indennità ASpI, Assicurazione sociale per l’impiego.
Per chi assume lavoratori in ASpI è previsto per ogni mensilità pagata al lavoratore, un contributo mensile pari al 50% dell’indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Dal beneficio sono però esclusi i lavoratori licenziati, nei 6 mesi precedenti, da parte di imprese dello stesso o diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, abbiano un rapporto di collegamento o di controllo.
L'impresa che assume deve inviare alla sede INPS competente, la domanda di concessione incentivo per disoccupati allegando sotto la propria responsabilità, la dichiarazione di responsabilità secondo le disposizioni contenute nell'allegato della Circolare INPS n.175 del 18-12-2013 Incentivi per disoccupati.
Gli incentivi per disoccupati 2014 spettano ai datori di lavoro per le assunzioni a tempo pieno e indeterminato dei lavoratori in stato di disoccupazione che fruiscono dell'indennità ASpI e per coloro che avendo pur avendo presentato la domanda di concessione e avendone diritto, non hanno ancora ricevuto la prima indennità.
Inoltre, visto che il decreto è volto alla creazione di nuovi posti di lavoro full time a tempo indeterminato, le agevolazioni assunzioni possono essere fruite anche per i datori di lavoro che assumono lavoratori non precettori di ASpI purché disoccupati o inoccupati, e per i lavoratori titolari di ASpI che hanno sospeso l'indennità in conseguenza di un occupazione a tempo determinato.
Agli incentivi per disoccupati 2014 possono accedere tutte le imprese quali:
tutti i datori di lavoro
cooperative che instaurano con soci lavoratori un rapporto di lavoro in forma subordinata
imprese di somministrazione di lavoro con riferimento ai lavoratori assunti a scopo di somministrazione.
L’incentivo disoccupati 2014 consiste in un'agevolazione assunzione pari al 50% dell'importo dell'indennità residua ASpI, che il lavoratore avrebbe avuto diritto a percepire se non fosse stato assunto.
Tale importo, viene pagato direttamente dall'INPS mensilmente e spetta solo per i periodi in cui viene erogata la retribuzione al lavoratore. Pertanto, l'incentivo spetta in misura intera se il lavoratore viene retribuito per l'intero mentre in misura ridotta in caso di assenza del lavoratore dal posto di lavoro per malattia, maternità, congedo o sciopero.
Come si calcola l'importo dell'incentivo disoccupati? L'importo incentivo disoccupati si calcola, considerando l'importo in misura intera e dividendolo per i giorni di calendario del mese di riferimento. Il quoziente ottenuto, va poi moltiplicato per il numero di giornate non retribuite. Il contributo misura intera sottratto dell'importo non spettante per l'assenza del lavoratore, è la misura spettante dell'incentivo.
Si ricorda inoltre che l'importo incentivo per assunzione disoccupati ASpI, non può comunque superare l'importo della retribuzione pagata al lavoratore dal datore di lavoro.
Gli incentivi per disoccupati 2014 spettano ai datori di lavoro che assumono lavoratori in disoccupazione ASpI a tempo pieno e indeterminato. La durata incentivi assunzione lavoratori ASpI, non può superare la durata dell'indennità ASpI spettante al lavoratore.
Per cui, per calcolare la durata del beneficio è necessario considerare la durata massima ASpI 2014 che è 8 mesi per i lavoratori con meno di 50 anni, 12 mesi per lavoratori tra 50 a 54 e 14 mesi per chi ha più di 55 anni, e sottrarre i mesi in cui il lavoratore ha percepito l'indennità. Per esempio se il lavoratore ha percepito già 5 mesi di indennità ASpI, l'incentivo spettante al datore di lavoro che assume è per 3 mesi, se il lavoratore non ha percepito ancora alcuna indennità, l'incentivo è di 8 mesi.
Si ricorda pertanto che la durata ASpI 2015 e 2016 è invece la seguente:
Durata dell’indennità ASpI 2015 lavoratori con meno di 50 anni 10 mesi, 12 mesi tra 50 e 54 anni, 16 mesi per chi ha più di 55 anni
Durata dell’indennità ASpI a regime da 1/1/2016 lavoratori fino a 54 anni 12 mesi, oltre i 54 anni 18 mesi.
Altro incentivo è l’assunzione di lavoratori over 50 (sia uomini che donne), oppure di donne che versano in particolari condizioni (settori ad alta disparità occupazionale, periodo di disoccupazione particolarmente lungo ed altro ancora). Nel caso in cui il datore di lavoro operi un’assunzione agevolata, può beneficiare per un periodo limitato di uno sgravio contributivo pari al 50%.
Altre due agevolazioni riguardano:
l’assunzione a tempo pieno ed indeterminato di personale che beneficiava dell’ASPI: in tal caso il datore di lavoro potrà beneficiare del 50% del trattamento residuo che sarebbe spettato al lavoratore;
l’assunzione di lavoratori licenziati negli ultimi 12 mesi, anche da parte di piccole aziende: in tal caso l’incentivo ammonta a 190 euro mensili per un massimo di 12 mesi.
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ISTAT: pensioni d'oro per 11mila
Quattro pensionati su 10, ossia il 42,6% del totale (poco più di 7 milioni) percepiscono meno di 1.000 euro al mese. La nuova fotografia dell’Istat sul sistema previdenziale mette inoltre in evidenza che il 38,7% dei pensionati percepisce tra 1.000 e 2.000 euro, il 13,2% tra 2.000 e 3.000 euro; il 4,2% tra 3.000 e 5.000 euro e il restante 1,3% percepisce un importo superiore a 5.000 euro.
Cresce nel 2012 a quota 271 miliardi la spesa pensionistica (+1,8%) ma il 42,6% dei pensionati, ossia poco più di 7 milioni di persone, ha percepito nel 2012 meno di mille euro al mese. Lo comunica l'Istat nella rilevazione condotta con l'Inps, segnalando come l'1,3% dei pensionati (circa 200 mila) abbia un reddito superiore ai 5 mila euro al mese e che 11 mila 683 pensionati incassino un reddito da pensione da oltre 10 mila euro al mese. I «pensionati d'oro» rappresentano però solo lo 0,1% del totale (pari a 16,6 milioni).
Inoltre il 67,3% dei pensionati è titolare di una sola pensione, mentre un pensionato su quattro (il 24,9%) ne percepisce due. Il 6,5% ne incassa tre; il restante 1,3% è titolare di quattro o più pensioni.
Nel 2012 il sistema pensionistico italiano ha erogato 23,6 milioni di prestazioni, per un ammontare complessivo pari a 270,7 miliardi (+1,8% sul 2011); il valore corrisponde al 17,28% del prodotto interno lordo (Pil) e a un importo medio per prestazione pari a 11.482 euro, 253 euro in più rispetto al 2011 (+2,3%). Ogni pensionato in media però ha percepito nel 2012 circa 16.314 euro all'anno (358 in più del 2011) perché, come rileva l'Istat, in alcuni casi uno stesso pensionato può contare anche su più di una pensione.
Le pensioni di vecchiaia assorbono il 71,8% della spesa pensionistica totale, quelle ai superstiti il 14,7%, quelle di invalidità il 4,0%; le pensioni assistenziali pesano per il 7,9% e le indennitarie per l'1,7%. E' quanto emerge dai dati Istat sul 2012.
Le donne rappresentano il 52,9% dei pensionati e percepiscono assegni di importo medio pari a 13.569 euro (contro i 19.395 degli uomini); oltre la metà delle donne (52%) riceve meno di mille euro al mese, a fronte di circa un terzo (32,2%) degli uomini. Il 47,8% delle pensioni è erogato al Nord, il 20,5% nelle regioni del Centro e il restante 31,7% nel Mezzogiorno.
In primo anno riforma Fornero 75mila pensionati in meno. Falla rilevazione annuale sui trattamenti pensionistici condotta dall'Istat e dall'Inps emerge infine che nel 2012 i pensionati sono 16,6 milioni, «circa 75 mila in meno rispetto all'anno prima». Sul ribasso, con tutta probabilità, ha pesato la riforma Fornero, entrata in vigore proprio nel 2012.
Il reddito medio è di 16.314 euro a testa. In Italia 11 mila pensionati d’oro Il ministro del Tesoro Padoan: «Gli assegni non si toccano, lo ha detto chiaramente il premier Renzi. Ma i dettagli sono da discutere»
Rassicurante il messaggio del Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: «Le pensioni non si toccano» ha confermato citando il presidente del Consiglio, al termine dell’Ecofin informale ad Atene. «Lo ha detto chiaramente il presidente Renzi», ha premesso rispondendo a una domanda, aggiungendo che «i dettagli li dobbiamo ancora discutere».
Allarmati invece i sindacati: «I pensionati italiani vivono in una condizione di grande difficoltà e avrebbero bisogno di una scossa. Il governo però li ignora e non sembra preoccuparsene», afferma lo Spi Cgil. Sulla stessa linea la Fnp Cisl: «Il governo prenda atto che non è più possibile lasciare i pensionati nello stato di difficoltà in cui versano». Infine anche la Uilp invita l’esecutivo a intervenire: «Dai dati Istat sulle pensioni diffusi oggi, emerge con chiarezza l’esistenza di un problema di adeguatezza delle pensioni».
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Marianna Madia e la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione
La parola d’ordine è rinnovamento. Il ministro della Semplificazione e la Pubblica amministrazione Marianna Madia illustra in commissione Affari costituzionale e Lavoro della Camera le linee programmatiche della staffetta generazionale, il meccanismo su cui sta lavorando per abbassare l’età media degli impiegati pubblici.
Serve «un grande progetto di staffetta generazionale», con «un processo di riduzione non traumatica dei dirigenti e dei dipendenti vicini alla pensione per favorire l'ingresso di giovani». Così il ministro per la Semplificazione e la Pa, Marianna Madia, in audizione davanti alle commissioni Affari costituzionali e Lavoro della Camera, rilancia la sua proposta che ha già fatto discutere all'interno del governo.
«Se non si fa, non ci può essere rinnovamento» dell'amministrazione, «ma solo agonia», ha detto il ministro per il quale il progetto va ancora definito, sicché l'idea avanzata nei giorni scorsi di prevedere un'entrata ogni tre uscite «era solo un esempio». Il ministro ha auspicato anche l'introduzione di un «ruolo unico nella dirigenza pubblica» per superare le «distorsioni» nei ministeri, a causa delle quali «alle Politiche agricole o alla Salute si guadagna di più che alle Infrastrutture». Forte il richiamo sulla necessità di maggiore «mobilità nella Pa».
Per Madia il progetto "staffetta generazionale" «non vuole mettere in discussione gli equilibri» della spesa pubblica ottenuti con la riforma delle pensioni. Il ministro ha evidenziato, invece, i risparmi derivanti dalle differenza «tra gli stipendi attualmente pagati e quelli dei neo assunti». Madia ha aggiunto che «l'amministrazione non può permettersi e non ha bisogno di alcun blocco delle assunzioni». Ha bisogno invece «di cambiamento, di rinnovamento e di nuove competenze fresche».
Ma la Ragioneria generale dello Stato boccia la proposta del ministro di prepensionare gli statali per favorire il ricambio generazionale. Se si mandano via persone che non vengono rimpiazzate, ha detto Francesco Massicci (a capo dell'Ispettorato generale per la spesa sociale della Rgs) in un'audizione davanti alla commissione di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale, «viene meno lo stipendio e la pensione ed è un costo neutrale. Ma se mando via persone che devo sostituire devo pagare lo stipendio, la pensione e la buonuscita e la legge deve prevedere una copertura», ha spiegato Massicci. Lo ha fatto precisando di non «conoscere le proposte» del governo e di non essere «nelle condizioni di poter valutare come nascono gli 85mia esuberi» cui ha fatto riferimento il commissario per la spending review Carlo Cottarelli.
Il ministro Madia, nella sua audizione, ha sottolineato poi l'esigenza di una maggiore mobilità per dare efficienza alla Pa. «La mobilità che serve nella Pa deve consentire spostamenti di personale, sia tra i diversi comparti sia tra diversi livelli amministrativi con un conseguente allineamento delle diverse tabelle retributive e degli inquadramenti» ha detto il ministro per il quale «la nostra amministrazione ha bisogno di un piano strategico di redistribuzione delle risorse». Secondo Madia «l'attuale disciplina della mobilità del personale non ha impedito di avere uffici in forte carenza di personale e altri con palesi eccedenze». E il ministro a tal proposito si è detta «pronta a un confronto innovativo di idee con le parti sociali».
Madia ha annunciato poi l'intenzione di introdurre un ruolo unico della dirigenza pubblica, eventualmente articolato per territorio e per specifici profili professionali, utile per superare le distorsioni generate dall'attuale sistema di reclutamento e di carriera. «Il ruolo unico - ha spiegato Madia - ci permette di raggiungere due importanti obiettivi: mettere ordine nelle retribuzioni e consentire una reale mobilità tra le amministrazioni, con la rotazione degli incarichi».
Quanto all'annunciato taglio del cuneo fiscale con ricadute sugli stipendi dei lavoratori dipendenti a reddito più basso, per Madia gli 80 euro in più in busta paga «di fatto significano, per il pubblico impiego, l'equivalente di un rinnovo contrattuale che altrimenti non sarebbe stato possibile».
Insomma, serve «un grande progetto di staffetta generazionale» con «un processo di riduzione non traumatica dei dirigenti e dei dipendenti vicini alla pensione per favorire l’ingresso di giovani. Se non si fa, non ci può essere rinnovamento dell’amministrazione, ma solo agonia». Il primo obiettivo che si pone il ministro per la Pubblica amministrazione Maria Anna Madia è «semplificare il linguaggio e l’azione amministrativa» in quanto spesso si approvano «norme illeggibili e circolari incomprensibili». Gli 80 euro in più in busta paga, ha detto Madia, che auspica un confronto innovativo con le parti sociali, «di fatto significano, per il pubblico impiego, l’equivalente di un rinnovo contrattuale che altrimenti non sarebbe stato possibile.
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