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domenica 23 ottobre 2016

Giorno festivo: normale retribuzione anche in caso di rifiuto a lavorare



La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21209 del 2016 è intervenuta in tema di rifiuto dei dipendenti di lavorare in un giorno festivo, stabilendo il seguente principio: “… il diritto del lavoratore di astenersi dall'attività lavorativa in caso di festività è pieno ed ha carattere generale e quindi non rilevano le ragioni che hanno determinato l’assenza di prestazione, peraltro stabilita dalla legge. La Corte quindi, ha chiarito che, in caso di rifiuto dei dipendenti di prestare servizio in una giornata festiva, il datore di lavoro è comunque tenuto a riconoscere la normale retribuzione, anche in presenza di una disposizione del contratto collettivo che esclude il diritto del lavoratore di rifiutarsi, salvo giustificato motivo.

Il ricorso presentato da una società che aveva trattenuto dalla busta paga dei propri dipendenti la retribuzione relativa ad un giorno festivo (8 dicembre) durante il quale non era stata eseguita la prestazione lavorativa precettata dall'impresa. In realtà, la trattenuta era stata effettuata dalla società sulla base di una disposizione contenuta nel contratto collettivo secondo la quale nessun lavoratore può rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro straordinario, notturno e festivo.

Un gruppo di dipendenti di una nota azienda metalmeccanica avevano fatto domanda al Tribunale, affinché venisse loro pagato la festività, anche se si erano rifiutati di lavorare l’8 dicembre.

Il contratto CCNL prevede che: “ nessun lavoratore può rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro straordinario, notturno e festivo”. Quindi la festività va sempre pagata anche se il lavoratore si rifiuta, al massimo si può applicare una sanzione disciplinare.

Secondo i giudici il diritto del dipendente di astenersi dall’attività ordinaria durante le festività costituisce un diritto che discende direttamente dalla legge, pertanto non può essere vanificato da una disposizione contrattuale collettiva.

Pertanto, non era stata condivisa la tesi della società secondo cui il lavoratore che non abbia svolto l'attività lavorativa durante la detta festività, come nel caso in esame, avrebbe potuto rivendicare la normale retribuzione solo se la sua assenza sia dipesa da uno dei motivi indicati dalla disposizione; ciò in considerazione del carattere generale delle regola di diritto alla festività normalmente retribuita.

Il rifiuto dei lavoratori a prestare la propria attività durante un giorno festivo, non può in alcun modo incidere sul trattamento retributivo ordinario, poiché la retribuzione della festività non lavorata è prevista dalla legge, tuttavia, i giudici sottolineano che, in virtù della disposizione presente nel contratto collettivo, il datore di lavoro avrebbe potuto avviare un’azione disciplinare, dato che il rifiuto dei lavoratori non era stato corroborato da un giustificato motivo.

Il trattamento economico ordinario deriva … direttamente dalla legge e non possono su questo piano aver alcun rilievo le disposizioni contrattuali, e per di più il datore di lavoro quindi non può esimersi dal corrispondere la retribuzione ai dipendenti se questi rifiutano di lavorare in una giornata festiva, nonostante sia presente una norma del CCNL che dispone che il lavoratore non possa rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro festivo. Pertanto, il rifiuto di prestare lavoro in un giorno festivo non avrà incidenza sulla normale retribuzione.

Il rifiuto dei dipendenti di prestare servizio in una giornata festiva non può esimere il datore di lavoro dal versamento della normale retribuzione, neppure in presenza di una disposizione del contratto collettivo a norma della quale il lavoratore non può rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro festivo. La Cassazione, con sentenza 21209/2016, ha precisato che il diritto del dipendente di astenersi dall’attività lavorativa in presenza di determinate festività discende direttamente dalla legge e ha carattere generale, ragion per cui il relativo trattamento retributivo non può essere messo in discussione da una disposizione, eventualmente anche di segno contrario, della contrattazione collettiva.



venerdì 2 settembre 2016

Lettera di dimissioni volontarie come scriverla



La lettera dimissioni volontarie con preavviso, senza preavviso o con esonero di preavviso, è un modello che il lavoratore può utilizzare per recedere e quindi cessare l’attività lavorativa prevista dal contratto di lavoro. Si possono presentare le dimissioni in qualunque momento, quando il lavoratore ne senta l’esigenza. Non si devono spiegare i motivi per cui si decide di lasciare il proprio posto di lavoro e nessuno può obbligarvi a specificarli.

L’unico obbligo del lavoratore è comunicare ufficialmente all'azienda la propria decisione di rassegnare le dimissioni con un preavviso variabile in base all'anzianità aziendale e all'inquadramento contrattuale. Questa è l’unica clausola che dovrete rispettare, ma anche in questo caso non devono essere spiegati i motivi che vi spingono a presentare le dimissioni volontarie.

A partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dovranno essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura online accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

La compilazione del modello è semplice: bisogna inserire generalità di lavoratore e datore di lavoro, data inizio rapporto, contratto applicato, tipo di comunicazione (dimissioni, risoluzione, revoca) e relativa data di decorrenza. Va inviato alla casella PEC (Posta elettronica certificata) del datore di lavoro, attraverso le specifiche tecniche indicate nel decreto. Il lavoratore ha 7 giorni per revocare le dimissioni dal momento dell’invio, con le stesse modalità.

La lettera dimissione volontarie è uno strumento che serve a comunicare per iscritto, la volontà del lavoratore a volersi dimettere dal proprio posto di lavoro e recedere per sempre dal contratto di lavoro ,la facoltà del lavoratore dipendente di dimettersi attesta l’inequivocabile volontà scritta del dipendente a terminare il rapporto lavorativo in essere con l’azienda.

La lettera di dimissioni volontarie, va scritta su carta semplice seguendo le linee guida de una lettera fac simile, oppure, utilizzando i modelli standard in base alla tipologia delle dimissioni:
lettera dimissioni con preavviso;
lettera dimissioni senza preavviso;
lettera dimissioni per giusta causa;
lettera dimissioni per gravidanza.

Una volta consegnata la lettera di dimissioni in duplice copia, al lavoratore viene rilasciata la copia controfirmata per ricevuta, che attesta la consegna della lettera di dimissioni, la presa visione della lettera e l’accettazione delle dimissioni presentate.

Adesso in base a quanto previsto dal Jobs Act secondo i quali le dimissioni possono essere inoltrate solo per via telematica, pena la nullità della risoluzione del contratto di lavoro. In base a tale novità il lavoratore che vuole dimettersi deve inviare la comunicazione di dimissioni autonomamente, oppure, rivolgersi ad intermediari abilitati, come patronati, sindacati o enti bilaterali.

La lettera dimissioni con preavviso concordato, è utilizzata dal lavoratore che intende cessare il rapporto di lavoro in base all’articolo 2118 del Codice che prevede la possibilità sia del datore di lavoro che del lavoratore stesso di risolvere il rapporto di lavoro.

La lettera di dimissioni con preavviso è una comunicazione scritta che il lavoratore deve consegnare al datore di lavoro entro un preciso termine di preavviso.

I termini di preavviso, devono essere obbligatoriamente osservati dal lavoratore in quanto la loro inosservanza consentono al datore di lavoro di applicare una penale mediante la decurtazione dall’ultima busta paga, degli importi pari alle giornate oggetto di mancato preavviso.

Per scrivere una lettera dimissioni il lavoratore deve indicare nella lettera i seguenti dati:

i dati del lavoratore;

i dati aziendali;

la data di assunzione;

la data di decorrenza delle dimissioni, va indicata esattamente la data dalla quale avverranno le dimissioni e la data di ultima presenza in azienda

firma del dipendente lavoratore che intende dimettersi

firma del datore di lavoro che prende visione e accetta la lettera di dimissioni con preavviso.

Dopo che avrete dato la lettera al datore di lavoro bisogna recarsi e in uno degli enti accreditati e presentare le dimissioni mediante la modalità telematica e recarsi presso Caf e patronati, comune, centro per l’impiego ecc e richiedere la compilazione online del modulo relativo alla dimissione volontarie, dopodiché l’intermediario rilascia copia cartacea del documento, avente codice univoco e data certa di rilascio, opportunamente timbrato. Il lavoratore con la copia cartacea firmata deve consegnare il modello lettera dimissioni volontarie entro 15 gg dalla data di rilascio, che rappresenta il periodo di validità massima del documento, al datore di lavoro.

In alternativa a questa modalità si potranno presentare le proprie dimissioni accedendo al portale del Ministero del Lavoro e inviando il modulo che si troverà tra i vari allegati. Questa operazione può essere svolta solo da coloro che hanno il Pin INPS Dispositivo.

Il lavoratore avrà comunque 7 giorni di tempo per ripensarci e revocare la domanda inoltrata.




martedì 23 agosto 2016

CCNL: rinnovo contratto dirigenti terziario



Nel rinnovo, che riguarda oltre 22mila dirigenti, decorre dal 1° gennaio 2015, fatte salve le diverse decorrenze previste da singole norme, e ha scadenza il 31 dicembre 2018, potenziati welfare e politiche attive, regolate le tutele in uscita, previsto un aumento retributivo. Per favorire l’inserimento di dirigenti nelle imprese prive di manager esterni e aumentarne la competitività inserite agevolazioni contributive al welfare contrattuale. L’accordo, siglato da Manageritalia e Confcommercio rende il ccnl dirigenti del terziario, della distribuzione e dei servizi sempre più flessibile e capace di rispondere a esigenze di manager e aziende.

Un rafforzamento delle politiche attive con un voucher di 5.000 euro da utilizzare per servizi di ricollocazione presso società convenzionate o come consulenza per l’avvio di attività imprenditoriali e una contestuale riduzione di quelle passive agendo sui termini di preavviso del licenziamento e sulle indennità risarcitoria per il licenziamento ingiustificato. Un’azione sulla retribuzione attuale e differita, con un aumento retributivo di 350 euro lordi (2017/2018) e della previdenza complementare Mario Negri di circa 400 euro (2015/2018). Un aumento delle tutele previste in caso di malattie più gravi e una diminuzione per quelle che lo sono meno.

L’inserimento di un articolo denominato “Produttività e Benessere” per promuovere e sostenere azioni volte a favorire le buone pratiche della  produttività e del benessere aziendale.

In tema di agevolazioni contributive, sono state mantenute nell'accordo di rinnovo quelle relative all'assunzione e alla nomina di dirigenti che abbiano una determinata età, che siano disoccupati o che siano stati assunti con contratto a tempo determinato. Tali forme di contribuzione ridotta hanno subito modifiche con riferimento alla loro durata e ai requisiti anagrafici dei dirigenti interessati e saranno come di seguito attribuite: fino a 40 anni di età per un periodo massimo di 4 anni; da 41 a 45 anni, per un periodo massimo di 3 anni; da 46 e fino al compimento dei 48 anni, per un periodo massimo di 2 anni; disoccupati di età non inferiore a 55 anni compiuti, per un periodo massimo di un anno. Decorsi tali periodi, al dirigente si applicherà la normativa generale contrattuale. I dirigenti assunti con contratto a tempo determinato potranno usufruire dell’agevolazione indipendentemente dalla loro età anagrafica, per un periodo pari alla metà dell’intera durata del rapporto di lavoro e comunque per non più di due anni. In ogni caso, tale agevolazione non si applica ai contratti di durata inferiore a un anno.

<<Con questo rinnovo – ha detto Guido Carella, presidente Manageritalia – il contratto dirigenti del terziario conferma e amplia la sua capacità di essere un’indispensabile base di partenza perché imprese e manager instaurino rapporti di fiducia basati su valore scambiato, contributo apportato e sviluppo reciproco. Risponde al meglio alle necessità di flessibilità e tutela del lavoratore e dell’azienda con una modularità di valore e costo. Valorizza il management e aiuta la competitività delle imprese, perché da oggi ancor più nessuna azienda, anche la più piccola e in difficoltà, può motivare la sua “carenza” manageriale con la scusa del costo o della rigidità del contratto. Un rinnovo che ribadisce l’indispensabile ruolo e valore del contratto collettivo nazionale, rafforza il ruolo delle parti sociali e la strada della bilateralità>>.

Aumento retributivo e minimo contrattuale Per il biennio 2017/2018 è stato stabilito un aumento retributivo a regime pari a euro 350,00 mensili lordi, assorbibile solo da elementi individuali corrisposti espressamente con tale clausola. Tenendo conto della situazione economica, le Parti hanno concordato di non prevedere nessun incremento retributivo per il 2016.
Gli aumenti mensili lordi verranno corrisposti con le seguenti decorrenze e nelle misure di seguito illustrate:

80,00 euro, a decorrere dal 1° gennaio 2017;

100,00 euro, a decorrere dal 1° gennaio 2018;

170 euro, a decorrere dal 1° dicembre 2018.

È espressamente previsto che ai fini del calcolo dell’indennità supplementare, la retribuzione mensile lorda di riferimento sarà comprensiva:

a) del valore convenzionale dell’eventuale retribuzione in natura (fringe benefits);

b) dei ratei delle mensilità supplementari;

c) della media degli emolumenti corrisposti a titolo di retribuzione variabile negli ultimi 36 mesi o nel minor periodo di servizio prestato;

d) degli effetti sul trattamento di fine rapporto.

Sono state altresì ridefinite le maggiorazioni per l’età in caso di licenziamento di un dirigente con anzianità di servizio prestato in azienda nella qualifica superiore a dodici anni (e non più superiore a dieci, come precedentemente previsto). L'indennità supplementare è automaticamente aumentata in relazione all’età nelle seguenti misure: Da ultimo, un’ulteriore novità ha interessato la normativa che disciplina la malattia: il periodo di aspettativa retribuita è stato ridotto da dodici a otto mesi. Tuttavia, in caso di patologie gravi e continuative che richiedano terapie salvavita, il dirigente potrà richiedere un ulteriore periodo di aspettativa per sei mesi, durante i quali verrà corrisposta al dirigente l’intera retribuzione. In caso di risoluzione del rapporto al termine di quest’ulteriore periodo di aspettativa, al dirigente sarà dovuta, oltre al trattamento di fine rapporto, anche l’indennità sostitutiva del preavviso.


Rinnovo contratto statali quanto deve spettare al dipendente pubblico




La vicenda degli stipendi degli statali risale ormai dal 2010, quando si impose per decreto il blocco delle buste paga di circa 3,3 milioni di dipendenti pubblici per gli anni 2011-2012-2013. poi non più revocato.

Sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego si è partiti col il passo inopportuno, infatti sono fermi da sei anni, in seguito  la Corte costituzionale, con la sentenza n. 178 del luglio 2015, ha stabilito che il blocco doveva cessare, e bisognava rinnovare i contratti. Di qui all'ultimo giorno in cui la legge di stabilità 2017 uscirà dal parlamento  sarà  aperto lo scontro su quante risorse destinare al rinnovo dei contratti degli statali. Ovvero i dipendenti statali, circa tre milioni di dipendenti pubblici. Subiscono il blocco dei contratti di lavoro da sei -sette anni, e hanno diritto, non fosse altro che per la sentenza sopra menzionata, al rinnovo del contratto di lavoro.

Vediamo gli effetti dello stop retributivo pubblico. È ovvio che i sindacati del pubblico impiego considerino molto grave che, fatta 100 la base retributiva pubblica del 2010, essa sia la stessa a giugno 2016, sicché in termini reali i dipendenti pubblici hanno perso potere d'acquisto.

Mentre le retribuzioni del settore privato sono passate da 100 del 2010 a 109,9. Bisogna però equilibrare questo dato con un altro, più di lungo periodo. Le retribuzioni pubbliche conoscevano da decenni andamenti nel complesso superiori rispetto a quelle private. Nel solo periodo 2001-2009, cioè prima dello stop, l'incremento complessivo nominale delle retribuzioni di fatto pubbliche è stato secondo l'Istat del 31,9%, a fronte del 27% nell'industria privata e del 23,% nei servizi di mercato.

Il rinnovo del contratto degli statali sembra che stia entrando nel vivo, appena qualche giorno fa la UilPa ha piazzato l’asticella delle risorse che il governo dovrebbe mettere sul tavolo del rinnovo del contratto degli statali a 7 miliardi a regime, al di sotto di questa cifra non avrebbe senso neanche sedersi al tavolo della trattativa per discuterne, le altre sigle sindacali come Cgil e la Cisl sono quasi sulla stessa lunghezza d’onda della UilPA.

La CGIL ha chiesto un’aumento di stipendio per i 3 milioni di dipendenti statali di circa 220 euro lordi al mese, che al netto delle tasse fanno 132 euro, mentre la Cisl ha chiesto un’incremento in busta paga di 150 euro, cifre molto distanti di quelle fornite dal Governo che ad oggi sarebbe disposto a stanziare circa 300 milioni di euro che divisi per tutti i dipendenti statali sarebbero non più di 10 € di aumento a testa, una vera e propria presa in giro.

Il governo in queste ultime settimane si è reso conto che i 300 milioni di euro sono davvero irrisori ed i fondi da destinare ai dipendenti pubblici devono essere aumentati.

Tra le soluzioni al momento in discussione c’è l’idea di un’aumento di 80 € come è accaduto appena qualche anno fa per i redditi più bassi in questo modo non si andrebbe al di sotto del bonus 80 euro ed allo stesso tempo si tratterebbe di un aumento contrattuale qualche gradino al di sotto di 110 euro mediamente ottenuto dai dipendenti privati nei contratti rinnovati fino ad ora.

Poniamoci delle domande Hanno diritto ad un aumento salariale?

Già, ma quanto? Quanti euro fa questo diritto? Subito dopo la sentenza il governo pro forma mise a bilancio trecento milioni per gli statali: faceva 5/6 euro al mese lordi per lavoratore.

Appena iniziate le trattative reali il governo ha subito spiegato che non sarà trecento milioni la sua disponibilità, sarà di più. Ma quanto di più il governo non ha detto. Hanno detto invece i sindacati: sette miliardi.

Che fa più o meno 150 euro lordi al mese di aumento per dipendente pubblico. Come li calcolano i sindacati questi sette miliardi?

Più o meno così: moltiplicando per tutti gli anni di blocco contrattuale l’inflazione più un totale inerente alla per loro naturale e doverosa progressione delle retribuzioni. Ci provano, è il loro mestiere.

Ma il diritto, come espresso sopra agli statali spetta da sentenza della Corte Costituzionale non sono 150 euro lordi di aumento al mese.

Quel che spetta agli statali, sentenza alla mano è 20/40 euro lori al mese a seconda del grado e qualifica del lavoratore.

La sentenza non impone il recupero del passato, anzi di fatto fissa da quando si ricomincia ad avere contratti non bloccati. E quel quando è il 30 luglio 2015. Quindi agli statali spetta il recupero dei soldi perduti da quella data, dal 30 luglio 2015.

Il recupero da quella data fa 1,2 miliardi di euro e significa appunto 20/40 euro al mese di aumento per dipendente pubblico. Fin qui quel che loro spetta da sentenza, liberissimi di chiedere di più. Ma non in nome di una sentenza che esclude il recupero integrale del blocco contrattuale. Quanto poi alla richiesta del recupero integrale di quanto perso nei sette anni e passa della crisi economica, una domanda impertinente ma assolutamente pertinente. I sindacati, non solo degli statali, quasi sempre si ingegnano a calcolare l’ammontare degli aumenti non avuti se fosse andata come prima della crisi. Fanno al cifra e la dichiarano “soldi persi dai lavoratori”.

Nel calendario della P.A. prima dei contratti viene però la riforma della dirigenza, con la creazione del ruolo unico, la determinazione della durata degli incarichi (quattro anni), l'accesso per concorso con esame di conferma dopo tre anni (altrimenti si retrocede). In linea di principio le novità trovano il favore dei sindacati, che però lanciano l'allarme su eventuali discriminazioni. «In una riforma che già non comprende tutta la dirigenza della Repubblica, perché esclude prefetti e diplomatici, professori universitari e presidi, vogliamo creare ulteriori divisioni?», si chiede Barbara Casagrande, segretario generale di Unadis e Confedir.


martedì 26 luglio 2016

Contributi sindacali e versamento in busta paga



I lavoratori hanno diritto di raccogliere in azienda i contributi sindacali per il finanziamento delle associazioni cui aderiscono, purché non rechino pregiudizio al normale svolgimento dell'attività lavorativa.

Originariamente, la materia del versamento di questi contributi era disciplinata dall'art. 26 dello Statuto dei lavoratori che stabilisce:

il diritto dei lavoratori di raccogliere, all'interno dei luoghi di lavoro ma senza pregiudizio del normale svolgimento dell'attività lavorativa, i contributi per le loro organizzazioni sindacali;

il diritto dei sindacati di percepire i contributi mediante trattenute sulle retribuzioni dei lavoratori iscritti, secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro;

il diritto del lavoratore di chiedere che il versamento dei contributi sindacali avvenga mediante trattenuta sulla retribuzione nelle aziende in cui il rapporto non è regolato da contratti collettivi.

Il referendum del 1995 ha però abrogato i commi 2 e 3 della norma citata eliminando così l'obbligo in capo al datore di lavoro di trattenere e versare i contributi all'Associazione sindacale di riferimento, fermo restando però il diritto dei lavoratori di raccogliere i contributi sindacali, nel nostro ordinamento non esiste più una norma di legge che specificamente disciplini la materia in questione.

Il datore di lavoro dunque non è più obbligato per legge a trattenere, su delega del lavoratore, i contributi sindacali direttamente dalla busta paga ed a versarli all'associazione designata dal lavoratore e la disciplina attuale della riscossione dei contributi sindacali dipende dalla previsione del contratto collettivo di riferimento:

se il CCNL contiene un semplice rinvio alla disciplina legale sulla trattenuta dei contributi sindacali, la norma contrattuale è priva di efficacia operativa

se, come avviene nella maggior parte dei casi, il CCNL disciplina i sistemi di versamento dei contributi, il datore di lavoro deve seguire le regole dettate dallo stesso, dal momento che un comportamento difforme costituisce condotta antisindacale

La materia è di solito disciplinata dai contratti collettivi, che prevedono il diritto del lavoratore di chiedere il versamento dei contributi  mediante trattenuta sulla propria retribuzione. Sentenze del Tribunale di Milano hanno opportunamente chiarito che questo diritto spetta a tutti i lavoratori indistintamente, a prescindere dal fatto che il sindacato beneficiario della trattenuta abbia sottoscritto il contratto collettivo di lavoro, oppure no.

Tuttavia, anche nel caso in cui la materia non sia disciplinata dal contratto, la abrogazione dei commi 2 e 3 dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori non ha portato conseguenze pratiche. Infatti, il Tribunale di Milano ha anche chiarito come la richiesta, da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, di effettuare una trattenuta sulla propria retribuzione per il versamento dei contributi sindacali, rientri perfettamente in un istituto disciplinato dal nostro ordinamento. Si tratta della cessione del credito, contemplato dagli artt. 1260 e seguenti del codice civile, secondo i quali il creditore può cedere, anche parzialmente, il proprio credito ad un terzo, a prescindere dal fatto che il debitore sia consenziente.

Il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di effettuare la trattenuta e di versare la quota al sindacato designato è da considerarsi, oltre che un illecito civilistico, una condotta antisindacale in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato cui aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dai propri aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della sua attività.
Con il venir meno dell’obbligo legale di versamento dei contributi per ritenuta sulla retribuzione, è stato detto in modo superficiale, che l’obbligazione poteva essere reintrodotta solo per via contrattuale,  cioè dietro pattuizione collettiva o individuale.

Di fatto invece si è favorito:

ad una riaffermazione dell’obbligazione di versamento datoriale per via negoziale, normalmente ad opera delle OO.SS. stipulanti i Ccnl, sia tramite pattuizione nuova (è il caso delle OO.SS. del personale direttivo del credito il cui previgente Ccnl non prevedeva l’obbligo esattivo datoriale) sia in virtù di pattuizione preesistente, già contemplante il diritto del lavoratore al versamento del contributo al sindacato prescelto (è il caso più ricorrente);

alla soluzione unilaterale, e non già pattizia, del ricorso al negozio della “cessione del credito”, attraverso cui i lavoratori (prevalentemente iscritti a sindacati non firmatari dei Ccnl applicati nell’unità produttiva) hanno notificato all’azienda, ai fini e per gli effetti della trattenuta e del relativo versamento al sindacato, una delega d’iscrizione al sindacato che, contemporaneamente, li impegnava – per espressa menzione dell’istituto della “cessione di credito” ex art. 1260 e ss. c.c. - al versamento nei confronti dell’organizzazione di una quota mensile, a titolo di contributo associativo salvo revoca da notificarsi in tempo utile.



lunedì 4 luglio 2016

CCNL sale cinematografiche 2016: novità sui contratti a termine


Per i dipendenti dagli esercizi cinematografici e cinema-teatrali, Anec con Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil hanno siglato l’ipotesi di accordo di rinnovo del CCNL. I contenuti sono identici a quelli dell'ipotesi di accordo 9 marzo 2016 siglata da Anem e Agis, eccetto che per la decorrenza degli importi per vacanza contrattuale.

Per i dipendenti dagli esercizi cinematografici e cinema-teatrali. L'accordo decorre dal 1° gennaio 2017 e prevede nel 2016 un anno di sperimentazione durante il quale le Parti monitoreranno l'andamento degli istituti rinnovati e revisioneranno le altre norme contrattuali.

Il 15 giugno 2016 è stato rinnovato il CCNL che disciplina i rapporti di lavoro tra le aziende che gestiscono sale cinematografiche ed il relativo personale dipendente. Tra le novità in tema di contratto a termine si prevede che la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l'altro, non possa  superare i trentasei mesi. II limite può essere superato solo nei seguenti casi:

- sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto;

- ulteriori casi individuati al livello della contrattazione collettiva aziendale.

In ogni singolo cinema e relative sedi amministrative è consentita l'assunzione di un numero complessivo di lavoratori a tempo determinato fino ad un massimo del 40% dei lavoratori a tempo indeterminato, con arrotondamento all'unita superiore. Percentuali superiori, ma sempre entro la percentuale massima del 50%, saranno accordate dal tavolo tecnico paritetico dietro motivata richiesta. È consentita senza limitazioni però la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto. Inoltre sono esenti da limitazioni quantitative i contratti di lavoro a tempo determinato conclusi nella fase di avvio di nuove attività apertura di nuovi cinema e/o sedi amministrative) per un periodo di tredici mesi continuativi a decorrere dalla data di apertura al pubblico.

Vacanza contrattuale e sperimentazione
L’erogazione di € 120,00 a titolo di vacanza contrattuale per l'anno 2015 e di € 120,00 a titolo di sperimentazione per l'anno 2016, ai lavoratori in forza al 1° gennaio 2015 e in servizio alla data di stipulazione dell'ipotesi di accordo in tre tranche (1° aprile 2016, 1° agosto 2016 e 1° dicembre 2016).

Ai lavoratori in forza al 1° gennaio 2015 e in servizio alla data di stipulazione dell'ipotesi di accordo, saranno corrisposti € 120,00 a titolo di vacanza contrattuale per l'anno 2015 ed € 120,00 a titolo di sperimentazione per l'anno 2016, con le seguenti modalità, riferite al 4° livello di monosale e multisale:
- € 80,00 il 1° luglio 2016;
- € 80,00 il 1° ottobre 2016;
- € 80,00 il 1° dicembre 2016.

Gli importi saranno ridotti per i lavoratori assunti dopo il 1° gennaio 2015 ed in forza alle aziende, non in prova, alla data di stipulazione dell'ipotesi di accordo, nonché per i lavoratori con orario e retribuzione inferiori a quelli normali contrattuali.

Gli importi non sono utili ai fini dei vari istituti legali e contrattuali né per il calcolo del TFR.


mercoledì 1 giugno 2016

Lavoro: calcolo part time in busta paga



Il contratto di lavoro a tempo parziale, meglio conosciuto come contratto part time, indica un rapporto di lavoro subordinato caratterizzato da una riduzione dell'orario di lavoro rispetto a quello a tempo pieno.

Come ogni contratto di lavoro, anche quello part time può essere sia a tempo determinato che indeterminato. Un contratto part time per essere in regola deve essere sottoscritto da entrambe le parti e deve contenere informazioni precise sulla durata della prestazione lavorativa e sull'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Un lavoratore part - time può instaurare più rapporti di lavoro fino a raggiungere l’orario previsto generalmente dai CCNL o dalla legge (comunque non oltre 40 ore settimanali).

Esistono tre diversi tipi di part - time:

ORIZZONTALE
si lavora tutti i giorni della settimana (mattina o pomeriggio) con un orario ridotto rispetto a quello contrattuale (es. 4 ore al giorno per 5 giorni alla settimana).

VERTICALE
si lavora per alcuni giorni nella settimana con un orario ridotto o normale (es. lunedì, mercoledì e venerdì, oppure tutte le domeniche del mese o nei fine settimana).

MISTO

Si lavora con un orario settimanale sia verticale che orizzontale, in base a quanto è stato stabilito dai contratti collettivi nazionali (es. 6 ore per 3 giorni e 3 ore per 2 giorni)

Il contratto week-end è un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale e si realizza quando il dipendente presta la sua attività solo nei giorni di sabato e domenica.

I CCNL possono prevedere combinazioni diverse tra le varie tipologie contrattuali, determinando le modalità temporali di svolgimento dell'attività lavorativa ad orario ridotto, nonché le eventuali implicazioni di carattere retributivo della stessa.

Chi lavora con un contratto part time beneficia dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno. Ciò è vero sia per la retribuzione oraria, sia per la durata e l'assegnazione delle ferie annuali. Al pari di un lavoratore full time chi lavora con un contratto part time può essere soggetto a un periodo di prova e ha diritto a un congedo di maternità e paternità così come a riposi giornalieri. Un lavoratore part time è tutelato anche nella conservazione del posto in caso di infortunio o malattia.

La retribuzione oraria è la medesima prevista per un lavoratore full time ma c'è da dire che il trattamento economico è proporzionale in ragione della ridotta entità della prestazione, ciò significa che le ferie pagate e i trattamenti economici per malattie, indennità e maternità saranno calcolati in proporzione alle prestazioni lavorative.

Quindi il lavoratore part time ha diritto alla medesima retribuzione oraria del lavoratore full time anche se gli importi dei trattamenti economici singoli (malattie, infortunio e maternità) saranno di gran lunga inferiori perché il calcolo è proporzionale al numero di ore di lavoro.

Per i rapporti di lavoro a tempo parziale, bisogna parametrare i calcoli all’orario di lavoro. Se il contratto di riferimento prevede 40 ore settimanali (è il caso della maggioranza dei lavoratori del settore privato), il minimale orario (da moltiplicare per le ore del contratto part-time), è pari a 7,15 euro (47,68 euro, ovvero il minimo giornaliero, moltiplicato per sei giorni lavorativi e diviso per 40 ore). Se il contratto è di 36 ore (ipotesi che ricorre per i lavoratori iscritti alle gestioni previdenziali pubbliche), il minimale orario è di 6,62 euro (47,68 per cinque giorni lavorativi diviso 36).

Come calcolare lo stipendio di un contratto part time a 20, 24, 30 o 36 ore? La prima cosa da fare, è quella di fare una proporzione rispetto allo stipendio a tempo pieno, a partire dal lordo ed inoltre considerare l’eventuale più basso scaglione IRPEF che andrebbe a centrare il reddito.

Vediamo come fare.
Se sul contratto non è scritto lo stipendio lordo mensile, ma quello lordo annuale (RAL), occorre prima calcolare lo stipendio lordo mensile. Supponiamo che per il lavoro part time di 20 ore a settimana, si percepisca secondo il CCNL uno stipendio lordo annuale di 10.000 euro, diviso su 14 mensilità.

Per calcolare lo stipendio lordo mensile, si dovrà fare 10.000 / 14 = 714,28 euro (stipendio lordo mensile).

Su uno stipendio di 10.000 euro lorde annuali si applica un’aliquota IRPEF pari al 23%. Da 10.000 bisogna  togliere 2.300 euro e quindi rimangono 7.700 euro. Da questi si dovrà togliere un ulteriore 1000 euro di INPS e altri contributi, quindi si arriva a 6.600 euro. Tale importo si divide 6.600 euro per 14 (se il CCNL prevede 14 mensilità) si otterrà 470 euro netti al mese circa.

Con il part-time agevolato lavoratore potrà concordare col datore di lavoro il passaggio al part-time, con una riduzione dell'orario tra il 40 ed il 60%, e di ricevere mensilmente l'importo corrispondente ai contributi previdenziali e alla contribuzione figurativa. La misura si rivolge solo ai lavoratori del settore privato. I requisiti richiesti per l’accesso sono i seguenti:

contratto a tempo indeterminato;

lavoro a tempo pieno;

20 anni di contributi versati (requisito contributivo minimo per la pensione di vecchiaia);

requisito anagrafico maturato entro il 31 dicembre del 2018. nel caso in cui il lavoratore decida di ridurre il proprio orario di lavoro del 50%, grazie al meccanismo previsto all’interno del decreto, riceverà una retribuzione corrispondente a circa il 65% di ciò che percepiva in precedenza. Nel momento in cui andrà in pensione, riceverà il 100% dell’assegno previdenziale.


domenica 1 maggio 2016

CCNL: successione e modifiche peggiorative


Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è la norma che definisce le regole del rapporto di lavoro: si tratta di norme concordate, esito di una contrattazione tra le organizzazioni sindacali e le associazioni dei datori di lavoro. Questa contrattazione è detta contrattazione collettiva. Di norma i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro regolano sia gli aspetti normativi del rapporto di lavoro, sia quelli di carattere economico. Una parte, inoltre, è destinata a normare alcuni aspetti del rapporto sindacale esistente tra le organizzazioni che hanno sottoscritto l’accordo e le Associazioni datoriali, oltre che ai rapporti interni alle aziende tra i rappresentanti dell’impresa e quelli sindacali.

I CCNL servono a determinare il contenuto che regola i rapporti di lavoro nel settore di attività di appartenenza dell’azienda e a disciplinare le relazioni tra i soggetti firmatari dell’accordo stesso.

I contratti collettivi sono qualificabili come contratti di diritto comune non esplicanti efficacia verso i terzi e con efficacia vincolante limitatamente:
alle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro che lo hanno stipulato;
ai soggetti iscritti alle stesse associazioni (in virtù del mandato rappresentativo conferito dal lavoratore e dal datore con l'iscrizione alle rispettive associazioni sindacali);
ai soggetti che, pur non essendo iscritti, vi abbiano aderito anche solo implicitamente.

La normativa vigente consente che un nuovo contratto collettivo di lavoro possa introdurre modifiche peggiorative al rapporto di lavoro. Gli unici limiti a questa possibilità sono il principio della intangibilità della retribuzione e la salvaguardia dei diritti quesiti. Tuttavia, occorre considerare che i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro sono ordinari contratti di diritto comune e che quindi possono vincolare solamente i lavoratori iscritti al sindacato che gli ha “firmati”. I lavoratori non iscritti a quel sindacato possono comunque aderire all’accordo, cosa che può avvenire anche tacitamente. In mancanza di un CCNL di riferimento, nella disciplina del rapporto di lavoro si applicano infatti le norme di legge ordinaria, ovverosia il Codice Civile.

Quindi è possibile che un contratto collettivo sopravvenuto introduca, con efficacia vincolante per tutti, una disciplina peggiorativa del rapporto di lavoro,  infatti la legge ammette che un nuovo contratto collettivo di lavoro introduca modifiche peggiorative al rapporto di lavoro.

Da qualche tempo sembra essere più diffuso il fenomeno del datore di lavoro non iscritto ad alcuna associazione imprenditoriale. Questa scelta è spesso dettata da motivi pratici più che ideologici, poiché la non iscrizione comporta la inapplicabilità dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che sono ordinari contratti di diritto privato e, come tali, si applicano solamente alle parti stipulanti e ai soggetti da esse rappresentati.

Nel caso in cui il datore di lavoro, pur non essendo iscritto ad alcuna associazione imprenditoriale, abbia di fatto applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro, i lavoratori avranno diritto alla applicazione di tale contratto. Tuttavia, al di fuori di questo caso, se il datore di lavoro non è iscritto alle associazioni imprenditoriali, il rapporto di lavoro è disciplinato esclusivamente dalla legge, e i lavoratori non potranno invocare alcuna normativa contrattuale.

Il datore di lavoro può recedere dal CCNL applicato e adottarne un altro senza consultare il lavoratore?
Si. La Giurisprudenza  ha stabilito che la modifica del rapporto di lavoro può avvenire anche in assenza delle rappresentanze sindacali senza che ciò comporti una violazione dei diritte dei lavoratori. Il contratto collettivo come già esposto si configura come una fattispecie di diritto comune e, pertanto, qualora non sia previsto un limite temporale alla sua efficacia, è concesso alle parti di recedere anche unilateralmente. Il lavoratore anche quando non consultato deve sempre essere messo al corrente della modifica del CCNL applicato in azienda

Ma il contratto collettivo non ha una durata di 3 anni? Si, ma validità ed efficacia sono concetti giuridici distinti, ovviamente collegati, ma comunque non coincidenti. Senza addentrarci in argomentazioni giuridiche che esulano dalla presente, basilare, trattazione è opportuno far presente che la validità concerne la conformità dell'atto alle regole legali (sia di carattere generale, sia specificamente dettate per il tipo di atto) che lo disciplinano, mentre l'efficacia attiene all'attitudine dell'atto a sortire gli effetti di cui è capace.

E’ ovvio che un contratto collettivo “scaduto” sarà privo di efficacia eccezion fatta per la parte normativa. Il datore può utilizzare un CCNL che includa condizioni peggiorative rispetto a quello adottato precedentemente? Si, ma le modifiche peggiorative non si applicano ai lavoratori già in forza nell’azienda prima dell’adozione del nuovo CCNL. Si ipotizzi ad esempio che il datore in data 1 settembre 2014 decida di adottare un nuovo contratto collettivo con retribuzioni inferiori per i vari livelli di inquadramento rispetto a quelli utilizzati prima. Ne consegue che i nuovi trattamenti economici verranno applicati ai dipendenti assunti dal 1 settembre in poi, mentre i vecchi dipendenti hanno diritto a ricevere la medesima retribuzione.

Quali sono i vantaggi nel mutare un contratto collettivo applicato in azienda?
Molteplici. Innanzitutto le disposizioni del nuovo contratto troveranno applicazione nei confronti del personale assunto dopo la variazione. In secondo luogo i CCNL offrono strumenti differenti e peculiari che li differenziano uno dall’altro (si pensi ai servizi che offerti dagli Enti Bilaterali o dai Fondi interprofessionali di formazione continua che fanno riferimento alle medesime parti sindacali firmatarie del CCNL) che non devono essere sottovalutati e che rendono un contratto più appetibile rispetto ad un altro. Ricordiamo inoltre che al di fuori dei diritti quesiti (cioè diritti già entrati nella sfera giuridica del lavoratore e quindi immutabili) il nuovo CCNL applicato in azienda può apportare mutamenti anche al trattamento complessivo dei lavoratori assunti in precedentemente alla variazione.

domenica 24 aprile 2016

Lavoro: cosa sono i comportamenti antisindacali


Se il datore di lavoro adotta comportamenti che impediscono o limitano l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale o del diritto di sciopero, gli organismi locali delle organizzazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, possono presentare ricorso davanti al tribunale monocratico.

Nei due giorni successivi, il giudice del lavoro, convocate le parti e acquisite le informazioni necessarie, se dovesse accertare tale violazione, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
Contro il decreto, il datore di lavoro può, entro 15 giorni dalla comunicazione, proporre opposizione davanti al tribunale monocratico che decide con sentenza immediatamente esecutiva.

Il datore di lavoro che non osserva il decreto o la sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, è punito dall’art. 650 c.p. (“Inosservanza di un provvedimento emesso da una pubblica autorità”) secondo il quale “chiunque non osserva un provvedimento emesso da una pubblica autorità è punito con l’arresto fino a tre mesi o con un’ammenda fino ad euro 206. E’ quanto riporta l’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.

Si intende per a condotta antisindacale è quella tenuta dal datore di lavoro o dai soggetti che in suo nome hanno agito per l’esercizio dell’impresa; il comportamento è illegittimo in quanto idoneo a ledere beni protetti ed è pluri offensivo in quanto gli interessi lesi possono essere anche individuali e non solo del sindacato. Al fine di riconoscere la sussistenza del requisito della nazionalità, è necessario che il sindacato abbia una significativa e omogenea presenza nelle varie parti del territorio nazionale.

In particolare, è stato ritenuto antisindacale il comportamento che incida, in modo diretto, su diritti sindacali espressamente riconosciuti dai contratti collettivi di lavoro, dalla legge o, addirittura, dalla costituzione. La giurisprudenza ha però avuto modo di precisare come la violazione dei diritti chiaramente stabiliti da norme legali o contrattuali non esaurisca l'ambito dei comportanti antisindacali; infatti, si ritiene che il procedimento citato sia destinato a tutelare il sindacato da tutti quei comportamenti del datore di lavoro tali da ledere, ingiustificatamente, le prerogative del sindacato stesso, danneggiandone l'immagine. Più precisamente, è stato sostenuto che, una volta aperta una trattativa tra il sindacato e il datore di lavoro, entrambe le parti sono tenute a condurre tale trattative con correttezza e buona fede.

Vi sono però dei casi in cui è specificamente previsto l’obbligo del datore di lavoro di rendere certe informazioni al sindacato o alla sua rappresentanza aziendale. Questi casi sono innanzi tutto contemplati dalla legge, che – per esempio – prevede il diritto di informazione a fronte della decisione del datore di lavoro di adottare provvedimenti a forte impatto sui lavoratori: ciò accade, tra l’altro, nel caso in cui il datore di lavoro intenda mettere i lavoratori in mobilità, o sospenderli in cassa integrazione o, ancora, trasferire la propria azienda o un ramo autonomo di essa.

Altri diritti di informazione sono invece previsti dalla contrattazione collettiva, in particolare di categoria. I diritti di informazione di origine contrattuale sono dunque inevitabilmente piuttosto numerosi e, naturalmente, si applicano solo al sindacato di riferimento del contratto che ne costituisce la fonte. Per esempio, i contratti di categoria possono prevedere diritti di informazione in tema di fruizione dei permessi per riduzione dell’orario di lavoro, o di individuazione del periodo feriale, o di superamento di certi limiti di lavoro straordinario, eccetera.

In tutti i casi in cui il sindacato, o la sua rappresentanza aziendale, sia titolare di un diritto di informazione, a prescindere dal fatto che esso derivi dalla legge o dal contratto, il datore di lavoro è obbligato a renderla. La sanzione prevista dall’ordinamento nei confronti del datore di lavoro inadempiente è la condanna per condotta antisindacale, prevista dall’art. 28 S.L.. Infatti, si ritiene che la violazione di un diritto del sindacato possegga di per sé quella caratteristica, tanto più se si considera che, a seguito della violazione dell’obbligo in questione, il sindacato perde in credibilità agli occhi dei propri rappresentati e, comunque, gli si preclude in radice di svolgere il ruolo di interlocutore del datore di lavoro in un caso in cui la stessa legge, o il contratto collettivo, lo impone come tale.

L’interesse ad agire ex art. 28 SL spetta non alla struttura sindacale, ma alla Rsu, qualora la controversia riguardi la lesione di un diritto di quest’ultima e la legittimazione ad agire ex art. 28 SL sussiste in capo all’organismo locale dell’organizzazione sindacale confederale che, priva di articolazioni categoriali, possegga carattere nazionale.


domenica 8 novembre 2015

Diritti del lavoratore: demansionamento e dequalificazione professionale


La sentenza n. 20473 della Corte di Cassazione  sezione lavoro del 29 settembre 2014, ha stabilito che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l'asserito demansionamento, in quanto va  evitato, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale.

Quando il dipendente viene declassato e adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione La recente approvazione della riforma del lavoro, detta Jobs act, ha introdotto fra le altre cose il concetto di demansionamento.

Vediamo di capire meglio se e quando è lecito, e quali siano i margini di manovra delle aziende e dei lavoratori.

Il dipendente non può essere infatti adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato (è il cosiddetto demansionamento): il divieto è volto ad evitare la lesione della professionalità acquisita dal lavoratore.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda. Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:
– modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o
– previste dai contratti collettivi.

In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Con le recenti modifiche approvate con il Job Act è invece possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita).

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.
Per esempio: a un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificata al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, soprattutto in materia di onere della prova e del risarcimento del danno. In particolare, secondo i giudici, il demansionamento è escluso nei casi di:

– adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

– riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore;

– sopravvenuta infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.

Inoltre, un eventuale demansionamento non va valutato in rapporto ad un incarico di natura temporanea, bensì alle mansioni originarie e tipiche della qualifica del lavoratore. Per cui, se il lavoratore viene adibito solo temporaneamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni ciò non significa che sia stato demansionato.

Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Sono tuttavia esclusi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.

Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Pertanto il lavoratore può agire in tribunale, con una causa di lavoro, e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro – anche provvisoria – recedere dal contratto per giusta causa.

Il ricorso al giudice del lavoro costituisce lo strumento per accertare la violazione del divieto di demansionamento. Accertata la violazione, il giudice può disporre a tutela del lavoratore:

– la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;

– la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate medio tempore (es. nel caso di attribuzione di mansioni inferiori con conseguente trattamento economico deteriore);

– la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subito.

Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale deve essere sempre provato dal lavoratore che deve dimostrare una riduzione dello stipendio e/o le conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. In difetto, il giudice, anche qualora rilevi l’avvenuto demansionamento e l’illegittimità della condotta del datore, non può liquidare alcun indennizzo al dipendente.

Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale, è, infatti, necessario fornire prove o allegazioni del male subito.

In tal senso il danno da dequalificazione o da demansionamento può consistere:

– sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio (sempre di natura economica) subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno

– sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.

Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è ritenuto legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede.
Il rifiuto della prestazione lavorativa può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e lealtà, risulta oggettivamente ragionevole e logico, cioè deve trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate. In tal caso, l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro.

Comunque sul datore di lavoro grava l’obbligo di comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta, pena la nullità. In materia di onere della prova e risarcimento del danno, poi, è intervenuta la giurisprudenza.

In particolare, il demansionamento viene escluso dai giudici nei casi di:

 adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non comprese nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo . In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate;

 intervenuta infermità permanente, a patto che tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.


mercoledì 14 ottobre 2015

CCNL commercio: contratto a tempo determinato


Vediamo le novità sul contratto a termine nei settori Commercio e Servizi: limiti, aree turistiche contratto di sostegno sperimentale.

Come noto il 30 marzo 2015 è stato sottoscritto il rinnovo del Ccnl Terziario, distribuzione e servizi con decorrenza a far data dal 1° aprile 2015 e scadenza al 31 dicembre 2017.

L’assunzione a tempo determinato dovrà risultare da atto scritto, contenente le seguenti indicazioni:

- la tipologia del contratto di assunzione;

- la data di inizio del rapporto di lavoro e la sua durata prevista e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del Datore di lavoro che consentono l’apposizione del termine;

- la deroga alla precisazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo in caso di primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a 12 mesi;

- la località in cui presterà la sua opera;

- la categoria professionale della classificazione unica cui viene assegnato, la qualifica e la retribuzione;

- l’indicazione dell’applicazione del presente contratto collettivo di lavoro;

- la durata dell’eventuale periodo di prova;

- le altre eventuali condizioni concordate.

La lettera di assunzione deve inoltre indicare il cognome e nome e/o ragione sociale, l’indirizzo, il codice fiscale del Datore di lavoro nonché tutti quei dati o notizie previste dalla Legge. Il Lavoratore sottoscriverà per accettazione la lettera di assunzione.

Tra le novità più significative spicca la possibilità di ricorrere ad una nuova tipologia di contratto a termine per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro ad una serie di soggetti “ deboli” di difficile ricollocazione o inserimento lavorativo".

Il nuovo “contratto a termine presenta le seguenti particolarità:

questo contratto non deve rispettare i limiti dettati dal Ccnl Commercio (20% del personale a tempo indeterminato e 28% quale sommatoria tra contratti a termine e contratti di somministrazione;

la nuova tipologia contrattuale verrà monitorata e diventerà definitiva solo in occasione del prossimo rinnovo del Ccnl.

I soggetti destinatari di questa nuova forma di contratto a termine sono:

1) coloro che “ negli ultimi sei mesi non hanno prestato attività riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato della durata di almeno sei mesi”; o che, negli ultimi sei mesi, hanno svolto attività lavorativa in forma autonoma o parasubordinata dalla quale derivi un reddito inferiore al minimo escluso da imposizione fiscale (4.800 euro)

2) coloro che, titolari di un rapporto di apprendistato, non hanno visto “consolidarsi” il proprio rapporto al termine del periodo formativo;

3) coloro che hanno esaurito l’accesso a misure di sostegno al reddito come NASPI, DIS-COLL;
il nuovo contratto ha una durata di 12 mesi e può essere applicabile a tutte le mansioni lavorative;

la nuova tipologia contrattuale è soggetta ad uno specifico obbligo formativo di 16 ore con approfondimento della materia di prevenzione antinfortunistica con l'obbligo di evidenziare la formazione sul Libro Unico del Lavoro;

l’inquadramento e la retribuzione dei lavoratori di cui al nuovo contratto di sostegno all’occupazione può essere inferiore nei primi 6 mesi di due livelli rispetto a quello finale previsto e di uno nel successivo periodo);

in caso di trasformazione a tempo indeterminato, il trattamento economico sarà di un livello inferiore rispetto a quello spettante per la qualifica indicata nel contratto di assunzione per ulteriori 24 mesi (eccetto per i lavoratori a tempo determinato assunti per una qualifica compresa nel se¬sto livello)

la contribuzione previdenziale del nuovo contratto dispone una percentuale ASpI maggiorata dell’1,40%, mentre la con¬tribuzione a carico del datore di lavoro per il fondo di previdenza complementare Fonte è pari all’1,05% per tutta la durata del rapporto.

Il Ccnl Commercio introduce una specificità per i contratti a tempo determinato applicabile alle aziende situate nelle località turistiche che, pur non esercitando attività stagionali, hanno la necessità di gestire picchi di lavoro in determinati periodi dell'anno.

Per tale motivo è stato concordato che i contratti a tempo determinato riconducibili agli eventi appena descritti sono esclusi da limitazioni quantitative.

Il livello di inquadramento professionale e il conseguente trattamento economico sarà, per i primi sei mesi, di 2 livelli inferiori e per il restante periodo di un livello inferiore rispetto alla qualifica indicata nel contratto di assunzione.

In caso di trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, il livello di inquadramento e il conseguente trattamento economico sarà di l livello inferiore rispetto a quello spettante per la qualifica indicata nel contratto di assunzione, per un ulteriore periodo di 24 mesi.

Le assunzioni effettuate con contratti a tempo determinato e con contratti di somministrazione a tempo determinato non potranno complessivamente superare il 28% annuo dell'organico a tempo indeterminato in forza nell'unità produttiva, ad esclusione dei contratti conclusi per la fase di avvio di nuove attività.

sabato 26 settembre 2015

Lavoro: calcolo periodo di comporto


Il termine periodo di comporto sta ad indicare la somma di tutte le assenze per malattia avvenute in un determinato arco temporale. La normativa prevede che durante tale periodo di comporto (malattia) viene conservato il posto di lavoro. Allorquando si supera il periodo di comporto, si può procedere al licenziamento del dipendente.

Quasi tutti i contratti di lavoro, in caso di superamento del periodo di comporto, consentono al lavoratore la possibilità di richiedere un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita (con conservazione del posto ). I contratti di lavoro contengono la specifica previsione che, qualora le assenze siano imputabili a patologie gravi che richiedono terapia salvavita, come ad esempio l'emodialisi, la chemioterapia, ecc., dal computo sono esclusi i giorni di ricovero ospedaliero o in day hospital, nonché i giorni di assenza per l'effettuazione delle relative terapie.

Quando il contratto di lavoro fa riferimento all'anno di calendario si intende il periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre di ogni anno; se il riferimento è all'anno solare, si deve intendere un periodo di 365 giorni computati dal primo giorno di malattia. Si considerano anche i giorni festivi, comprese le domeniche o comunque non lavorativi che cadono durante la malattia.

Al contrario, per la determinazione del periodo di comporto, non si tiene conto dei giorni festivi o non lavorativi che seguono o precedono immediatamente quelli indicati sul certificato medico.

Al fine di calcolare il periodo di comporto si risale a ritroso dall'ultimo giorno di assenza per malattia ai tre anni o quattro anni, dipende dal CCNL, precedenti per verificare il rispetto del limite massimo consentito per le assenze retribuite. Superati i mesi retribuiti, su domanda del dipendente, possono essere concessi ulteriori mesi non retribuiti, durante i quali è prevista unicamente la conservazione del posto.

Prima di concedere l'ulteriore periodo di assenza non retribuita, l'Amministrazione deve procedere all'accertamento delle reali condizioni di salute del dipendente tramite la ASL, con lo scopo di verificare la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità a svolgere qualsiasi proficuo lavoro.

Pertanto, in base al meccanismo dello scorrimento, in occasione di ogni ulteriore episodio morboso è necessario procedere al seguente calcolo:

• determinare il triennio o quadriennio precedente l'ultimo episodio morboso: dal giorno precedente l'inizio della malattia in atto procedere a ritroso di tre o quattro anni;

• sommare le assenze per malattia intervenute nel triennio come sopra determinato;

• sommare alle assenze per malattia effettuate nel triennio precedente (risultato del punto precedente) quelle del nuovo episodio morboso.

Di volta in volta, sulla scorta delle risultanze derivanti dalla sommatoria di cui all’ultimo punto di cui sopra, sarà necessario:

• verificare il rispetto del periodo massimo di conservazione del posto;

• determinare il trattamento economico da corrispondere: infatti, sulla base dell'entità delle assenze risultanti dal computo effettuato in occasione dell'ultima malattia, il dipendente si colloca in una delle diverse articolazioni temporali contemplate all'interno del periodo massimo, percependo un trattamento economico nella misura prevista per ciascuna di esse.

Durante il periodo di malattia il lavoratore avrà diritto alle normali scadenze dei periodi di paga:
ad una indennità pari al cinquanta per cento della retribuzione giornaliera per i giorni di malattia dal quarto al ventesimo e pari a due terzi della retribuzione stessa per i giorni di malattia dal ventunesimo in poi, posta a carico dell’INPS, secondo le modalità stabilite, e anticipata dal datore di lavoro.

L’importo anticipato dal datore di lavoro è posto a conguaglio con i contributi dovuti all’INPS;
ad una integrazione dell’indennità a carico dell’INPS da corrispondersi dal datore di lavoro, a suo carico, in modo da raggiungere complessivamente le seguenti misure:

100% (cento per cento) per primi tre giorni (periodo di carenza)

75% (settantacinque per cento) per i giorni dal 4° al 20°

100% (cento per cento) per i giorni dal 21° in poi della retribuzione giornaliera netta cui il lavoratore
avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto.

Per retribuzione giornaliera si intende la quota giornaliera della retribuzione di fatto.
In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l'assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

venerdì 25 settembre 2015

Lavoro straordinario previsione CCNL e retribuzione


Per lavoro straordinario si deve intendere la prestazione di lavoro che eccede l’orario normale settimanale. Generalmente è considerato straordinario l’orario eccedente le 40 ore settimanali. Dal punto di vista contrattuale è invece straordinaria la prestazione di lavoro che eccede l’orario settimanale prefissato dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Il lavoro straordinario viene compensato mediante una maggiorazione della retribuzione, fissata dalla contrattazione collettiva; sempre la contrattazione può prevedere che, in alternativa alla maggiorazione per il lavoro straordinario, al lavoratore vengano concessi periodi di riposo compensativo.  Se Il compenso per lavoro straordinario viene corrisposto in modo fisso e continuativo, il medesimo incide sul calcolo del T.F.R.

Nel caso in cui il CCNL fissi un orario di lavoro ordinario inferiore alle 8 ore giornaliere, l’eventuale straordinario può essere corrisposto con una maggiorazione anche inferiore al 10% della paga base.
I giudici della Corte di Cassazione, hanno affermato che nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un orario massimo di lavoro normale inferiore a quello predeterminato per legge, la stessa contrattazione può stabilire che il superamento dell'orario contrattuale, fino al limite di quello legale, non sia compensato secondo la disciplina del lavoro straordinario. Di conseguenza, in tali casi, la maggiorazione per lavoro straordinario può essere inferiore al 10% della paga ordinaria.
In definitiva, solo il lavoro straordinario superiore alle 8 ore giornaliere (48 ore settimanali) va retribuito in misura non inferiore al 10% della retribuzione ordinaria.

In particolare, con riferimento alla fattispecie,  secondo cui la maggiorazione per il lavoro straordinario non può essere inferiore al dieci per cento della retribuzione ordinaria, si riferisce esclusivamente alle ore di straordinario eccedenti la giornata normale di lavoro (in otto ore giornaliere e quarantotto ore settimanali).

Ne consegue che nell'ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un orario massimo di lavoro normale inferiore alle otto ore giornaliere e alle quarantotto ore settimanali, il compenso deve essere sempre corrisposto  con una maggiorazione rispetto a quella ordinaria  che può anche essere inferiore alla misura del  dieci per cento prevista per legge.

Ancora, continua la Corte di Cassazione, poiché l'art. 36 Cost. nulla stabilisce circa la struttura della retribuzione e l'articolazione delle voci che la compongono, “è rimessa insindacabilmente alla contrattazione collettiva la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei lavoratori, del quale il giudice potrà poi essere chiamato a verificare la corrispondenza ai minimi garantiti dalla norma costituzionale. Quanto alle modalità di determinazione di tale maggiorazione, esse non possono che essere individuate nella contrattazione collettiva, poiché, se il lavoro straordinario è individuato come tale esclusivamente dalla fonte pattizia, non può poi negarsi a quest'ultima il potere di regolamentare l'istituto anche sotto tale aspetto”. Per questi motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso.

Nell'ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un limite di orario normale inferiore a quello predeterminato per legge, è consentito alla stessa contrattazione determinare l'assetto degli interessi nel senso che il superamento dell'orario contrattuale fino al limite di quello legale non debba essere compensato secondo la disciplina del lavoro straordinario.

martedì 21 luglio 2015

Contratto di apprendistato, sei mesi di durata minino



L’apprendistato è un contratto di lavoro di speciale natura (c.d. a causa mista), in quanto al suo interno convivono un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e un rapporto di formazione a tempo determinato.

Tutte le aziende che assumono con “contratto di apprendistato” un giovane con età compresa tra i 17 e 29 anni, hanno l’obbligo di far frequentare un corso di formazione professionalizzante al neo assunto.

L’apprendistato è un contratto di lavoro di speciale natura (c.d. a causa mista), in quanto al suo interno convivono un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e un rapporto di formazione a tempo determinato.

Per assumere un apprendista il datore di lavoro deve comunicare l’assunzione tramite l’applicativo “GECO” (Gestione Comunicazioni Obbligatorie); redigere il PFI, nel quale sono indicate le competenze che l’apprendista deve acquisire entro il termine previsto dal contratto di apprendistato.

Entro 10 giorni dall’assunzione deve:
Per usufruire della formazione pubblica finanziata per l’acquisizione delle competenze di base e trasversali deve scegliere, tramite l’applicativo “Gestione apprendistato”, l’agenzia formativa presso il quale far svolgere i corsi all’apprendista (iscrizione);13:54 21/07/2015l contratto:

tutte le aziende che assumono con “contratto di apprendistato” un giovane con età compresa tra i 17 e 29 anni, hanno l’obbligo di far frequentare un corso di formazione professionalizzante al neo assunto

Il Testo Unico sull’Apprendistato prevede tre tipologie di apprendistato:
Per la qualifica o per il diploma professionale: destinato, in tutti i settori di attività, ai giovani di età compresa tra i 15 e i 25anni e finalizzato anche all’assolvimento dell’obbligo di istruzione. La durata del percorso formativo non potrà superare i tre anni (4 nel caso di diploma regionale quadriennale) e la regolamentazione dei profili formativi è rimessa alle Regioni e alle Province Autonome di Trento e Bolzano, sentite le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Professionalizzante o di mestiere: in tutti i settori di attività, pubblici e privati, destinato a giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni (dai 17 anni se in possesso di una qualifica professionale) è finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale a fini contrattuali. La durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione di competenze tecnico - professionali e specialistiche nonché la durata, anche minima del contratto, sono stabilite da accordi interconfederali e dai contratti collettivi, in ragione dell’età dell’apprendista e della qualifica da conseguire. La formazione di tipo professionalizzante è integrata dall’offerta formativa pubblica, interna o esterna all’azienda, di competenza regionale e finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte ore complessivo non superiore a 120 ore nel triennio.

Di alta formazione e ricerca: in tutti i settori di attività, pubblici e privati, destinato a giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni (dai 17 anni se in possesso di una qualifica professionale) è finalizzato ad attività di ricerca, al conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di un titolo universitario e di alta formazione compresi i dottorati di ricerca, il praticantato ovvero la specializzazione tecnica superiore ex art. 69 L. 144/1999. La regolamentazione e la durata di tale tipologia di apprendistato è rimessa alle regioni, per i soli profili formativi, in accordo con le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le università, gli istituti tecnici e professionali e altre istituzioni formative o di ricerca comprese quelle in possesso di riconoscimento istituzionale di rilevanza nazionale o regionale aventi ad oggetto la promozione di attività imprenditoriali, del lavoro, della formazione, dell’innovazione e del trasferimento tecnologico.

Nell’ambito del contratto di apprendistato il datore di lavoro deve rispettare tutte le obbligazioni tipiche di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (pagare la retribuzione, rispettare la contrattazione collettiva...) e, in più, attuare tutti gli obblighi formativi previsti dalla legge o dal contratto collettivo.

L’apprendista deve rispettare tutte le obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro nonchè rispettare tutti gli obblighi finalizzati al corretto adempimento del percorso formativo.

L’orario di lavoro viene fissato dai contratti collettivi nel rispetto di quanto previsto dal D.lgs 66/2003.

Le ore destinate all’addestramento pratico ed all’insegnamento complementare si considerano, a tutti gli effetti, ore lavorative computabili nell’orario di lavoro.

Al termine del periodo di apprendistato il rapporto si trasforma automaticamente in rapporto a tempo indeterminato?

Al termine dell’apprendistato, se entrambe le parti non esercitano la facoltà di recesso di cui all’art. 2118 c.c. (con preavviso) il rapporto prosegue come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Durante l’apprendistato, il datore di lavoro può recedere in qualsiasi momento dal rapporto di apprendistato?

Il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro, prima del termine del periodo di formazione, solo per giusta causa o giustificato motivo. Il recesso è sempre possibile "ad nutum" durante il periodo di prova.

Quanto dura l’apprendistato professionalizzante?

Gli accordi interconfederali e i contratti collettivi stabiliscono la durata, anche minima, del contratto che, per la sua componente formativa non può comunque essere superiore a tre anni ovvero cinque per le figure professionali dell’artigianato individuate dalla contrattazione collettiva di riferimento.

La Legge di Riforma del Mercato del Lavoro (L. 92/2012), in vigore dal 18 luglio 2012, ha modificato il Testo Unico introducendo una durata minima del contratto pari a 6 mesi con eccezione degli apprendisti assunti per lo svolgimento di attività stagionali.

I CCNL possono inserire periodi di durata minima del contratto di apprendistato professionalizzante?

Ferma restando la durata minima di sei mesi introdotta dalla legge di Riforma del Mercato del lavoro, il Testo Unico sull’apprendistato, all’art. 4, comma 2, stabilisce espressamente che agli accordi interconfederali ed alla contrattazione collettiva di settore spetta l’individuazione della durata, anche minima, del contratto.

E’ ammesso l’apprendistato professionalizzante in aziende che svolgano attività organizzate su cicli stagionali?

L’art. 3 comma 2 quater del Testo Unico sull’apprendistato stabilisce che per le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, i contratti collettivi di lavoro stipulati da associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali.

Come viene retribuito l’apprendista?

La retribuzione dell’apprendista è disciplinata dal testo Unico sull’apprendistato che da un lato afferma il divieto di retribuire l’apprendista a cottimo e dall’altro prevede la possibilità per il datore di lavoro di possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante, in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto ovvero, in alternativa, di stabilire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e in modo graduale all’anzianità di servizio.

Formazione

Il Piano Formativo Individuale definisce il percorso formativo dell’apprendista.
A seguito dell’entrata in vigore della L. 78/2014 di conversione del D.L.34/2014 (c.d. Jobs Act) il Piano Formativo Individuale deve essere redatto obbligatoriamente in forma scritta ed è contenuto nel contratto di apprendistato, in forma sintetica.
Il piano formativo individuale è definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali.

Il profilo formativo definisce gli obiettivi/contenuti del percorso di formazione formale che deve realizzarsi nell’ambito del contratto di apprendistato.

Il tutor è una figura prevista dalle norme di legge e di contratto cui spetta il compito di affiancare l’apprendista durante il periodo di apprendistato e di trasmettere le competenze necessarie all’esercizio delle attività lavorative, favorendo l’integrazione tra le iniziative formative esterne all’azienda e la formazione sul luogo di lavoro.
La legge stabilisce che il tutor debba avere "formazione e competenze adeguate", secondo le previsioni della normativa regionale o, in assenza, della contrattazione collettiva.

Al termine del periodo di apprendistato il datore di lavoro attesta le competenze professionali acquisite dall’apprendista, dandone comunicazione alla struttura territoriale pubblica competente in materia di servizi all’impiego e rilasciandone copia al lavoratore, ciò dimostrerà l’assolvimento dell’obbligo di formazione da parte dell’azienda e dell’apprendista. La registrazione della formazione effettuata e della qualifica professionale eventualmente acquisita deve essere effettuata su un documento avente i contenuti minimi del modello di libretto formativo del cittadino.

La durata del percorso formativo dell’apprendista, contenuto nel piano formativo individuale, è rimessa agli accordi interconfederali o alla contrattazione collettiva di settore. In ogni caso non potrà essere superiore a 3 anni (ovvero cinque per le figure professionali dell’artigianato individuate dalla contrattazione collettiva di riferimento).



giovedì 21 maggio 2015

Nuovo contratto di lavoro per gli studi professionali



Ecco le principali novità del CCNL per i dipendenti degli Studi. Il contratto riguarda 1,5 milioni di lavoratori fra titolari, dipendenti e collaboratori, ha effetto dal primo aprile 2015 e dura fino al 31 marzo 2018. L’aumento è di 85 euro per il terzo livello, con conseguente parametrazione per gli altri livelli. Sul fronte del welfare, come detto ne prevede l’estensione ai professionisti e ai collaboratori degli studi, che sino ad ora ne erano esclusi. Novità anche in materia di telelavoro, congedo parentale a ore, possibilità di introdurre ulteriori elementi di flessibilità attraverso la contrattazione di secondo livello.

Riguardo all'apprendistato è stata fissata la percentuale di conferma per gli apprendisti, che dovrà essere pari almeno al 20% per le strutture fino a 50 dipendenti e del 50% per quelle più grandi. Per la prima volta  poi viene  fissato  il rapporto tra numero di lavoratori a tempo indeterminato e determinato. Questi ultimi potranno contare su un diritto di precedenza  in caso di  assunzioni stabili.

Si definiscono le aree di applicazione del contratto come segue:

1) Area professionale Economico-Amministrativa: Consulenti del Lavoro, Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, Revisori Contabili, altre professioni di valore equivalente ed omogenee all'area professionale non espressamente comprese;

2) Area Professionale Giuridica: Avvocati, Notai, altre professioni di valore equivalente.

3) Area professionale Tecnica: Ingegneri, Architetti, Geometri, Periti Industriali, Geologi, Agronomi e Forestali, Periti agrari, Agrotecnici, altre professioni di valore equivalente ed omogenee all'area professionale.

4) Area professionale Medico Sanitaria e Odontoiatrica: Medici, Medici Specialisti, Medici Dentisti, Odontoiatri, Medici Veterinari e Psicologici, Operatori Sanitari, abilitati all'esercizio autonomo delta professione di cui alla specifica Decretazione Ministeriale, ad esclusione dei Laboratori Odontotecnici, altre professioni di valore equivalente ed omogenee all'area.

5) Altre attività professionali intellettuali: Si tratta di quelle attività non rientranti nelle prime quattro aree, con o senza Albo professionale.

Le agevolazioni per le assunzioni prevedono un contratto di reimpiego per chi ha oltre 50 anni e per i disoccupati da oltre 12 mesi, con la possibilità di sotto-inquadramento ma un’assunzione a tempo indeterminato. Vengono fissati rapporti da rispettare fra i contratti a tempo indeterminato e determinato, con diritto per precedenza di questi ultimi per assunzioni stabili. Gli apprendisti devono essere almeno il 20% per gli studi fino a 50 dipendenti e il 50% per le strutture più grandi.

Una delle novità più rilevanti introdotte nel nuovo Ccnl riguarda l'estensione delle tutele di welfare ai professionisti-datori di lavoro, che potranno beneficiare di una copertura di assistenza (sanitaria e antinfortunistica) che verrà gestita dalla bilateralità di settore, sotto la direzione e la vigilanza di Confprofessioni. Inoltre, sulla scia delle tendenze del mercato del lavoro e delle diverse forme di collaborazione che si instaurano all'interno di uno studio professionale, le tutele di welfare contrattuale verranno estese anche ai collaboratori e praticanti.

Ecco le novità più rilevanti:

Rappresentanza contrattuale: il nuovo Ccnl degli studi professionali è stipulato da Confprofessioni come unica rappresentanza datoriale.

Decorrenza e durata: il periodo di vigenza contrattuale decorre dal 1° aprile 2015, sino al 31 marzo 2018.

Trattamento economico: aumento retributivo complessivo a regime, 31 marzo 2018, di 85 euro per il III livello diviso in cinque fasi, con l’esclusione di qualsiasi erogazione una tantum.

Welfare per i professionisti datori di lavoro: introdotta la copertura di assistenza (sanitaria/antinfortunistica) del datore di lavoro. La gestione di tali prestazioni, sotto la direzione di Confprofessioni, è affidata alla bilateralità.

Potenziamento e valorizzazione della bilateralità: Attivazione di un fondo per il sostegno al reddito dei lavoratori di studi professionali che attraversano un periodo di crisi. Rimborso al datore di lavoro del 50% della retribuzione derivante dalla concessione del permesso studio ai lavoratori. Incentivata la costituzione di articolazioni territoriali dell’ente bilaterale nazionale, denominati sportelli, per la gestione del mercato del lavoro.

Rilancio del II livello di contrattazione: possibilità di realizzare a livello territoriale intese per una regolazione dell’attività lavorativa più rispondente alle esigenze dei datori di lavoro; maggiore coinvolgimento delle delegazioni territoriali nella disciplina del rapporto di lavoro.

Contratti e modalità di lavoro: lavoro a tempo determinato: elevato il numero di contratti a termine che potranno essere attivati da ciascun datore di lavoro ed è stato abolito l’obbligo di rispettare gli intervalli di tempo tra differenti contratti a termine.

Apprendistato: semplificazione degli obblighi formativi, riducendo complessivamente le ore di formazione. Possibilità di effettuare la formazione in tutte le modalità possibili. - Lavoro intermittente: regolamentazione del lavoro a chiamata. Il Ccnl degli studi professionali è tra i pochi a disciplinare tale tipologia contrattuale, di fondamentale importanza per garantire flessibilità.

Contratto di reimpiego: Per un periodo di 30 mesi sarà possibile retribuire soggetti over 50 e disoccupati di lunga durata con un salario di ingresso più basso rispetto a quello di base previsto dal Ccnl.

Rilancio del telelavoro per garantire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Rivisto il regime dei permessi per lo studio e per le nuove assunzioni, con un intervento dell’ente bilaterale a coprire parte dei costi retributivi.

Profili professionali: sono state concordate con le aree di Confprofessioni le modifiche relative alla classificazione del personale ed ai relativi profili.



venerdì 3 aprile 2015

Nuove retribuzioni dal 1 aprile 2015 per chi lavora in confcommercio



Confcommercio ha sottoscritto con Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs–Uil l’accordo di rinnovo del CCNL Terziario, distribuzione e servizi.

Il rinnovo decorre dal primo aprile e avrà durata fino al 31 dicembre 2017. Per quanto riguarda il lato economico è previsto un aumento a regime di 85 euro, dal lato normativo invece troviamo novità come il contratto a tempo determinato per il sostegno all’occupazione e la semplificazione nella flessibilità dell’orario.

Ulteriore novità riguarda la flessibilità degli orari di lavoro nei periodi di picco di lavoro, in questi periodi come ad esempio il periodo natalizio o i saldi per i negozi, ma anche giugno per le aziende che fanno servizi alle imprese, i datori di lavoro potranno chiedere ai loro dipendenti di lavorare quattro ore in più (per un massimo di 16 settimane nell’arco di 12 mesi) senza che sia necessario l’ok del sindacato né del lavoratore stesso e senza che si paghi lo straordinario.
Queste ore saranno poi recuperate nell’ arco dei 12 mesi seguenti e comunque in periodi che per l’azienda sono meno impegnativi e nei quali c’è meno bisogno di personale. Si tratta quindi di una flessibilità molto importante in un settore nel quale sono frequenti i picchi di attività.

L’accordo prevede anche norme sul sottoinquadramento nel caso di assunzione di persone ”deboli” come i disoccupati o coloro che hanno concluso l’apprendistato senza che ci sia stata una stabilizzazione. Con queste persone può essere stipulato un contratto a tempo determinato di 12 mesi, di cui 6 mesi con un sottoinquadramento di due livelli e 6 mesi con un sottoinquadramento di un livello.

Il sottoinquadramento di un livello è concesso per altri 24 mesi in caso di trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Fino al 31 marzo prosegue la vigenza del vecchio contratto (teoricamente doveva scadere a fine 2013) ma per il 2014 e i primi tre mesi del 2015 non sono previste ”una tantum”.

a) Minimi tabellari: A decorrere dalle scadenze di seguito indicate verranno erogati i seguenti aumenti salariali non assorbibili:

In merito ai Viaggiatori, l' aumento salariale può essere assorbito, fino a concorrenza, da eventuali elementi retributivi concessi con clausole espresse di assorbimento ovvero a titolo di acconto o di anticipazione sul presente contratto.

Per I' Operatore di Vendita retribuito anche con provvigione, o con altre forme di incentivo, per retribuzione si intende la media mensile dei guadagni globali percepiti nei dodici mesi precedenti la data di scadenza dell' ultima liquidazione periodica. Nel caso in cui il rapporto abbia una durata inferiore ad un anno, la media è computata con riferimento al periodo di servizio prestato.

Pertanto, i nuovi minimi retributivi saranno i seguenti:

Livello 1/4/2015 1/11/2015 1/6/2016 1/11/2016 1/8/2017
Quadro 1.775,11 1.801,15 1.827,19 1.854,97 1.896,64
I 1.599,02 1.622,48 1.645,94 1.670,96 1.708,49
II 1.383,14 1.403,43 1.423,72 1.445,36 1.477,83
III 1.182,21 1.199,55 1.216,89 1.235,39 1.263,14
IV 1.022,46 1.037,46 1.052,46 1.068,46 1.092,46
V 923,73 937,28 950,83 965,29 986,97
VI 829,33 841,50 853,67 866,65 886,12
VII 710,00 720,42 730,84 741,95 758,62
Viagg. 1.a categ 965,17 979,33 993,49 1.008,59 1.031,25
Viagg. 2.a categ. 808,69 820,58 832,47 845,15 864,17

Elemento economico di garanzia nel CCNL Commercio 2015

b)  E' stato inoltre definito un elemento economico di garanzia che verrà erogato con la retribuzione di novembre 2017 e compete ai lavoratori a tempo indeterminato nonché agli apprendisti e ai contratti di inserimento in forza al 31/10/2017, che risultino iscritti nel libro unico da almeno sei mesi. L'  azienda calcolerà l’importo spettante, secondo quanto previsto dall’art. 191, in proporzione all’effettiva prestazione lavorativa svolta alle proprie dipendenze nel periodo 1/1/2015 - 31/10/2017. L’importo non è utile ai fini del calcolo di nessun istituto di legge o contrattuale, ivi compreso il trattamento di fine rapporto ed è assorbito, sino a concorrenza, da ogni trattamento economico individuale o collettivo aggiuntivo rispetto a quanto previsto dal CCNL Terziario, che venga corrisposto successivamente all’1/1/2015;

 Quadri, I e II livello III e IV livello V, VI e VII livello
Aziende fino a 10 dipendenti 95 euro   80 euro    65 euro
Aziende a partire da 11 dipendenti 105 euro   90 euro     75 euro
 Operatori di vendita

 I categoria II categoria
Aziende fino a 10 dipendenti      76 euro      63 euro
Aziende a partire da 11 dipendenti      85 euro      71 euro.


Vediamo in dettaglio le novità introdotte dal nuovo testo:

aumento minimi tabellari: l'aumento medio è di 85 euro lordi per un IV livello (terza area professionale) da suddividere in tre fasi:
o 1 ottobre 2016
o 1 ottobre 2017
o 1 ottobre 2018

giovani assunti: la retribuzione di ingresso per i neo assunti sale dell'8%, con la penalizzazione ridotta dal 18% al 10% per il salario d'ingresso;

inquadramento del personale: entro il 2016 un cantiere di lavoro specificatamente istituito dovrà definire un nuovo schema di classificazione del personale legato soprattutto ai cambiamenti del mercato e tecnologici che hanno cambiato fortemente il settore bancario;

Fondo per l'occupazione: è stata prolungata la sua attività fino al termine dell'attuale rinnovo (dicembre 2018)  che deve favorire la rioccupazione, la riqualificazione professionale e l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.




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