domenica 28 febbraio 2016

Trovare lavoro con Corner Job app 2016


Corner Job è la nuova app creata per tutti coloro che cercano lavoro e propone una soluzione semplice e veloce per trovare offerte lavorative attinenti alle proprie abilità. E’ possibile creare facilmente il tuo profilo e scoprire tutti gli annunci di lavoro vicini a te. Trovare un impiego velocemente dal tuo smartphone è possibile grazie all’app di Corner Job.

Trovare un lavoro non è così semplice. A questa situazione bisogna aggiungere la difficoltà nell’orientarsi tra centinaia di annunci ai quali mandare di volta in volta il proprio curriculum vitae. La app di Corner Job, che propone una soluzione semplice e veloce per trovare offerte lavorative attinenti alle proprie abilità mettendo immediatamente in contatto l’offerente e il candidato. Con pochi click ecco la possibilità di metterti in contatto con tantissime aziende in cerca di dipendenti. Corner Job è una community che permette di inserire il profilo della persona che scarica l’applicazione, ma anche di ricevere i primi contatti con i datori di lavoro.

Un datore di lavoro può creare in pochi istanti un annuncio inserendo una breve descrizione, una foto e la posizione geografica della propria azienda. Il candidato allo stesso modo, può creare un profilo inserendo informazioni essenziali come l’esperienza lavorativa pregressa, i titoli di studio e un breve testo di presentazione.

Ecco come funziona: ogni qual volta venga trovato un annuncio interessante l’utente può candidarsi tramite un rapido click sullo schermo. In questo modo la candidatura viene vagliata entro 24 ore dal potenziale datore di lavoro. In caso di riscontro positivo, viene attivata automaticamente una chat all’interno della quale le aziende e i candidate i hanno la possibilità di approfondire i dettagli del lavoro da svolgere e verificare l’eventuale compatibilità tra domanda e offerta giungendo in pochi minuti a una risposta definitiva in merito all’annuncio. Basta solo creare il profilo lavorativo e cercare le proposte lavorative più adatte. Ecco come funziona la nuova app Corner Job.

Su Corner Job ogni giorno vengono inserite centinaia di proposte di lavoro. L’idea sicuramente è interessante ma per raggiungere un livello di funzionamento ottimale sarebbe opportuno introdurre dei filtri più specifici e un coinvolgimento più ampio e differenziato delle imprese, senza le quali gli annunci risultano poco interessanti o ad ogni modo monotoni per tipologia di lavoro.

La app è gratuita ed è disponibile sul Google Play Store al seguente link https://play.google.com/store/apps/details?id=com.clapp.jobs

Lavoro dipendente: i controlli a distanza non soggetti ad accordo sindacale


Il Jobs Act ha innovato la disciplina dei controlli a distanza, contenuta nel nuovo comma 2 dell’art. 4 della legge n. 300/1970. L’obbligo del preventivo accordo sindacale o, in mancanza, dell’autorizzazione amministrativa non si applica nel caso di strumenti utilizzati per eseguire la prestazione o per rilevare accessi/presenze. Per definire l’ambito applicativo della norma occorre verificare se lo strumento sia utilizzato per eseguire la prestazione; infatti soltanto per tali strumenti il controllo è affrancato dal preventivo accordo sindacale o dalla autorizzazione amministrativa.

La sentenza emessa dalla Corte dei diritti umani il 12 gennaio 2016 conferma il Jobs Act in tema di controllo a distanza. I Giudici di Strasburgo hanno infatti stabilito che, in determinate condizioni, il datore di lavoro ha il diritto di monitorare il dipendente durante l’attività lavorativa quando questo utilizza strumenti per svolgere le proprie mansioni; nel caso in cui riscontri violazioni può utilizzare le informazioni raccolte ai fini del licenziamento.

Secondo il nuovo art. 4 dello Statuto dei Lavoratori il datore di lavoro può  installare, previo accordo sindacale, strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza, esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale; inoltre ha piena libertà decisionale per quanto riguarda gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (computer, device mobili, ecc.) e quelli di registrazione di accessi e presenze; le informazioni così raccolte sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal Codice Privacy.

E’ importante sottolineare come la Corte abbia tenuto conto che, l’accesso all’account personale (e non quello aziendale) del dipendente era giustificato dalla convinzione che questi stesse utilizzando lo strumento per svolgere proprie mansioni. Su tali presupposti i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ragionevole e giustificato porre in essere un’attività di controllo volta a verificare che i dipendenti stiano svolgendo correttamente il proprio lavoro. Anche perché il monitoraggio riguardava il solo strumento di lavoro, ossia le comunicazioni sul Yahoo Messenger. I Giudici quindi hanno concluso che il controllo del datore di lavoro è stato svolto all’interno di determinati limiti ed è stato proporzionato.

Le ragioni dell’azienda
L’azienda aveva politiche lavorative scritte, chiare e comunicate a tutti i dipendenti;

l’azienda ha il diritto di controllare il corretto svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti se tale verifica è circoscritta e proporzionata;

l’attività di controllo, quando i dipendenti hanno accesso a Internet deve prevedere le minacce al sistema IT aziendale.

Le ragioni del lavoratore
La sentenza sarebbe forse potuta essere diversa se il dipendente avesse provato in giudizio che:

la propria condotta non aveva comportato danni (sotto molteplici profili) all’azienda;
il comportamento assunto trovava giustificazione in termini personali ed economici (es.: un cellulare costava troppo);

l’attività di controllo dell’azienda era stata svolta senza garanzie e i dati personali erano stati diffusi in maniera non giustificata.

Conclusioni
Sicuramente, l’atteggiamento dei Tribunali a seguito dell’adozione di normative quali il Jobs Act permettono ai datori di lavoro di avere maggiore libertà in tema di controllo dei dipendenti. Ma è fondamentale sottolineare che questo sarà possibile sempre, solo e soltanto quando l’impresa si metta in condizioni strutturali e imprenditoriali tali da rendere il controllo giustificato, circoscritto e proporzionato.

L’articolo 23 del d.lgs n. 151/2015  modifica l’articolo 4 dello  Statuto dei Lavoratori,  per rimodulare la fattispecie integrante il divieto dei controlli a distanza, nella consapevolezza di dover tener conto, nell’attuale contesto produttivo, oltre agli impianti audiovisivi, anche degli altri strumenti «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori» e di quelli «utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa».

Nella sua formulazione originaria l’articolo 4  stabiliva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Al secondo comma, invece, il divieto cadeva, soltanto a condizione che il datore di lavoro avesse osservato quanto ivi tassativamente previsto, in quanto era stabilito che gli impianti e le apparecchiature di controllo «che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori»  potevano essere installati previo accordo con le Rappresentanze Sindacali presenti in Azienda o, in caso di mancato accordo, previa autorizzazione della DTL territorialmente competente.

La Corte di Cassazione ha recentemente confermato che le garanzie poste in materia di divieto di controlli a distanza dal secondo comma dell’articolo 4 dello Statuto si applicano ai controlli difensivi, volti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori «quando, però, tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso», stabilendo che sono legittimi quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore e lesivi del patrimonio aziendale.

Lo scopo della norma  è quello di adeguare, da un lato, l’esigenza afferente all’organizzazione del lavoro e della produzione posta in essere dal datore e, dall’altro, il diritto del prestatore a non vedere sottoposto ad un controllato a distanza lo svolgimento delle sue attività nel luogo di lavoro, «individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti partecipi»).

Per quanto riguarda l’installazione e l’utilizzo degli strumenti di cui al primo comma, è stata confermata una procedura di co gestione fra datore di lavoro e Rappresentanze Sindacali (RSU o RSA) – che trova luogo tramite un Accordo con le rappresentanze sindacali presenti nelle diverse unità produttive dell’azienda ai fini  dell’installazione e dell’utilizzo dell’impianto di controllo – preliminare rispetto all’installazione degli strumenti, il cui esito negativo porta il datore a richiedere l’autorizzazione amministrativa della DTL competente.
L’installazione e l’impiego di tali strumenti necessitano della esclusiva sussistenza di esigenze organizzative e produttive, di sicurezza  del  lavoro di tutela del patrimonio aziendale, costituendo, queste, i presupposti per la stipula preventiva dell’Accordo sindacale o dell’autorizzazione della DTL.

Inoltre, tutte le informazioni raccolte con i mezzi di controllo devono essere utilizzati nel rispetto della disciplina sulla privacy. Gli accordi sindacali con Rsu e Rsa restano invece indispensabili per gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, che «possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale». In alternativa, se l'impresa ha più unità produttive in diverse province o regioni, l'accordo si fa con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.

In assenza dell'accordo serve l'autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, nel secondo caso, del ministero del Lavoro.

Questa disposizione, come prosegue la nuova norma, tuttavia, «non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze». E i dati raccolti possono essere utilizzati «a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli» sempre «nel rispetto del Codice sulla privacy.

sabato 27 febbraio 2016

Come diventare consulente del lavoro


Come diventare consulente del lavoro: vediamo i requisiti per aspiranti professionisti, al praticantato, alla formazione obbligatoria e allo svolgimento delle attività per le aziende.

Quella del consulente del lavoro è senz’altro una professione attraente. Il suo compito è quello di aiutare le aziende nell’amministrazione delle risorse umane da libero professionista. Una risorsa esterna fondamentale per amministrare le risorse umane a norma di legge.

Il consulente del lavoro è un libero professionista con una conoscenza giuridica - economica che ha competenze specifiche collegate all’amministrazione del personale.

Nello specifico il suo ambito professionale comprende:

amministrazione del personale (subordinato, autonomo e parasubordinato);

calcolo e asseverazione del costo del lavoro, determinazione e calcolo dell’accantonamento del trattamento di fine rapporto;

ammortizzatori sociali (consulenza ed assistenza);

risoluzione rapporti (mobilità, licenziamenti collettivi, ecc.);

dichiarazione e denunce previdenziali, assistenziali, assicurative e fiscali;

contenzioso del lavoro, amministrativo, previdenziale, assicurativo, sindacale, giudiziale e stragiudiziale;

contenzioso fiscale, operazioni societarie, dichiarazioni e prestazioni amministrative, contabili, fiscali-tributarie e formazione del bilancio;

contrattualistica (contratti, certificazione, conciliazioni, arbitrati);

consulenze tecniche di parte (controversie di lavoro, previdenziali, assicurative, di assistenza sociale, fiscali e in atti aventi natura negoziale).

Il consulente del lavoro è una professione dalle crescenti opportunità alla luce delle numerose riforme del mercato del lavoro e normativa di riferimento, che generano frequenti dubbi interpretativi. Come libero professionista, aiuta le aziende soprattutto a gestire a norma di legge: risorse umane; contabilità; versamento dei tributi; previdenza; contatti con INPS, INAIL, Agenzia delle Entrate e così via. Per questo, le sue competenze e formazione devono spaziare tra varie discipline (amministrazione, contabilità, diritto, assicurazione, previdenza, etc.).

L’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha un regolamento per ciò che riguarda il tirocinio obbligatorio per l’accesso alla professione e per chi volesse un vero e proprio vademecum al praticantato per diventare consulente del lavoro, ancora una volta viene in nostro aiuto l’Ordine con una guida sull’argomento dove si trovano tutte le informazioni utili sull’argomento.

Al termine del praticantato è previsto un esame di abilitazione, che si tiene in apposite sessioni annuali e che consiste in una doppia prova scritta (un tema di diritto del lavoro e legislazione sociale ed una prova teorico-pratica di diritto tributario) e poi, se superata, in una prova orale presso la Direzione Regionale del Lavoro sulle seguenti materie: diritto del lavoro; legislazione sociale; diritto tributario; elementi di diritto privato, pubblico e penale; nozioni generali sulla ragioneria, con particolare riguardo alla rilevazione del costo del lavoro ed alla formazione del bilancio.

A fronte della riforma delle professioni, che ha modificato le regole sul praticantato(tirocinio professionale del CdL), il Consiglio Nazionale (con la Fondazione Studi) ha redatto una guida per diventare consulenti, articolata in tre sezioni:

adempimenti e obblighi del praticante;

il professionista che lo accoglie;

il Consiglio provinciale che regola, con ampia autonomia, tutta l’attuazione del percorso formativo.

Vengono inoltre richiamati, oltre alla normativa e prassi del CNO, i requisiti all’iscrizione al registro, gli adempimenti formali per la formazione, il ruolo del tutor, le regole per il rimborso spese, le verifiche del CPO e l’attribuzione del certificato di compiuta pratica. Sul sito del Consiglio Nazionale è inoltre possibile consultare le FAQ sull’argomento.

Come requisito primario viene richiesta la laurea almeno triennale in giurisprudenza, economia o scienze politiche. Obbligatorio per accedere alla Professione di Consulente del Lavoro, vi è poi un periodo di praticantato, ossia tirocinio non superiore ai 18 mesi (art. 9 comma 6 del DL 24/01/2012 e successive modificazioni) presso lo studio di un consulente o di uno dei professionisti indicati dall’art. 1 della legge 12/1979. Periodo propedeutico all’esame di abilitazione alla professione, anch’esso obbligatorio per l’iscrizione all’Albo.

L’Esame di Stato avviene in apposite sessioni annuali e consistente in due prove scritte al superamento delle quale fa seguito una prova orale presso la Direzione Regionale del Lavoro. Per superare l’esame è consigliabile sfruttare al meglio il periodo del praticantato per consolidare le conoscenze e le competenze.

Una volta abilitati come consulenti del lavoro, secondo quanto disposto dal regolamento dell’Ordine, la formazione continua è obbligatoria fino al raggiungimento della soglia minima di 50 crediti formativi ogni due anni. L’obiettivo è fare in modo che i consulenti rimangano al passo con le evoluzioni del Diritto del Lavoro.

Il regolamento dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro prevede la formazione continua obbligatoria. Il lavoro del consulente, infatti, richiede un costante aggiornamento professionale per rimanere al passo con le evoluzioni del Diritto del Lavoro. Per questo, ai consulenti è richiesto il raggiungimento della soglia minima di 50 crediti formativi ogni due anni.

Per i neo-consulenti l’obbligo decorre dal mese successivo a quello d’iscrizione all’albo e il numero di crediti viene ridotto in base alla porzione residua dell’anno.

I crediti possono essere acquisiti tramite la partecipazione a eventi formativi e corsi accreditati.

mercoledì 24 febbraio 2016

Aprire una Srl semplificata a 1 Euro: regole, requisiti e costi


La Srl Semplificata che permette di avviare una startup con soltanto 1 euro di capitale e altri 168 euro per l’imposta di registro. Infatti, da agosto 2013 non esistono più le S.r.l. a capitale ridotto. Ora anche le S.r.l. normali si possono costituire con capitale sociale minimo di 1 Euro, invece che Euro 10 mila come in passato. E sono esenti da spese notarili e diritti di bollo.

La SRL semplificata è a tutti gli effetti è una soggetto giuridico al pari di una SRL che per la sua costituzione ci vorrà un capitale minimo da sottoscrivere simbolico e pari ad un euro e al rispetto di alcuni requisiti e comunque con capitale inferiore ai 9.999 euro che dovrà essere interamente sottoscritto e versato. Il capitale sociale dovrà essere formato solo di denaro non potendo prevedere anche conferimento in natura, d’opera o immobili o altro bene o servizio diverso.

Per accedere al regime semplificato e agevolato delle SRL semplificata veniva stabilito che potevano aprire una srl solo le persone fisiche che alla data della costituzione hanno meno di 35 anni di età. Tuttavia fortunatamente è stata superata questa previsione e quindi l’obbligo ed il limite di età non esiste più.

Non sarà possibile ovviamente avere soci all'interno che abbiano oltre 35 anni e sarà possibile associarsi con altre persone sempre che rispettino i requisiti anagrafici per aprire questo nuovo tipo di società. Per coloro che hanno oltre 35 anni di età si parla di società a responsabilità limitata a capitale ridotto o anche SRLcr.

Per l’apertura della SRL ordinaria in cui si doveva stimare le cosiddette spese di impianto ed ampliamento ossia i costi di costituzione legate alle talvolta salate parcelle del notaio che potevano andare dai 1500 a 3000, o 40000 euro per una srl con capitale sociale minimo qui assistiamo all’abolizione delle previsione dell’atto pubblico per la sua costituzione eliminando così oltre alla richiesta di finanziamento iniziale del capitale anche la fattura del notaio. Questo vale anche per le successive modificazioni dello statuto che non necessiteranno più dell’atto pubblico dal notaio essendo sufficiente la comunicazione per tutte le fattispecie di una semplice (da cui il nome della nuova SRL) comunicazione telematica al registro delle imprese mediante la procedura della SCIA o le altre procedure messe a disposizione dal legislatore fiscale e dall'amministrazione finanziaria.

L’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e contenere i dati anagrafici e requisiti della società, la denominazione sociale contiene l’indicazione di società a responsabilità limitata. Il capitale sociale è compreso fra uno e 9.999 euro, è sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve essere in denaro e versato all'organo amministrativo. Vanno indicati gli amministratori (che, rispetto alla regola originaria, non devono più essere soci).

Adempimenti e costi
Non si paga. Per l’atto costitutivo, il notaio controlla i requisiti senza chiedere onorari ed entro 20 giorni deposita l’atto presso l’Ufficio del Registro Imprese tramite software ComUnica, senza spese per i diritti di segreteria e bollo.

Si paga. I costi dovuti sono il diritto annuale alla Camera di Commercio, l’imposta di registro, la denuncia inizio attività.

Un discorso a parte meritano i costi relativa alla tassa di concessione governativa di € 309,87 per i libri sociali. Per le Srls, infatti, c’è l’obbligo di contabilità ordinaria, nonché di deposito del bilancio di esercizio presso il registro imprese e di tenuta dei libri sociali.

E’ possibile modificare lo statuto per passare da Srl semplificata a ordinaria ma serve che l’atto costitutivo (o Statuto) risultante dalle modificazioni sia conforme alla disciplina del modello di destinazione e che siano rispettati i requisiti soggettivi dei soci. Per quanto riguarda in particolare il passaggio da Srl semplificata alla forma di Srl ordinaria, è necessario il contestuale aumento del capitale sociale ad almeno 10mila euro, con modalità analoghe a quanto avviene in caso di trasformazione di una srl (con capitale inferiore a euro 120.000) in SpA, senza che risulti necessario accertare il valore del patrimonio sociale mediante una relazione di stima. Quindi, non è necessaria la perizia di stima del patrimonio sociale che, invece, è per esempio richiesta nel caso di trasformazione di una società di persone in Srl. Questo perché in sostanza si rimane all’interno della disciplina della stessa tipologia societaria, la Srl.

Passaggio da Srl ordinaria
Infine nel caso opposto, di passaggio da Srl ordinaria a Srls, è necessario ridurre il capitale sociale sotto i 10mila euro. Ne consegue che il passaggio può essere deliberato:

con efficacia immediata (salva l’iscrizione nel registro delle imprese) in caso di riduzione del capitale sociale per perdite, anche ai sensi dell’art. 2482-ter del codice civile;

con efficacia subordinata al decorso del termine di 90 giorni nel caso in cui la riduzione del capitale sociale avvenga in base all‘art 2482 del codice civile (rimborso ai soci).

Oltre alla stipula dell’atto costitutiva e all'apertura della partita Iva dovrete effettuare anche l’iscrizione nel Registro delle imprese che nei casi di una SRL ordinaria saranno soggetti al pagamento di imposte di bollo e diritti di segreterie mentre in questi casi saranno esenti e non so se l’ho scritto prima ma anche gli onorari del Notaio dovranno essere pari a zero se non limitatamente al versamento dell’imposta di registro.

Denominazione sociale della SRLs
Essendo attenuato per così dire il regime di garanzia nei confronti dei terzi, al pari di quanto visto per le società in liquidazione, la denominazione sociale e la corrispondenza dovrà contenere la dicitura società a responsabilità limitata semplificata o SRLs.

Inoltre non saranno dovuti neanche bolli o tasse o registro iniziali che nell’atto pubblico erano richieste e anche talvolta care per le tasche di giovani in cerca di fortuna e con delle buone idee ma i portafogli vuoti. Altri requisiti di minore rilevanza sono che i soci devono prevedere nello statuto societario il diritto di recesso esercitabile in 15 giorni da parte di ciascun socio.




martedì 23 febbraio 2016

Pensioni cosa cambia dal 2016



Aumentano dal 2016 i requisiti per andare in pensione, in attuazione dell’adeguamento alle speranze di vita, con quattro mesi in più di età e un adeguamento di 0,3 punti per chi ancora si ritira con il sistema delle quote: la circolare INPS 63 del 20 marzo 2015 spiega nel dettaglio tutti i requisiti per le pensioni delle varie categorie di lavoratori (uomini o donne, dipendenti o autonomi). Vediamo con precisione come si alza dal primo gennaio 2016 l’età pensionabile per le pensioni di vecchiaia, di anzianità, e per la pensione anticipata.

Quattro mesi in più per una «aspettativa di vita» che si va naturalmente allungando. E che fa salire di quattro mesi, appunto, il tempo per andare in pensione: non più i 66 anni e tre mesi di età fissati fino al 2015, ma 66 anni e sette mesi che saranno invece necessari dal primo gennaio prossimo per lasciare il lavoro. Prolungamento imposto più che consigliato dalla crescita della cosiddetta «aspettativa media di vita», che è diventata parametro fondamentale del sistema previdenziale Inps. Attenzione, i quattro mesi in più si sommano sia al minimo di età richiesto per l'assegno di vecchiaia che al minimo di anni di contributi per la pensione anticipata.

Comunque il risultato finale, come spiega una circolare dell'Inps, è che tra il 2016 e il 2018 gli uomini andranno in pensione di vecchiaia a 66 anni e sette mesi (minimo venti anni di contributi). Le donne del settore privato dovranno avere 65 anni e sette mesi (66 anni e sette mesi nel 2018), mentre le lavoratrici autonome dovranno aver raggiunto un'età di 66 anni e un mese (66 anni e sette mesi nel 2018). Per le dipendenti pubbliche l'assegno di vecchiaia è fissato con i tempi degli uomini: 66 anni e sette mesi. Cresce sempre di fatidici quattro mesi anche il massimo di età in base al quale il lavoratore dipendente può chiedere di restare sul posto di lavoro: a partire dal 2016 sarà di 70 anni e sette mesi. Serviranno ancora quattro mesi in più per acquisire la pensione di vecchiaia prevista per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995, cioè con l'avvio del sistema contributivo. Si va da 63 anni e tre mesi a 63 anni e sette mesi. Comunque e sempre in presenza di almeno 20 anni di contributi già versati.

Un sistema che fissa anche altri principi. Per esempio, quello riguardante le regole della pensione anticipata. Per lasciare il lavoro, rispetto all'assegno di vecchiaia, gli uomini devono avere attualmente almeno 42 anni e sei mesi di contributi mentre per le donne sono sufficienti 41 anni e sei mesi. Regole che resteranno sino alla fine di quest'anno. Poi, dall'anno prossimo, il requisito sarà innalzato a 42 anni e dieci mesi per gli uomini e 41 anni e dieci mesi per le donne. Cioè queste ultime potranno contare su uno sconto di un anno.La riforma Fornero oltre a fissare una serie di penalizzazioni rispetto alla pensione anticipata, è alla base delle tabelle elaborate dalla Ragioneria generale dello Stato che fotografano il progressivo status del sistema fino al 2050 tenendo conto naturalmente dell'ormai imprescindibile parametro della «speranza di vita». In base a queste stime l'età per la pensione di vecchiaia salirà progressivamente fino a 70 anni nel 2050, quando gli anni di contributi necessari per raggiungere la pensione anticipata saranno arrivati a quota 46 e tre mesi. Intanto ieri il presidente dell'Inps Tito Boeri ha annunciato entro giugno una proposta di riforma per introdurre più flessibilità nell'età.

Ciò significa che dal 1° gennaio 2016 verranno rivisti i requisiti per il conseguimento della pensione di anzianità, quello per la maturazione della pensione di vecchiaia (ovvero 65 anni per gli uomini e per le donne del pubblico impiego e 60 anni per le donne del privato), il requisito anagrafico dei 65 anni per la pensione con il sistema contributivo e il requisito dei 40 anni di contributi ai fini della maturazione del diritto all'accesso al pensionamento indipendentemente dall'età anagrafica.

In pratica età e anzianità contributiva sono aggiornate in funzione dell’incremento della speranza di vita – 65 anni – in rifermento alla media della popolazione residente in Italia, accertata dall’Istat in relazione al triennio di riferimento. L’emendamento prevede che, nella prima applicazione, l’aggiornamento non può essere in ogni caso superiore a tre mesi e che lo stesso non viene effettuato nel caso di diminuzione della speranza di vita.


domenica 21 febbraio 2016

Tfr: istruzioni per chi cambia lavoro


Per chi cambia lavoro, la Covip (Commissione di vigilanza dei fondi pensione) ha definito le procedure che il datore e il lavoratore devono attivare in merito alla destinazione del TFR. Ecco come gestire il TFR in caso di dimissioni volontarie del lavoratore che cambia azienda: i doveri del nuovo datore di lavoro e del dipendente.

In caso di assunzione di un dipendente proveniente da un’altra azienda, nella quale era impiegato con contratto a tempo indeterminato, uno degli aspetti da gestire è il Trattamento di Fine Rapporto. A definire le procedure di destinazione dell’accantonamento del TFR alle quali sono chiamati il vecchio e il nuovo datore di lavoro, nonché il dipendente interessato, è la COVIP (Commissione di vigilanza dei fondi pensione).

Il nuovo datore di lavoro dovrà richiedere al nuovo assunto una dichiarazione che attesti la scelta effettuata in tema di TFR nei precedenti rapporti lavorativi:
se ha destinato il TFR ad una forma di previdenza complementare;
se è stato lasciato in azienda.

Il vecchio datore dovrà invece fornire una dichiarazione che confermi la scelta effettuata dal dipendente, da allegare alla dichiarazione fornita dal lavoratore stesso. Qualora non fosse possibile ottenere tale dichiarazione, il lavoratore potrà documentare la scelta effettuata presentando la copia del modulo sottoscritto a tempo debito, o del modulo di adesione ad un fondo pensione.

Dovrà comunicare al lavoratore le opzioni disponibili per il TFR;
fornirgli l’apposito modulo se, nei precedenti rapporti, ha destinato il TFR alla previdenza complementare e successivamente ha perso i requisiti per parteciparvi, senza riscattare la propria posizione;

conservare la sua dichiarazione, rilasciandogliene copia controfirmata;

attestarne la scelta al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Il lavoratore:
deve consegnare al nuovo datore di lavoro la dichiarazione relativa alla scelta di destinazione del proprio tfr operata nei precedenti rapporti lavorativi
deve confermare o indicare una scelta, tra le opzioni possibili, per la destinazione del TFR.

Le opzioni possibili
Ecco le opzioni per la destinazione del tfr, tra le quali possono orientarsi i lavoratori che iniziano un nuovo rapporto di lavoro.

Chi nei precedenti rapporti di lavoro aveva mantenuto il tfr in azienda, può confermare questa scelta oppure, all’assunzione o in qualsiasi altro momento, decidere di destinare il tfr ad un fondo pensione.

Chi nei precedenti rapporti di lavoro aveva destinato il tfr ad un fondo pensione e, cessato quel rapporto di lavoro, ha riscattato interamente la posizione individuale, deve attestare di aver completato questa procedura. Inoltre, entro 6 mesi dall’assunzione, deve di nuovo scegliere la destinazione per il proprio tfr. Nel caso in cui non faccia la sua scelta entro questo termine, dal mese successivo il tfr sarà destinato integralmente al fondo pensione negoziale o, in mancanza di esso, all’apposito fondo istituito presso l’Inps (FondInps), mentre la parte maturata nei primi 6 mesi di lavoro resterà in azienda.

Per il lavoratore che ha destinato l’intero tfr ad un fondo pensione e non ha poi riscattato la posizione individuale al termine dell’impiego, ci sono due opzioni. E’ possibile che la scelta fatta in precedenza resti valida anche per il nuovo datore. Se invece il nuovo rapporto di lavoro fa perdere i requisiti di iscrizione al fondo pensione, entro 6 mesi il lavoratore dovrà obbligatoriamente indicare la sua scelta.

Gli effetti di questa decisione saranno validi a partire dalla data di assunzione. Nel caso in cui non faccia la sua scelta entro questo termine, il tfr che matura a partire dalla data dell'assunzione verrà destinato integralmente al fondo pensione negoziale o, in mancanza di esso, al fondo istituito presso l’Inps (FondInps).

Chi aveva destinato una parte del tfr ad un fondo pensione e non lo ha riscattato al momento della cessazione del rapporto di lavoro, può mantenere questa opzione, nella stessa misura, se il contratto nazionale di lavoro applicato è lo stesso o se quello nuovo lo consente. La parte rimanente del tfr resta in azienda. Il lavoratore può anche scegliere di destinare integralmente il tfr al fondo prescelto. In ogni caso, entro 6 mesi dovrà indicare la forma pensionistica scelta, con effetto dalla data dell'assunzione. Se non lo fa entro questo termine, il tfr – dalla data di assunzione – andrà integralmente al fondo pensione negoziale o, in mancanza di esso, al fondo istituito presso l’Inps (FondInps).

Offerte di lavoro per informatici: requisiti, figure ricercate e istruzioni per candidarsi


Ci sono nuove opportunità di lavoro per informatici, ecco le posizioni aperte, quali sono i requisiti e le modalità per candidarsi.

L’Agenzia per il Lavoro Articolo1 ha aperto le selezioni per la ricerca di 60 risorse in vista di nuove assunzioni a Roma e a Milano per conto di aziende importanti nel mondo dell’Information Technology.

La ricerca non ha un ambito ben delineato, ma diverse sono le figure ricercate sia tra laureati che giovani senza esperienza a seconda delle posizioni aperte.

I profili che attualmente sono stati segnalati ai fini della ricerca e dell’assunzione nell’Information Technology sono i seguenti:
Project Manager;
Sistemisti Applicativi;
Sviluppatori Web;
System Engineer;
Programmatori Java;
Business Analyst;
ICT Consultant esperti SAP.

I candidati che, in possesso dei requisiti di seguito riportati, supereranno le selezioni, verranno assunti direttamente dall’azienda.

I requisiti cambiano in base alla posizione per cui si presenta la propria candidatura, ma quelli di ordine generale sono in linea di massima i seguenti:
laurea in Ingegneria informatica o corso di laurea breve in Informatica;
conoscenza della lingua inglese;
esperienza pregressa nel ruolo di oltre 3 anni, certificata.
Come abbiamo detto in precedenza, per alcune posizioni non è necessario il requisito della laurea, è questo il caso del profilo da Sviluppatore Web.

Per la figura Business Analyst, invece, è sufficiente l’esperienza di un anno.

Per inviare la propria candidatura è necessario inviare il proprio Curriculum Vitae all’indirizzo roma-centro@articolo1.it o micentro@articolo1.it, ovviamente qualora le posizioni aperte risultano rispondenti alle proprie caratteristiche

L’Agenzia per il Lavoro Articolo1 è una società italiana specializzata nel settore delle Risorse Umane ed autorizzata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Nel settore IT, le figure maggiormente richieste dal mercato del lavoro sono professionisti Sap, sviluppatori di applicazioni web, amministratori di sistema e software engineer. Le figure professionali del settore IT sono profili particolarmente elastici che vengono richiesti in modo trasversale da tutti i comparti e da aziende di diverse dimensioni (dalle piccole imprese, alle grandi multinazionali). Le richieste di queste figure sono aumentate in modo rilevante nel settore bancario e in quello assicurativo. L’Information Technology rappresenta un’ottima opportunità per coloro che avendo una formazione specializzata si introducono nel mondo del lavoro. Dal punto di vista delle aziende, l’informatizzazione raffigura un valore competitivo che permette di tagliare i costi e aumentare l’efficienza.

giovedì 18 febbraio 2016

Indennità di disoccupazione: NASpI e risoluzione consensuale


Vediamo i chiarimenti del Ministero del lavoro sull'indennità NASPI a seguito di risoluzione consensuale in aziende al disotto dei 15 dipendenti (d.lgs.22/2015)

La Direzione Generale Ammortizzatori Sociali ha rilasciato questo parere a seguito di una richiesta di chiarimenti sulla possibilità di vedersi riconoscere l’indennità di disoccupazione NASpI per il lavoratore che si trovi in stato di disoccupazione a seguito di richiesta congiunta, con il datore di lavoro, ed ha chiarito che la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell’ambito del tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410 c.p.c.

Questa conclusione è dovuta a quanto disposto dall’articolo 3, comma 2, del D. Lgs n. 22/2015 che stabilisce letteralmente che la NASpI è riconosciuta oltre che nei casi di licenziamento anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 604/1966 come modificato dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92/2012 (Legge Fornero).

Quindi viene chiarito che la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell'ambito del tentativo di conciliazione di cui all'articolo 410 cpc. Ciò in base all'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 22/2015, che stabilisce che la NASpI è riconosciuta oltre che nei casi di licenziamento anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale intervenuta nell'ambito della procedura conciliativa «preventiva» prevista dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, disciplina che si applica (art. 18 della legge n. 300/1970) ai datori di lavoro con almeno 15 dipendenti.

Quindi la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell'ambito del tentativo di conciliazione.

Il principio del decreto legislativo 22/2015 nel ridisegnare il perimetro di tutela nei casi di perdita involontaria del posto di lavoro ha del resto inteso tutelare, con la concessione dell'ammortizzatore sociale di disoccupazione, i soli lavoratori che abbiano perduto involontariamente l’occupazione, con ciò ribadendo un principio storicamente presente da sempre nella disciplina legislativa dell'indennità di disoccupazione. La perdita involontaria del rapporto di lavoro, in altri termini, non può essere riconosciuta nei casi in cui la risoluzione del rapporto, seppur sorta per decisione unilaterale del datore di lavoro, venga ricomposta consensualmente in esito alla procedura di conciliazione per le controversie di lavoro prevista dal codice di rito.

Bonus assunzione per il 2016: disoccupati, pensionati e collaboratori


La legge di Stabilità 2016 ha prorogato gli sgravi contributivi in favore dei datori di lavoro che effettuano nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato dal 1° gennaio al 31 dicembre 2016.

L’agevolazione si estende anche ai rapporti a tempo indeterminato instaurati con scopo di somministrazione. Non può, invece, rientrare fra le tipologie incentivate il contratto di lavoro intermittente o a chiamata.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito tutti i casi in cui spetta il bonus assunzione ovvero alle aziende che impiegano disoccupati, anche se pensionati e collaboratori trasformati in lavoratori subordinati, ad affermarlo è il Ministero.

Lo scopo del bonus è quello di gratificare le imprese che assumono con contratto a tempo determinato permettendo ai datori di lavoro di fruire di uno sgravio contributivo.

Visto che il fine del bonus è quello di creare lavoro per i disoccupati dalle assunzioni con il bonus non si escludono nè i pensionati nè i collaboratori le cui collaborazioni vengano trasformate in lavoro subordinato. La platea dei beneficiari viene infatti ampliata sulla base della finalità della normativa: incentivare il ricorso alle assunzioni a tempo indeterminato. Per questo motivo il Ministero conferma l’interpretazione per la quale sono esclusi dal bonus assunzioni solo quei soggetti esplicitamente tagliati fuori dalla legge.

Il bonus assunzioni prevede uno sgravio contributivo del 40% per gli assunti del 2016 per tutti i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato privi di un’occupazione stabile.

L’agevolazione spetta per tutti coloro che nei 6 mesi precedenti sono risultati privi di un’occupazione stabile (ovvero di un contratto a tempo indeterminato). I pensionati, che pur percependo un assegno pensionistico che garantisca loro una certa stabilità economica, non possono essere assimilati al lavoro a tempo indeterminato e proprio su questa casistica il Ministero si è espresso rispondendo all’interpello n 4 del 2016 affermando che “Si ritiene pertanto che, in assenza di una preclusione espressa da parte del Legislatore, l’ipotesi di assunzione a tempo indeterminato di lavoratori già percettori di trattamento pensionistico possa rientrare nel campo di applicazione della disposizione di cui all’art. 1, comma 118, L. n. 190/2014.”

Ricordiamo che il bonus assunzioni prevede uno sgravio sui contributi INPS relativi ai nuovi contratti a tempo indeterminato esonero 2016: 3.250 euro fino a 24 mesi. L’agevolazione spetta in caso di assunzione a tempo indeterminato di lavoratori privi di occupazione stabile (disoccupati), sia da parte di aziende che di altri enti o liberi professionisti, a patto che l’azienda sia in possesso del DURC regolare, non siano state commesse violazioni delle norme essenziali di lavoro e siano state rispettate quelle previste dai contratti collettivi.

L’agevolazione spetta per tutte le assunzioni di lavoratori che, nei 6 mesi precedenti, percepivano redditi non configurabili come occupazione stabile, intesa come rapporto a tempo indeterminato. In tale casistica non rientrano i pensionati che, pur avendo un assegno che garantisce loro una certa stabilità di reddito, non possono essere assimilati al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Su questo punto il Ministero si è espresso nella riposta ad uno specifico interpello (Mlps. Int. n. 4/2016).

Il bonus spetta anche in caso di trasformazione del precedente rapporto in un contratto a tempo indeterminato.

I lavoratori per i quali non spetta il bonus assunzione sono quelli che, nei 6 mesi precedenti:
abbiano stipulato un contratto di apprendistato, in quanto configura comunque un contratto a tempo indeterminato, nonostante la possibilità di disdetta finale;
abbiano avuto un rapporto a tempo indeterminato, ma non abbiano superato il periodo di prova.

Sono esclusi dal bonus assunzione, infine, anche i lavoratori che, pur essendo non occupati nei 6 mesi precedenti, abbiano già fruito del bonus, anche in un’altra azienda.

mercoledì 17 febbraio 2016

Pensioni, ecco quando gli ex hanno diritto alla pensione di reversibilità


Critiche trasversali al giro di vite sulle pensioni di reversibilità, inserito nel Disegno di Legge di contrasto alla povertà approdato alla Camera, mentre il Governo difende la norma chiarendo che l’intenzione è di evitare sprechi. Il provvedimento, approvato dal Consiglio dei Ministri del 28 gennaio, modifica il metodo di calcolo per le pensioni ai superstiti, legandole al reddito più che al numero di parenti aventi diritto.

Nel caso in cui il titolare di una pensione di reversibilità sia anche in possesso di altri redditi, vengono applicate delle riduzioni all’importo spettante, ma questo solo se si superano determinate soglie. Per il 2016 il limite di reddito annuo entro il quale la pensione al coniuge superstite non viene ridotta è pari a 19.573,71 euro.

Nel caso di decesso di un lavoratore pensionato, al coniuge spetta la c.d. pensione di reversibilità, ovverosia una prestazione economica calcolata sulla pensione del defunto in una percentuale variabile a seconda che il coniuge superstite ne goda da solo oppure con uno o più figli (qualora questi ultimi siano in possesso dei requisiti a tal fine necessari) e a seconda che goda o meno di altri redditi e, eventualmente, in quale ammontare.

Ricordiamo che se all'atto del divorzio il coniuge superstite aveva ottenuto dal giudice il diritto a ricevere una somma di denaro periodica a titolo di assegno divorzile, egli, in caso di decesso dell'ex coniuge, avrà diritto anche alla pensione di reversibilità. In ogni caso sono necessari due ulteriori, direi ovvi, requisiti, ovverosia che il rapporto di lavoro per il quale il defunto aveva maturato il diritto al trattamento pensionistico sia stato avviato antecedentemente alla sentenza divorzile e che il coniuge superstite non si sia risposato.

Quindi il rapporto di lavoro dev'essere antecedente al divorzio. Il divorziato – che non si sia risposato e percepisca un assegno divorzile periodico (non liquidato, dunque, in unica soluzione) – può ancora reclamare, in caso di decesso dell'ex, la pensione di reversibilità da questi maturata. Sempre che, sia chiaro, il rapporto di lavoro da cui derivi il trattamento pensionistico, sia anteriore alla sentenza divorzile. A prevederlo è l'articolo 9 della legge sul divorzio (la 898/1070) nella quale si fa riferimento ai tre requisiti – percezione di assegno divorzile, stato civile libero e rapporto di lavoro del defunto anteriore alla sentenza di divorzio - necessari affinché possa accertarsi il diritto dell'ex a godere del trattamento di reversibilità. Ma il diritto in questione, ha sottolineato la Corte di Cassazione, presuppone la titolarità, in capo al divorziato, di un assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto «non essendo sufficiente che egli versi nelle condizioni per ottenerlo, e neppure che in via di fatto, o per effetto di private convenzioni intercorse fra le parti, abbia ricevuto regolari elargizioni economiche dall'ex coniuge».

Secondo la norma, nella ripartizione delle quote, occorrerà tener conto della durata del vincolo matrimoniale. Criterio cardine, dunque, ma non esclusivo. È la Corte costituzionale con la sentenza 419/1999 ad averlo rimarcato. La Consulta, infatti – chiamata a decidere sulla questione di legittimità dell'articolo 9 della legge sul divorzio – ha chiarito come la disposizione, pur imponendo al giudice il vaglio del dato temporale inerente la durata dei vincoli coniugali, la cui valutazione non può mancare, non prevede che la ripartizione del trattamento di reversibilità tra gli aventi diritto sia effettuata unicamente sulla base di tale criterio, dovendosi vagliare anche altri fattori, quali le condizioni personali, economiche e reddituali delle parti o l'ammontare dell'assegno divorzile. Così – ha puntualizzato la sentenza 5136/2014 della Cassazione – ferma la discrezionalità del giudice, se questi si discosta dal parametro base, per dare priorità ad altre circostanze, deve «rendere una motivazione esaustiva e logica delle ragioni che lo hanno portato a tale decisione». Ciò, soprattutto quando il criterio della durata del matrimonio viene ad assumere, come nel caso allora deciso, un rilievo «del tutto marginale».

A incidere sul calcolo della reversibilità tra “ex” vedovo e coniuge superstite, pesano poi anche la data di separazione, l'eventuale presenza di figli, o l'assistenza fino alla morte prestata al defunto (sentenza Cassazione 6019/2014). Indici che, ben lo dimostra la giurisprudenza, potranno perfino prevalere su quello della lunghezza dei vincoli matrimoniali.

A pesare sulle decisioni giuridiche sarà anche la convivenza prematrimoniale del coniuge superstite con il defunto. Lo ha precisato il Tribunale di Roma, con la recente sentenza 58/2015, la ripartizione del trattamento di reversibilità tra superstite e vedovo, non può ridursi al mero computo matematico operato alla luce della durata dei due matrimoni, dovendosi considerare, tra gli altri correttivi, anche l'effettiva «comunione di vita» tra il defunto ed il secondo consorte, stante l'ormai indiscussa equiparazione tra convivenza more uxorio e famiglia legittima. Detto ciò si afferma, a evitare che «il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio» e che «il secondo sia privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il l’ex coniuge gli aveva assicurato in vita». Se la convivenza prematrimoniale conserva una sua rilevanza nel computo delle quote da attribuire a coniuge divorziato e superstite, l'unione di fatto che non sia stata “regolarizzata” da un successivo matrimonio non fa scattare alcun diritto del convivente a fruire della pensione maturata dal defunto.

Ma la tutela in questione è solo una delle forme di assistenza previste a favore del divorziato, quali l'assegno divorzile, quello successorio e parte del trattamento di fine rapporto.

martedì 16 febbraio 2016

Pensione di reversibilità 2016 che accadrà?



Ricordammo che in caso di morte di un pensionato viene erogata ai familiari di quest'ultimo (e su loro richiesta) una prestazione economica detta pensione di reversibilità (che invece prende il nome di pensione indiretta quando il decesso colpisce un lavoratore non pensionato).

L'importo della pensione di reversibilità viene stabilito in una percentuale della pensione a suo tempo goduta dal defunto.

L’avvertimento che è stato lanciato da Ivan Pedretti, segretario generale dello Spi-Cgil: in Commissione Lavoro alla Camera è arrivato un disegno di legge delega che contiene un punto gravissimo. In pratica, la pensione di reversibilità verrà considerata una prestazione assistenziale e non previdenziale, il governo prevede un intervento sulle pensioni di reversibilità. Sono le prestazioni di cui godono il coniuge o gli eredi alla morte del pensionato o del lavoratore che ha versato i contributi.

Con l’indicatore Isee possibili tagli ai nuovi assegni destinati a coniugi ed eredi in vita.

Leggendo le direttive del governo si capisce che le pensioni di reversibilità diventano «prestazione assistenziale», e che per poterne beneficiare in futuro bisognerà non superare certi parametri economici e si intende ancorare la reversibilità (ma anche assegno sociale, integrazione al minimo, maggiorazione sociale del minimo, assegno per il nucleo con tre figli minori) al reddito calcolato con il meccanismo dell’Isee.

L’Isee, l’“indicatore della situazione economica equivalente”, tiene conto anche di eventuali patrimoni finanziari e immobiliari. In altre parole, la vedova che ha fatto per una vita la casalinga - ma cui il coniuge ha lasciato in eredità qualche immobile e un pacchetto di Btp - rischia di dover dire addio all’assegno. In teoria: tutto deriverebbe da dove verrà posta l’asticella del parametro Isee. A sentire alcuni consulenti del governo, invece, non cambierebbe nulla, perché in questo caso non si considererebbe l’elemento patrimoniale dell’Isee. Vero è che nell'articolato due volte si parla di «razionalizzazione delle prestazioni», termine inquietante. Ed è vero anche che finora la pensione di reversibilità era appunto una misura «previdenziale», dovuta perché costruita con i contributi versati dal lavoratore nel corso degli anni; d’ora in poi sarà «assistenziale», e correlata ai mezzi di cui dispone il beneficiario.

Quindi rispetto al passato (l’assegno di reversibilità da strumento previdenziale diventa assistenziale), il disegno di legge introduce il concetto di “universalismo selettivo” per l’accesso alle prestazione che, dopo l’entrata in vigore delle nuove norme, saranno agganciate ai parametri Isee. Ed è qui che si è scatenata la polemica perché, attualmente, l’entità dell’assegno di reversibilità è legata soprattutto al numero dei superstiti e, in maniera minore, al loro reddito. Se le prestazioni saranno legate alla situazione economica complessiva, è probabile che la platea dei beneficiari delle pensioni di reversibilità possa ridursi. Non solo, collegando la pensione di reversibilità all’Isee, è prevedibile un taglio per tutti i nuovi assegni.

Cosa accadrà? La nuova normativa considera le reversibilità come prestazioni assistenziali e non più previdenziali e quindi lega la possibilità di accedervi o la percentuale dell'assegno all'Isee, l' indicatore della situazione economica equivalente. Il problema è che questo indicatore viene calcolato con riferimento al nucleo familiare del richiedente e non al reddito personale.

I beneficiari di pensioni di reversibilità sono più di 3 milioni (3.052.482) e la spesa totale nel 2015 è stata pari ad oltre 24,1 miliardi di euro (24.152.946.974). Quasi 3,5 milioni (3.469.254), per una spesa di oltre 20 miliardi di euro (20.500.376.967) sempre nel 2015, risultano invece i beneficiari di integrazione al minimo (quando la pensione derivante dai contributi versati è di importo molto basso, al di sotto del minimo 'vitale'). Sono i dati contenuti nell'analisi dell'impatto della regolamentazione che accompagna il ddl delega sulle norme di contrasto alla povertà, sul riordino delle prestazioni e sul sistema degli interventi e dei servizi sociali (collegato alla stabilità). Nel testo si fa riferimento alle "principali prestazioni di natura assistenziale, ovvero di natura previdenziale ma comunque sottoposte alla prova dei mezzi" che sono, oltre la pensione di reversibilità, "assegno sociale, integrazione al minimo, maggiorazione sociale del minimo, assegno per il nucleo con tre o più figli minori".

A fronte di queste decisioni a piangere saranno molte vedove, visto che numeri alla mano la reversibilità tocca soprattutto alle donne. Il provvedimento non è retroattivo, ma per dare un' idea di cosa stiamo parlando basterà ricordare che a oggi godono di questa prestazione 3 milioni 52 mila e 482 italiani.

Con l' Isee non si fa più riferimento al reddito personale ma a quello della famiglia: potrebbe succedere che una vedova con un reddito molto basso rischi di vedersi tagliare o addirittura di perdere il diritto alla pensione del marito solo perché vive ancora con il figlio che vanta una retribuzione minima da lavoro. Non solo. Perché c' è anche il discorso degli immobili. Nel calcolo del nuovo Isee, infatti, ha un peso fondamentale la casa di proprietà. Tanto che il rischio del paradosso non è affatto campato in aria: una vedova che ha un reddito minimo ma un tetto sicuro sotto il quale vivere si veda perdere la pensione.

Sul 2016 sappiamo che la soglia limite fissata per non subire la riduzione della prestazione è di 19.573 euro l' anno, e la speranza, a oggi decisamente meno solida rispetto a ieri, è che questi numeri e paletti resistano anche per gli anni a venire.



Lavoro accessorio per il 2016: precisazioni, limiti e casi particolari



Con lavoro accessorio si è intende quelle prestazioni lavorative non riconducibili alle tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato o del lavoro autonomo, ma caratterizzate da un limite prettamente economico e dal pagamento attraverso dei voucher.

Le prestazioni di lavoro accessorio sono le attività lavorative di natura occasionale che possono essere retribuite con i cosiddetti voucher lavoro per un totale massimo di 7.000 euro (netti per il lavoratore) nel corso di un anno solare (annualmente rivalutati), con riferimento a tutti i datori di lavoro.

Il limite però che si può ricevere da ogni singolo committente, se impresa commerciale o professionista, è di 2mila euro netti. Il limite di compensi per i soggetti percettori di indennità di mobilità o cassa integrazione nel 2016 è pari a 3mila euro.

Ciascun 'buono lavoro' (voucher), che viene emesso telematicamente dall'INPS, ha un valore netto in favore del lavoratore di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione, al costo di 10 euro per il datore di lavoro (salvo che per il settore agricolo, dove si fa riferimento al contratto specifico). Con tali buoni lavoro vengono quindi garantiti :
· il compenso per il lavoratore,
· la copertura previdenziale INPS (pensione) e
· quella assicurativa presso l'INAIL.

Con un messaggio l'Inps è intervenuto con importanti precisazioni in materia di lavoro accessorio    specificando in particolare alcune categorie di soggetti committenti che non rientrano nella definizione di imprenditori commerciali. Per questi soggetti non vale il limite di 2000 euro annui con cui possono retribuire   ogni lavoratore   attraverso voucher lavoro.

In particolare il documento recita :" In linea generale, dunque, l'espressione "imprenditori"risulta comprensiva di tutte le categorie disciplinate dall'art. 2082 e segg. del codice civile, dalla cui lettura congiunta è possibile individuare una serie di soggetti che, pur operando con Partita IVA e/o codice fiscale numerico, non sono da considerare imprenditori e, dunque, non sono soggetti alle limitazioni suddette.

A titolo non completo si indicano i seguenti soggetti:
Committenti pubblici (nel rispetto dei vincoli previsti dalla normativa in materia di contenimento della spesa e, ove previsto, dal patto di stabilità interno);
Ambasciate;
Partiti e movimenti politici;
Gruppi parlamentari;
Associazioni sindacali;
Associazioni senza scopo di lucro;
Chiese o associazioni religiose;
Fondazioni che non svolgono attività d'impresa;
Condomini;
Associazioni e società sportive dilettantistiche;
Associazioni di volontariato e i Corpi volontari (Protezione civile, Vigili del Fuoco ecc.)
Comitati provinciali e locali della Croce Rossa, Gialla, Verde e Azzurra, AVIS, ecc..

Si ribadisce cosi che il limite di 2000   euro netti    trova dunque applicazione per ciascun lavoratore che svolge prestazioni   nei riguardi sia di iscritti agli ordini professionali, anche assicurati presso una cassa diversa da quella del settore specifico dell'ordine, sia di titolari di partita IVA, non iscritti alle casse, ed assicurati all'INPS   presso la Gestione Separata.

La specificazione nel testo sul fatto che l'elenco non "esaustivo   evoca la possibilità che   la materia lasci aperti altri dubbi sulla definizione dei soggetti   committenti interessati.

Saranno quanto mai utili chiarimenti generali su vari aspetti di questo particolare istituto, già annunciati da più parti . Va ricordato infatti che il lavoro accessorio non è regolato da uno specifico contratto di lavoro e il suo sempre maggiore utilizzo   porta molte storture   e qualche iniquità.

Sul fronte delle modalità di acquisto dei buoni lavoro, è stato introdotto l’obbligo per i committenti imprenditori o liberi professionisti di acquistare esclusivamente con modalità telematiche “uno o più carnet di buoni orari, numerati progressivamente e datati, per prestazioni di lavoro accessorio il cui valore nominale è fissato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, tenendo conto della media delle retribuzioni rilevate per le diverse attività lavorative e delle risultanze istruttorie del confronto con le parti sociali”.

L’acquisto dei buoni-lavoro (voucher) cartacei può avvenire presentando la propria tessera sanitaria o di codice fiscale o carta di identità elettronica presso i seguenti concessionari:

Uffici Postali del territorio nazionale, esclusivamente per i committenti non imprenditori né liberi professionisti ( ad es. privati) con una commissione di 2,5 euro + IVA per ogni emissione fino a 25 voucher ( ripetibile fino a 5mila euro giornalieri);

per tutti i committenti presso i rivenditori di generi di monopolio autorizzati (tabaccai) con un addebito di 1,70 euro per ogni acquisto fino a un massimo di mille euro per pagamenti in contanti ; fino a 5.000,00€ per pagamenti con carte di credito per singolo Codice Fiscale;

per tutti i committenti presso gli sportelli bancari abilitati con addebito di 1 euro di commissione, con un massimo di 5mila euro giornalieri.

Si precisa che lo svolgimento di prestazioni di lavoro accessorio non dà diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell'INPS (disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.), ma è riconosciuto ai fini del diritto alla pensione.

E' vietato ricorrere al lavoro accessorio per l’esecuzione di appalti di opere o servizi. In un prossimo decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali da emanarsi entro il 25 dicembre 2015, saranno individuate specifiche deroghe.

Per i buoni già richiesti alla data del 25 giugno 2015 si applicheranno fino al 31 dicembre 2015 le previgenti disposizioni che prevedevano un ricorso al lavoro accessorio nel limite dei € 5000 (5060 netti) per la totalità dei committenti e di € 2.000 per ciascun singolo committente.



lunedì 8 febbraio 2016

Rimborsi del 730 vediamo quando scatteranno i controlli preventivi



In vista dell'invio del nuovo 730 precompilato, l'Agenzia delle Entrate sfrutta ogni momento per fornire indicazioni a rendere le attività di gestione delle dichiarazioni sempre più limpide. Infatti, alcuni chiarimenti significativi sono arrivati in riferimento al tema della richiesta dei rimborsi Irpef in busta paga.

Dal 2016 i controlli preventivi dell'Agenzia delle Entrate devono essere ultimati entro quattro mesi dal termine previsto per la trasmissione della dichiarazione (vale a dire il 7 luglio) o dalla data di invio se è stata spedita successivamente. Il rimborso spettante al termine delle operazioni di controllo preventivo sarà erogato direttamente dall'Agenzia delle Entrate non oltre il sesto mese successivo al termine previsto per la trasmissione della dichiarazione o dalla data di invio se è stata spedita successivamente.

L'Agenzia può effettuare controlli preventivi sul 730 presentato direttamente dal contribuente o tramite sostituto d'imposta con modifiche rispetto alla precompilata che incidono sulla determinazione del reddito o dell'imposta e che presentano elementi di incoerenza (rispetto ai criteri che saranno definiti dalle Entrate) o determinano un rimborso oltre i 4mila euro.

I controlli preventivi quindi scattano di fronte ad irregolarità sospette o a rimborsi eccessivi (sopra i 4 mila euro). La procedura può essere automatizzata o far seguito a verifica di documentazione integrativa.

L'Agenzia ha chiarito che gli elementi di discordanti saranno determinati sulla base di alcuni indicatori collegati, ad esempio, alla tipologia e all'entità delle modifiche o integrazioni effettuate dal contribuente o al maggior rimborso determinato rispetto alla dichiarazione proposta.

Il controllo preventivo sui rimborsi di importo superiore a 4mila euro potrà essere effettuato anche a prescindere dalla presenza di detrazioni per familiari a carico. Pertanto non diventa più decisiva la presenza dei familiari a carico per far scattare i controlli e posticipare quindi l'erogazione di un rimborso da 730 oltre i 4mila euro.

A seguito delle modifiche introdotte dall'ultima legge di Stabilità, il blocco del rimborso scatterà «nel caso di presentazione della dichiarazione direttamente ovvero tramite il sostituto d'imposta che presta l'assistenza fiscale, con modifiche rispetto alla dichiarazione precompilata». Per esclusione, il controllo preventivo non dovrebbe avvenire se il credito Irpef deriva da un 730 precompilato accettato senza modifiche. Allo stesso tempo, anche la presentazione del modello 730 a credito tramite un Caf o un abilitato che appone il visto di conformità dovrebbe consentire il rimborso Irpef immediato in busta paga. Una conferma in tal senso arriva anche dalle istruzioni al 730/2016: «I controlli preventivi non vengono effettuati se il modello 730 è stato presentato tramite un Caf o un professionista abilitato, tenuto all'apposizione del visto di conformità, oppure se il 730 precompilato è stato presentato senza modifiche, direttamente dal contribuente o tramite il sostituto d'imposta».

Il blocco del rimborso scatterà “nel caso di presentazione della dichiarazione direttamente ovvero tramite il sostituto d’imposta che presta l’assistenza fiscale, con modifiche rispetto alla dichiarazione precompilata”.

Ne consegue che il controllo preventivo non dovrebbe avvenire se il credito Irpef deriva da un 730 precompilato accettato senza modifiche. Allo stesso tempo, anche la presentazione del modello 730 a credito tramite un Caf o un abilitato che appone il visto di conformità dovrebbe consentire il rimborso Irpef immediato in busta paga.

Ovviamente in presenza di elementi poco congrui e che facciano partire l'indagine preventiva, per il contribuente scatterà il blocco del rimborso richiesto. Solo al termine dei controlli e se non saranno riscontrate anomalie, la situazione tornerà alla normalità.



domenica 7 febbraio 2016

Naspi a chi spetta e come si calcola

 
 

E' un assegno che spetta ai lavoratori in disoccupazione involontaria, quindi chiunque ha perso il lavoro a partire dal 1° 2015, ha diritto ad un assegno di disoccupazione se ha lavorato almeno 3 mesi.
Con la Naspi dal 2016 per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e determinato, gli apprendisti, i soci lavoratori di cooperativa che hanno aderito o instaurato dopo l'associazione, un rapporto di lavoro in forma subordinata, per il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato mentre per i precari e co.co.co. che hanno versato almeno tre mesi di contributi, hanno diritto, a partire sempre dal 1° maggio 2015.

Requisiti:
La nuova indennità di disoccupazione Naspi verrà gestita dalla nuova Agenzia unica del lavoro attraverso i centri per l’impiego a cui il lavoratore licenziato si dovrà rivolgere per sottoscrivere la DID, dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro e attivare così le procedure di politica attiva del lavoro, e dall'INPS che avrà il compito di recepire, lavorare le domande telematiche di disoccupazione ed erogare l'indennità spettante.

A cambiare è la platea di lavoratori a cui spetterà dal 2015 l'assegno di disoccupazione involontaria, in quanto il diritto nuovo sussidio universale sarà esteso a chiunque perda il lavoro, quindi anche a precari e collaboratori a progetto, sempre se hanno versato e lavorato almeno 3 mesi prima della perdita del lavoro.

La Naspi spetta ai lavoratori in possesso dei seguenti requisiti:
• stato di disoccupazione;
• se nei 4 anni precedenti al licenziamento possono far valere almeno 13 settimane di contributi versati;
• possono far valere 30 giornate di lavoro effettivo o equivalenti, a prescindere dai contributi versati nei 12 mesi prima dell’inizio del periodo di disoccupazione.

Durata e calcolo importo retribuzione al mese:
La disoccupazione è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. La sua durata, secondo quanto previsto dal Jobs Act , dura nel 2016 per 24 mesi e spetta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 anni, senza tenere conto dei periodi coperti da contributi figurativi che hanno già dato luogo al pagamento di prestazioni di disoccupazione, anche se pagate in un'unica soluzione anticipata.

Per i lavoratori precari invece la durata massima per l'erogazione dell'assegno di disoccupazione è per 6 mesi, in base alla presunzione che dietro la collaborazione di un anno di lavoro si possa configurare in realtà un contratto di lavoro subordinato.

Naspi calcolo: la retribuzione mensile, ossia, la misura dell'importo dell'assegno di disoccupazione pagato dall'INPS ogni mese con bonifico bancario, si calcola sommando tutte le retribuzioni imponibili ai fini previdenziali, ricevute negli ultimi 4 anni e dividendo il risultato per il numero di settimane di contribuzione. Il quoziente ottenuto va infine moltiplicato per il numero 4,33. In base a tale calcolo, se la retribuzione mensile è pari o inferiore a 1195 euro mensili, l’importo della Naspi è pari al 75% della suddetta retribuzione mentre se è oltre a tale soglia, viene aggiunto al 75% un importo pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo. In ogni caso, l'importo massimo dell'indennità non può superare i 1300 euro al mese per l'anno 2015. Importo da rivalutare annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo come il massimale di 1195 euro.

Riduzione indennità progressiva a partire dal primo giorno del 5° mese di fruizione dell’indennità, per cui l’importo della naspi è ridotto del 3% al mese a partire dal primo giorno del 4° mese di fruizione. Infine non si applica la trattenuta del 5,84% prevista sull’importo delle prestazioni di sostegno al reddito. Dal 2016, la riduzione dell'assegno è a partire dal 91° giorno.

Domanda online:
Per presentare la domanda NASPI 2016 INPS per gli eventi di disoccupazione occorsi dopo il 1° maggio, i lavoratori devono:
compilare e inviare il modulo domanda naspi 2016 direttamente online, se dispongono del pin dispositivo inps, al seguente percorso: home > servizi online > elenco di tutti i servizi  > servizi per il cittadino> invio domande prestazioni a sostegno del reddito (sportello virtuale per i servizi di informazione e richiesta di prestazione) > naspi.
far compilare e inviare il modello di domanda a patronati o intermediari autorizzati ad inviare le richieste inps per via telematica.

Come funziona per i lavoratori licenziati per motivi disciplinari?
Naspi ai lavoratori licenziati per motivi disciplinari: la nuova disoccupazione è riconosciuta anche ai lavoratori licenziati per motivi disciplinari. Questo è quanto confermato e ribadito il ministero del Lavoro con l'interpello 13/2015, intervenuto a chiarire meglio il campo di applicazione della nuova assicurazione sociale per l’impiego in base al primo decreto attuativo del Jobs act, il Dlgs 22/2015 e come si attua la procedura di conciliazione volontaria introdotta dall’articolo 6, del Dlgs 23/2015.

Pertanto, la NASPI in base al Dlgs 22/2015 conferma che il presupposto della nuova disoccupazione è l’involontarietà della perdita del posto di lavoro, per cui l'indennità va riconosciuta anche nei casi licenziamento disciplinare che di dimissioni per giusta causa e di risoluzione consensuale del rapporto, per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, intervenuta in sede di conciliazione preventiva presso la Dtl.

Circa invece la possibilità di percepire l'indennità Naspi da parte dei lavoratori che non accettano l’indennità economica prevista dalla nuova offerta conciliativa del contratto a tutele crescenti, il Ministero ricorda che tale conciliazione ha l'obiettivo di impedire che il licenziamento possa essere impugnato, per cui il diritto alla Naspi è riconosciuta anche in questo caso.

Lavoratori stagionali
Il testo del decreto sul riordino degli ammortizzatori sociali, licenziato dal Governo nella seduta del CdM dell'11 giugno 2015, è intervenuto a fissare:
• Nuovi requisiti e condizioni per l'autorizzazione della CIG e CIGS
• Fondi di solidarietà,
• Prolungare la NASPI fino a 24 mesi anche dopo il 2016,
• Assegno di ricollocazione ASDI;
• Salvaguardia per i lavoratori stagionali.
La Naspi stagionali è solo per l'anno 2016 e solo per il settore turismo.

Disoccupati 2016: domande per Naspi, Aspi, Asdi, Dis Coll e Social Card


Come cambiano i sussidi di disoccupazione dal 2016: quali sono, come funzionano, per chi valgono e debutto social card per disoccupati.

Per presentare la domanda NASPI 2016 INPS per gli eventi di disoccupazione occorsi dopo il 1° maggio 2015, i lavoratori devono:

compilare e inviare il modulo domanda NASPI 2016 direttamente online, se dispongono del PIN dispositivo INPS, al seguente percorso: Home > Servizi Online > Elenco di tutti i Servizi  > Servizi per il cittadino> Invio domande prestazioni a sostegno del reddito (Sportello virtuale per i servizi di informazione e richiesta di prestazione) > NASpI;

far compilare e inviare il modello di domanda a Patronati o Intermediari autorizzati ad inviare le richieste INPS per via telematica.

Il nuovo assegno di disoccupazione: Naspi, verrà gestito dalla nuova agenzia unica per il lavoro, in stretta collaborazioni con i Centri per l’Impiego e dell’Inps sul territorio.

La Naspi può essere richiesta dai lavoratori che hanno perso involontariamente la propria occupazione e che provano di essere in reale stato di disoccupazione; che possano far valere, nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione; o che possano far valere trenta giornate di lavoro effettivo o equivalenti, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.

La Naspi arriverà a coprire un periodo massimo di 2 anni (più precisamente saranno presi in considerazione la metà dei mesi in cui il soggetto interessato ha avuto un contratto di lavoro negli ultimi 4 anni precedenti alla richiesta del sussidio, che partirà da un massimo di 1.200 euro per scendere poi gradualmente fino a 700 euro).

La mini Aspi, invece, è una prestazione a sostegno del reddito, destinata ai lavoratori che hanno perso il lavoro in maniera volontaria e che, rispetto all’Aspi, richiede dei requisiti contributivi ridotti. La Naspi vale per i lavoratori dipendenti privati, a tempo indeterminato e a termine, e per quelli pubblici assunti a termine. Per richiederla bisognerà aver maturato almeno 13 settimane di contributi negli ultimi 4 anni di lavoro e 18 giornate effettive di lavoro negli ultimi 12 mesi.

La Naspi sarà erogata mensilmente dall’Inps, per importi massimi di 1.300 euro al mese e per un massimo di 18 mesi. Il nuovo Asdi, Assegno di disoccupazione per i lavoratori, invece, scatta se al termine della Naspi il disoccupato non ha trovato un altro lavoro, e avrà durata di sei mesi, con erogazione di un assegno di importo pari al 75% dell’ultimo assegno Naspi. In vigore dal primo gennaio 2015, invece, Dis-Coll, altro nuovo sussidio di disoccupazione a sostegno di coloro che sono senza lavoro iscritti alla gestione separata dell’Inps, non pensionati e privi di partita Iva.

Per ricevere l’Aspi bisogna aver maturato almeno 3 mesi di contributi dal primo gennaio dell’anno precedente o un mese nell’anno in cui si perde il lavoro, e la sua durata sarà di tre mesi. In questo 2015 i disoccupati potranno anche richiedere la nuova social card proprio per i disoccupati, da erogare, appunto, a quanti sono rimasti senza lavoro, con erogazione ogni due mesi e per un anno.

Diversi gli importi previsti, a seconda della composizione familiare.
Per famiglie composte da 2 membri, l’importo sarà di 231 euro; per famiglie composte da 3 membri, di 281 euro; per famiglie composte da 4 membri, di 331 euro; per famiglie composte da 5 o più membri, di 404 euro mensili.

Possono richiedere la nuova social card disoccupati, cittadini italiani o di uno degli stati membri dell’Unione Europea, cittadini extracomunitari purché in possesso di regolare permesso di soggiorno, bisogna avere un Isee pari o inferiori a 3.000 euro, possedere un patrimonio mobiliare inferiore a 8.000 euro, non possedere autoveicoli immatricolati nell’ultimo anno. La social card deve essere richiesta direttamente presso gli uffici postali, compilando un modulo scaricabile presso il sito di Poste Italiane e del Ministero dell'Economia e delle Finanze e sarà poi l’Inps a valutare la domanda e decidere se erogare o meno la prestazione in base ai requisiti soddisfatti o meno.

La richiesta per avere la social card disoccupati deve essere presentata in uno degli Uffici di Poste Italiane Abilitati, insieme a tutta la documentazione richiesta, poi sarà inviata direttamente dall’Ufficio Postale all’Inps, che una volta valutata la documentazione presentata, comunicherà al richiedente se la domanda è stata accolta o meno.

E’ necessario per tutti essere in grado di dimostrare di aver lavorato almeno 3 mesi prima di perdere il l’impiego.

Questo nuovo sussidio coinvolge dunque molti soggetti che non ne avrebbero avuto diritto per il tipo di contratto sottoscritto con il datore di lavoro fino ad ora.

Dal 2016 l’Aspi e Mini Aspi può essere richiesta anche dai lavoratori stagionali impiegati nel settore turistico o negli stabilimenti termali per gli eventi di disoccupazione verificatisi entro il 31 dicembre 2015, e colf e lavoratori domestici , a domicilio, dipendenti con periodi di lavoro estero, lavoratori caratterizzati da neutralizzazione con contribuzione di interesse molto datata e agricoli, che abbiano almeno cinque settimane lavorate, intese come settimane con un minimo di 24 ore di lavoro retribuito. Stiamo parlando della Naspi, nuova indennità di disoccupazione che vale 24 mesi, prevede importi fino a 1.300 euro e la cui domanda deve essere inviata all’Inps telematicamente entro i 68 giorni successivi dalla conclusione del rapporto di lavoro.

Si può anche inoltrare ormai domanda per ricevere l’Asdi, il nuovo assegno di disoccupazione, che si può ricevere se, una volta esaurita la Naspi, il lavoratore disoccupato non abbia ancora trovato un nuovo impiego, se si hanno figli minori e non si sono ancora maturati i requisiti contributivi e anagrafici per il pensionamento. Coloro che intendono beneficiare della Asdi, dovranno presentare la domanda compilando un apposito modello on line, presente sul sito dell'INPS e successivamente recarsi presso un centro di servizi competenti in ambito territoriale per sottoscrivere un "progetto personalizzato", dove il richiedente deve dare il proprio consenso alla partecipazione a corsi di formazione o ad accettare eventuali proposte di lavoro.

L’Asdi prevede anche eventuali bonus se si hanno figli a carico. In particolare, il bonus è pari a 89,70 euro per un figlio; a 116,60 euro per due figli; a 140,80 euro per tre figli; a 163,30 per quatto o più figli. Unica condizione per la richiesta dell’Asdi è che il lavoratore dimostri di partecipare ai corsi di formazione, di orientamento e di ricerca attiva di nuova occupazione, proposti dai competenti Servizi per l’impiego e per accedervi deve presentare la domanda all’Inps, in via telematica, a partire dal primo giorno successivo al termine della Naspi ed entro 30 giorni, altrimenti perderà il diritto di accesso al beneficio.

La Dis Coll, è l’indennità di disoccupazione per i professionisti disoccupati iscritti alla gestione separata dell’Inps e CoCoPro, collaboratori coordinati e continuativi e a progetto, che prevede l’erogazione di un assegno pari al 75% del reddito medio mensile e deve essere richiesto online all’Inps entro 68 giorni dalla perdita del lavoro e sarà erogato mensilmente dallo stesso Istituto. Per i tempi di erogazione degli assegni da parte dell’Inps, dipenderà dall’inoltre delle domande.


mercoledì 3 febbraio 2016

INPS: pronta la domanda per il bonus 2016 per l' asilo nido e baby sitter



Dal 1 febbraio 2016 è disponibile sul sito dell’Inps la procedura telematica che permette la presentazione da parte delle madri lavoratrici della domanda di accesso al contributo economico utilizzabile, in alternativa al congedo parentale, per il servizio di baby-sitting oppure per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati. Il fondo da cui attingere è dotato di 20 milioni di euro. Il contributo è di 600 euro per sei mesi (3.600 euro in totale).

L’INPS ha pubblicato l’avviso con le istruzioni per la domanda, che si può presentare fino al 31 dicembre. Si tratta di un contributo di 600 euro al mese, per un periodo massimo di sei mesi, da utilizzare per servizi di baby sitting o per l’infanzia (pubblici o strutture private accreditate). Introdotto in via sperimentale per gli anni 2012-2015 dalla riforma del Lavoro Fornero (articolo 4, comma 24, lettera b, legge 92/2012), il bonus è stato prorogato per il 2016 dalla Legge di Stabilità. L’INPS accoglierà le domande fino a esaurimento risorse, pari a 20 milioni di euro per quest’anno. Il criterio generale è l’ordine cronologico di presentazione delle domande.

Possono presentare la domanda le seguenti categorie di lavoratrici in costanza di rapporto di lavoro: dipendenti del settore pubblico o privato; parasubordinate o libere professioniste iscritte alla gestione separata Inps,  come alternativa al diritto di congedo parentale e da fruire negli 11 mesi successivi al termine del congedo di maternità obbligatorio. Nel caso in cui la lavoratrice abbia già usufruito in parte del congedo parentale, può chiedere il voucher per un numero di mesi pari al congedo non ancora utilizzato. Hanno diritto al voucher anche le lavoratrici in part-time: in questo caso, il contributo è proporzionato all’orario di lavoro, in base a specifica tabella INPS.

Non sono ammesse le lavoratrici autonome, per le quali la Legge di Stabilità ha comunque previsto un altro voucher, sempre di 600 euro al mese, per un periodo massimo di tre mesi.

La domanda va presentata all'Inps per via telematica, utilizzando i servizi del portale con accesso tramite PIN dispositivo accedendo al portale Internet dell'Istituto al seguente indirizzo: www.inps.it  - Servizi per il cittadino - Autenticazione con Pin - Invio domande di prestazioni a sostegno del reddito - Invio delle domande per l'assegnazione dei contributi per l'acquisto dei servizi per l'infanzia.  In alternativa, la domanda può essere presentata rivolgendosi ai patronati. Attenzione: le domande pervenute mediante canali diversi (email, PEC), non saranno prese in considerazione. E' bene ricordare che dal momento di presentazione della domanda e fino all'accoglimento della stessa, per la madre lavoratrice è sospesa la possibilità di fruire del periodo di congedo parentale cui si rinuncia nella domanda di beneficio, detta fruizione sarà nuovamente consentita solo nel caso di reiezione della domanda, ovvero in caso di rinuncia al beneficio.

Se si decide per il contributo baby sitting, gli appositi voucher vanno ritirati presso la sede INPS competente entro 120 giorni dall’accoglimento della domanda; se sceglie il voucher per l’iscrizione al nido, il contributo viene erogato dall’INPS direttamente alla struttura prescelta. E’ possibile cambiare la scelta della struttura per l’infanzia sempre fra quelle accreditate (elenco sul sito INPS) – accedendo alla procedura online o rivolgendosi a un patronato (rimangono dunque le consuete regole degli anni scorsi).

Le lavoratrici interessate, per la presentazione della domanda, dovranno: richiedere preventivamente il Pin online e convertirlo in tempo utile in Pin dispositivo; presentare preventivamente ed in tempo utile all’Inps la dichiarazione Isee (qualora non sia già presente nelle banche dati dell’Inps una dichiarazione Isee valida). Tale dichiarazione può essere presentata all'Istituto in via telematica o rivolgendosi ad un Caf convenzionato.

L’INPS, oltre alle istruzioni per la domanda, ha pubblicato il modello per dichiarare l’effettiva fruizione del beneficio (nel caso si scelga l’iscrizione al nido) e quello che le strutture per l’infanzia devono compilare per la liberatoria di pagamento.

Se la lavoratrice sceglie il voucher baby sitter, deve effettuare al comunicazione di inizio prestazione (indicando codice fiscale proprio e del prestatore/prestatrice, luogo di svolgimento della prestazione, date presunte di inizio e di fine dell’attività lavorativa), attraverso il contact center INPS/INAIL (803.164, gratuito da telefono fisso, oppure, da cellulare il numero 06164164, con tariffazione a carico dell’utenza chiamante), il numero di fax gratuito INAIL 800.657657 (utilizzando il modulo presente sul sito dell’INAIL), la sezione “Pronto cliente” del sito INAIL, la sede INPS. Il o la baby sitter deve incassare il corrispettivo del voucher, convalidato con la propria firma, entro 24 mesi. I voucher non sono rimborsabili in caso di mancato utilizzo.

Mentre le lavoratrici autonome e le imprenditrici è prevista una dotazione di 2 milioni di euro, ma  manca il decreto interministeriale per stabilirne modalità e criteri di accesso. Per ora si sa solo che il tempo massimo per cui si potrà richiedere è di soli tre mesi.

Una significativa attenzione va data al fattore tempo: non ce n'è molto a disposizione per pensare se tornare al lavoro per 600 euro al mese, lasciando il figlio al nido o a casa con la baby sitter, tra le possibili pressioni del datore di lavoro e il pensiero che con il congedo parentale si riceve solo il 30% dello stipendio. Cos・ anche se le domande possono essere presentate fino al 31 dicembre 2016, a poter spezzare le speranze delle mamme ・una clausola prevista: l筑esaurimento dei fondi a disposizione per finanziare il bonus. E per l'anno corrente ammontano a 20 milioni di euro.


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