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mercoledì 19 novembre 2014

Contestazione per licenziamento con motivazione economica



Con il termine “licenziamento” si intende l’atto unilaterale del datore di lavoro (che quindi non comporta che il lavoratore sia d’accordo) con il quale viene interrotto il rapporto di lavoro. Il licenziamento disciplinare è appunto un licenziamento che si fonda su comportamenti del lavoratore che non adempie ai propri doveri violando delle norme stabilite dalla legge, dai contratti collettivi e all’interno del codice disciplinare dell’azienda.

Il licenziamento per motivazione economica è l'atto con il quale il datore di lavoro interrompe unilateralmente (cioè senza accordo da parte del lavoratore) il rapporto di lavoro con il dipendente per motivi che non riguardano il comportamento di quest'ultimo, ma per ragioni che riguardano la riorganizzazione aziendale. Viene anche definito licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La disciplina è stata profondamente modificata dalla c.d. Riforma Fornero attuata con legge n. 92 del 2012.

Come fare per contestare il licenziamento

- se il datore di lavoro intima il licenziamento “a voce” occorre non tenerne conto e presentarsi comunque sul posto di lavoro;

- se il datore di lavoro intima il licenziamento per iscritto allora occorre esaminare le ragioni contenute nella comunicazione andando presso l'ufficio vertenze di un'associazione sindacale oppure presso lo studio di un avvocato;

- è opportuno portare con se copia della lettera di assunzione, del contratto di lavoro, una copia dell'ultima busta paga;

- entro 60 giorni dalla comunicazione del datore di lavoro va inviata una raccomandata con la quale si contestano le ragioni del licenziamento;

- entro i successivi 180 giorni, se il datore di lavoro non ritira il licenziamento, è necessario alternativamente:

depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale e richiedere una conciliazione o un arbitrato

- se il datore di lavoro non accetta di partecipare alla conciliazione è necessario presentare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni dal rifiuto;

- se il datore di lavoro accetta di partecipare alla conciliazione ma in quella sede non si trova un accordo occorre presentare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni dalla data del verbale in cui si accerta la mancata conciliazione.

Il licenziamento deve essere effettuato in forma scritta. Ciò significa che il datore di lavoro è tenuto a consegnare al lavoratore un documento nel quale viene intimato il licenziamento e che indica le ragioni della decisione dell’imprenditore.

L’indicazione delle ragioni è richiesta perché il lavoratore sia informato in merito al comportamento negligente che gli viene contestato e possa quindi replicare eventualmente negando ciò che gli viene attribuito.

Ovviamente nel caso in cui il lavoratore contesti a sua volta le motivazioni del licenziamento (ad esempio negando di avere rubato del denaro dalle casse) il datore di lavoro deve considerare le ragioni del dipendente e decidere se revocare il licenziamento oppure se confermarlo.

Contestazione del licenziamento
La legge si occupa di regolamentare i modi attraverso i quali il lavoratore licenziato senza una giusta causa o un giustificato motivo può ricorrere contro il licenziamento illegittimo, stabilendo anche delle sanzioni a carico del datore di lavoro.

Quando il lavoratore ritiene che il licenziamento sia ingiusto è tenuto ad impugnarlo entro 60 giorni. Il termine per impugnare si calcola a partire:
dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione del licenziamento (se questa contiene anche le motivazioni della decisione del datore di lavoro)
dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione dei motivi di licenziamento (se all'atto del licenziamento questi motivi non erano stati indicati).

Entro il termine di sessanta giorni, in altre parole, il lavoratore deve inviare all'imprenditore una comunicazione (in qualunque forma, anche una semplice lettera raccomandata) con la quale rende noto che intende contestare il licenziamento.

Nei successivi 180 giorni il lavoratore deve:
depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale impugnando davanti al Giudice il licenziamento
comunicare al datore di lavoro la richiesta di un tentativo di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro oppure una richiesta di arbitrato.

e questo termine non viene rispettato l'impugnazione del licenziamento non può essere presa in considerazione dal Giudice e si considera inefficace.

Se invece viene richiesta una conciliazione o un arbitrato e il datore di lavoro li rifiuta oppure, pur avendoli accettati, non si riesce a raggiungere un accordo, il lavoratore deve depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni.

Che cosa succede nel caso di licenziamento per motivazione economica illegittimo

Prima della riforma Fornero:

- il Giudice che riteneva che il licenziamento non fosse supportato da una giusta causa o da un giustificato motivo:

nelle imprese con un numero di dipendenti superiore a 15, condannava il datore di lavoro al risarcimento del danno e gli ordinava di riprendere presso di se il lavoratore ingiustamente licenziato
nelle imprese con un numero di dipendenti inferiore a 15, condannava il datore di lavoro a versare al lavoratore ingiustamente licenziato un indennizzo che si calcolava in base alla retribuzione mensile e all'anzianità di servizio.

Dopo la riforma Fornero

- il Giudice che ritiene il licenziamento illegittimo:

 per le imprese che occupano nell'ambito dello stesso Comune più di 15 dipendenti (5 se si tratta di imprenditore agricolo) o che complessivamente hanno più di 60 dipendenti, può soltanto condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore una indennità che va da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale dovuta al lavoratore. In questo caso però il rapporto di lavoro si interrompe comunque.

Il Giudice però può ordinare (ma non è obbligato a farlo) il reintegro del lavoratore nel proprio posto di lavoro quando le ragioni indicate dal datore di lavoro come fondamento del licenziamento sono manifestamente infondate (cioè se il torto del datore di lavoro è evidente).

A chi rivolgersi

Avvocato per i ricorsi;
Sedi Territoriali Organizzazioni Sindacali



venerdì 31 ottobre 2014

Il comportamento antisindacale del datore di lavoro



La condotta antisindacale è quella tenuta dal datore di lavoro o dai soggetti che in suo nome hanno agito per l’esercizio dell’impresa; il comportamento è illegittimo in quanto idoneo a ledere beni protetti ed è molto offensivo in quanto gli interessi lesi possono essere anche individuali e non solo del sindacato. Il soggetto giuridico che può presentare ricorso deve essere l’articolazione più periferica di un’organizzazione sindacale nazionale e non rappresentare un’unica categoria di lavoratori; i singoli prestatori di lavoro sono quindi esclusi. Possono presentare ricorso le organizzazioni sindacali che vi abbiano interesse; l’interesse tutelato è quello sindacale indipendentemente dal fatto che il sindacato sia in azienda o che il lavoratore sia iscritto.

Il comportamento antisindacale del datore di lavoro, in relazione a uno sciopero indetto dai lavoratori, è configurabile allorché il contingente affidamento delle mansioni svolte dai lavoratori in sciopero al personale rimasto in servizio, nell’intento di limitarne le conseguenze dannose, avvenga in violazione di una norma di legge o del contratto collettivo, in particolare dovendosi accertare che, da parte del giudice di merito, ove la sostituzione avvenga con lavoratori di qualifica superiore, se l’impiego dei primi a mansioni inferiori avvenga eccezionalmente, marginalmente e per specifiche e obiettive esigenze aziendali.

E' antisindacale il comportamento aziendale consistito nel licenziamento di tre attivisti e militanti sindacali per fatti successi durante uno sciopero, risultati diversi in giudizio rispetto a quelli contestati nei procedimenti disciplinari, in quanto i comportamenti addebitati sono risultati oggettivamente insussistenti e comunque, anche dal punto di vista soggettivo, è risultato assente il deliberato intento di arrestare la produzione aziendale, contestato invece da parte aziendale; per l'antisindacalità, invece, è stato ordinato al datore di lavoro il reintegro immediato dei lavoratori licenziati e la pubblicazione del dispositivo del decreto sui giornali.

La condotta antisindacale è attuale e persiste sino a che la prestazione dovuta in favore delle organizzazioni sindacali non sia eseguita.

Costituisce comportamento antisindacale il rifiuto datoriale di effettuare le trattenute dei contributi sindacali richieste dai lavoratori sulla propria retribuzione a titolo di cessione del credito. E' antisindacale la condotta tenuta in violazione degli obblighi di informazione, di concertazione e del divieto di assunzione di iniziative unilaterali su materie oggetto di confronto in pendenza dello stesso, previsti dai CCNL di riferimento succedutisi nel tempo, in quanto le norme di cui al d.lgs. n. 150/2009 si applicano a far data dalla tornata successiva a quella in corso e dunque i contratti collettivi nazionali restano in vigore sino alla prevista scadenza.

Integra gli estremi della condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro consistente nel licenziamento, per asserita soppressione del datore di lavoro, di due lavoratori durante il periodo di sospensione in Cig ordinaria, in violazione di precedente accordo sindacale con cui l'azienda si era impegnata a domandare l'intervento della Cig (nella fattispecie, il giudice ha conseguentemente ordinato la reintegrazione dei lavoratori e il pagamento delle retribuzioni perdute dal licenziamento alla effettiva reintegrazione).

L'esaurirsi della condotta antisindacale non è di ostacolo alla pronuncia di antisincalità, nel caso in cui quel comportamento produca effetti durevoli o abbia una portata intimidatoria o ancora crei una situazione di incertezza.

All'accertamento del carattere antigiuridico di un comportamento antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, segue la possibilità, da parte delle organizzazioni sindacali e dei singoli dipendenti, di esperire azione risarcitoria fondata su tale antigiuridicità.

E' antisindacale il comportamento del datore di lavoro che abbia disposto modifiche dell'articolazione dell'orario di lavoro senza rispettare le procedure di concertazione previste dal Ccnl.

La definizione della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970) non è analitica ma teleologica poiché individua il comportamento illegittimo non in base a caratteristiche strutturali, bensì alla sua idoneità a ledere i "beni" protetti. Pertanto per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 (legge n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatori le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, potendo sorgere l'esigenza di una tutela della libertà sindacale anche in relazione a un'errata valutazione del datore di lavoro circa la portata della sua condotta, così come l'intento lesivo del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo obbiettivamente tale da limitare la libertà sindacale.

E' legittimata a esperire l'azione di repressione della condotta antisindacale l'associazione sindacale che abbia carattere nazionale, per l'accertamento del quale assume rilievo, più che la diffusione dell'articolazione territoriale delle strutture dell'associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e che non possono che essere, a loro volta, espressione di una forte capacità negoziale comprovante un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell'intero paese, di cui la concreta ed effettiva organizzazione territoriale può configurarsi come elemento di riscontro del suo carattere nazionale e non certo come elemento condizionante il detto requisito della nazionalità.



martedì 23 settembre 2014

Bancari e motivi di licenziamento per giusta causa



Per la Cassazione n. 19612/2014 legittimo il licenziamento del direttore di banca che informa il cliente degli accertamenti antievasione in corso. La sentenza della Corte di Cassazione Civile, sez. Lav., del 17 settembre 2014, n. 19612 stabilisce che è legittimo il licenziamento per giusta causa di un direttore di banca che informa un cliente dell'esistenza di un'indagine in corso in quanto lede l'affidamento della banca sul futuro corretto adempimento, da parte del dipendente, delle delicate mansioni affidategli, a maggior ragione , come nel caso in specie, quelle relative alle misure di legge antievasione e antiriciclaggio di competenza degli istituti finanziari.

Inoltre un dipendente di una banca che si allontana per la pausa caffè lasciando incustodita la cassa può essere licenziato; questo comportamento non può essere scusato neanche invocando l'esistenza di una prassi interna che consente l'assenza per brevi periodi. Questa è una decisione della Cassazione con la sentenza n. 7829, con la quale è stata conclusa una lunga battaglia giudiziaria.

Il dipendente di una banca aveva rifiutato di eseguire un'operazione richiesta da un cliente, e soprattutto si era allontanato temporaneamente dal posto di lavoro per prendere il caffè, lasciando aperta la cassa, chiedendo ai colleghi di occuparsene in sua assenza. Per giustificare le proprie mancanze, il dipendente aveva sostenuto di non possedere le cognizioni sufficienti per compiere l'operazione, nel primo caso, e di aver seguito una prassi aziendale che consentiva la pausa caffè, nel secondo caso.

Il licenziamento del dipendente era stato giudicato illegittimo in primo grado e in appello, ma la Cassazione aveva bocciato queste decisioni, ritenendo che il comportamento del dipendente era connotato della sufficiente gravità per integrare la giusta causa. A seguito di tale decisione, la Cassazione ha rimandato gli atti alla Corte d'Appello, che ha riesaminato il caso confermando, questa volta, il licenziamento. Questa decisione è stata nuovamente impugnata per Cassazione, dal dipendente, ed è stata posta la parola fine.

Secondo la pronuncia, la gravità dei comportamenti tenuti dal dipendente deve essere valutata non solo rispetto all'interesse patrimoniale del datore di lavoro, ma con riferimento alla possibile lesione dell'interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito. Questo interesse è stato compromesso dalla condotta del dipendente che ha violato tutte le regole di maneggio e custodia del denaro prevista dalla banca, allontanandosi dal suo posto di lavoro. Né il comportamento è scusabile per il fatto che il dipendente aveva seguito una prassi interna che legittimava l'assenza per la pausa caffè, in quanto l'invocazione delle regole di buon senso, diverse da quelle formali previste dal datore di lavoro, si concretizza in una negazione del potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.

Altra ipotesi in cui la Corte di Cassazione a un giudizio costante nel ritenere che i fatti posti a fondamento del licenziamento per giusta causa devono rivestire il carattere di grave negazione dell’elemento fiduciario e la valutazione sulla proporzionalità del licenziamento deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, nonché alla posizione delle parti ed all’affidamento richiesto dalle specifiche mansioni svolte dal dipendente.

In particolare, la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare del dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, rilevando, in tal caso, la lesione dell’affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico, ripongono nella lealtà e nella correttezza del dipendente medesimo.

Nell’ambito delle fattispecie di licenziamento per giusta causa è stata più volte esaminata la rilevanza disciplinare dell’apposizione di firme apocrife, che, evidentemente, costituisce una frequente modalità di illecito disciplinare.

In particolare, la Corte ha affermato che può essere legittimo il licenziamento di un dipendente bancario che ha falsificato la firma della fidanzata per effettuare operazioni di prelievo dal conto corrente della stessa..

Nello stesso senso, la Corte di Cassazione ha ribadito, pur nell’ambito di più ampie contestazioni disciplinari, che deve comunque ritenersi illegittimo il comportamento del dipendente di un istituto di credito che aveva falsificato la firma della madre per incassare assegni non trasferibili intestati a quest’ultima.

Con una più recente sentenza la Corte di Cassazione ha, invece, affermato l’illegittimità del licenziamento di una dipendente che aveva falsificato la firma del convivente, rilevando che il giudice di primo grado non avrebbe dovuto ammettere la consulenza tecnica (che, confermando la perizia di parte già predisposta dalla Banca datrice di lavoro nell’ambito del procedimento disciplinare, aveva accertato la falsità della firma apposta sul bonifico bancario), in quanto la firma apposta sul bonifico era stata riconosciuta come autentica dal (non più) convivente della dipendente, che era stato sentito come testimone nell’ambito del giudizio di primo grado.

Con un’altra recente sentenza (n. 5006 del 28 febbraio 2013) la Corte di Cassazione ha giudicato sul licenziamento disciplinare di un dipendente che aveva apposto ben 240 firme apocrife, aveva disposto la vendita di titoli sulla base di ordini firmati da soggetti differenti da quelli richiedenti ed aveva raccolto, altresì, ordini di compravendita di titoli con sottoscrizioni non conformi a quelle depositate con il modello di firma. Nella fattispecie in esame la Corte di Cassazione ha confermato la congruità della motivazione fornita dalla Corte di merito, ritenendo sproporzionata la sanzione del licenziamento disciplinare, in quanto il dipendente non aveva ricevuto alcun vantaggio personale da tale comportamento, che era stato attuato per far fronte ad un sovraccarico di lavoro oggettivamente aggravato dalla lentezza dei sistemi operativi, dovendosi, altresì, tener conto che le operazioni disposte dal lavoratore erano sottoposte al controllo del Direttore della filiale.

La Suprema Corte sembra aver adottato, un criterio di valutazione meno rigoroso rispetto a precedenti decisioni, in quanto ha attribuito valore esimente alle specifiche condizioni di lavoro nelle quali il dipendente operava, senza considerare, invece, la possibilità che i soggetti interessati potessero contestare le operazioni effettuate dal dipendente in quanto prive di firma autentica.

Nella suddetta sentenza assume rilevanza, altresì, il controllo effettuato dal Direttore della filiale, che, verosimilmente, era presente anche nelle fattispecie in cui la Corte di Cassazione ha invece censurato il comportamento del dipendente, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa; peraltro, nella sentenza sembra essere stato disatteso un principio affermato in precedenza, secondo cui, ai fini della proporzionalità del licenziamento del dipendente di un istituto di credito, non assume rilevanza la mancanza di un danno per il datore di lavoro.

Per concludere, la rilevanza disciplinare delle firme apocrife apposte dal dipendente di un istituto di credito sembra debba valutarsi anche con riferimento alle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, mentre sembra assumere minore rilevanza il più generale interesse ad un corretto comportamento del dipendente laddove non emerga un vantaggio strettamente personale.

sabato 22 marzo 2014

Licenziamento e periodo di comporto cosa prevede la legge




In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l'assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

La Corte di Appello, in riforma della decisione del Tribunale di Locri, annullava il licenziamento del lavoratore, per superamento del comporto per malattia, ordinando alla società la reintegra e condannava l'appellata società a risarcire alla predetta il danno subito, mediante corresponsione della indennità di legge. Osservava la Corte territoriale che la natura professionale delle patologie dedotte dall'appellante (lombosciatalgia bilaterale e cervico brachialgia bilaterale) non era sufficiente ad escludere le assenze derivatene da quelle computabili per il comporto e che era necessaria, ai fini considerati, l’imputabilità delle stesse a responsabilità datoriale. Nella specie era emerso, anche dalla c.t.u. espletata, che il tipo di lavoro svolto era stato concausa delle patologie osteoarticolari e che le assenze dal lavoro, per un totale di 293 giorni su 322, erano riconducibili, come emergeva dai certificati acquisiti agli atti di causa, a lombosciatalgia, determinata dalle condizioni di lavoro (continue movimentazioni di carichi ed esposizione a sbalzi di temperatura nel settore della floricultura).

Contro la sentenza dell’appello, la società ha presentato ricorso che è stato rigettato, per la seguente motivazione:
“La fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), si inquadra nello schema previsto, ed è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità e del contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all'uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali. Le assenze del lavoratore per malattia non giustificano, tuttavia, il recesso del datore di lavoro ove l'infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza o di specifiche norme, incombendo, peraltro, sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia e il carattere morbigeno delle mansioni espletate”.

2. Licenziamento per superamento del periodo di comporto ed art. 2087 c.c.
La fattispecie del recesso del datore di lavoro - per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi alle regole dettate (dall’art. 2120 c.c.), che prevalgono - per la loro specialità - sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa (art. 1256 c.c., comma 2, e art. 1464 c.c.), sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (L. 604/1966 e L. 300/1970 e successive modifiche) - secondo la giurisprudenza (ora consolidata) di questa Corte (dopo le sentenze delle Sezioni Unite n. 2072, 2073, 2074/80, vedine, per tutte, le sentenze della Sezione Lavoro n. 5066/2000, 14065, 13992/99, 5927/96, 6601/95, 3213/87, 3879/86, 5741, 4095, 2806/85, 5968, 1973/84, 4068, 3909, 1726/83, 1168/82) - con la conseguenza che, in dipendenza della prospettata specialità e del contenuto derogatorio di dette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo comporto) - predeterminato dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa - e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso - nel senso che non è all'uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo (art. 3 della L. 604/1966), né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa (artt. 1256, comma 2 ed 1464 c.c.), né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (in tal senso è Cass., Sez. Un. n. 7755 del 1998, invocata dal ricorrente) - senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (vedi Cass. 5927/96).

Le assenze del lavoratore per malattia non giustificano, tuttavia, il recesso del datore di lavoro - in ipotesi di superamento del periodo di comporto - ove l'infermità sia, comunque, imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro - in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme - incombendo, peraltro, al lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia - che ha determinato l'assenza (e, segnatamente, il superamento del periodo di comporto) - ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate.

domenica 8 dicembre 2013

Riorganizzazione aziendale e licenziamento: sentenza Cassazione lavoro n. 25615 del 2013



La Cassazione civile, sez. lavoro con sentenza del 14 novembre 2013, n. 25615 ha stabilito che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un'effettiva necessità di riduzione dei costi. Tale motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite.

A sostegno del decisione la Corte si spiega quanto segue:

- le circostanze che avevano caratterizzato il nuovo assetto produttivo e societario ed avevano determinato la diversa e definitiva localizzazione delle attività facenti capo alla nuova società datrice di lavoro dell’appellante, avevano trovato riscontro nelle risultanze testimoniale e documentali;

- il processo di riorganizzazione (oggetto di informativa e consultazione in sede sindacale, come da verbale di accordo del luglio 2001 ex art. 47 legge n. 428/90), così come l'inerenza della attività lavorativa svolta dall’appellante al settore confluito nella nuova società, non avevano trovato alcuna contestazione nell'originario ricorso, ove il licenziamento risultava impugnato nei confronti della nuova società, avverso la quale erano state proposte le domande giudiziali, senza che fosse stata messa in discussione la effettiva titolarità del rapporto di lavoro;

- non era ravvisabile la violazione del diritto sancito dall’art. 33, comma quinto, legge n. 104/92 (il quale stabilisce che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede), perché tale norma attribuisce un diritto che, in virtù dell'inciso secondo il quale esso può essere esercitato "ove possibile", ed in applicazione del principio del bilanciamento degli interessi, non può essere fatto valere qualora il suo esercizio leda in misura consistente le esigenze economiche ed organizzative dell'azienda oppure, quando, come nel caso in esame, sia venuta meno la originaria sede di lavoro;

- il motivo oggettivo di licenziamento, determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva deve essere valutato dal datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, poiché tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 della Costituzione, spettando invece al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore; non erano quindi sindacabili, come già ritenuto nella sentenza di prime cure, le ragioni della riorganizzazione aziendale, mentre l'impossibilità di poter impiegare l’appellante in mansioni equivalenti risultava correttamente valutata con riferimento alla unica sede aziendale, dove la stessa appellante aveva rifiutato di trasferirsi.

Avverso la suddetta sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, il quale è stato rigettato.

Quindi l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità la possimao sintettizzare così: "nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi".



domenica 8 settembre 2013

L'esodo incentivato sì ai prepensionamenti

Ancora nessuna novità per quanto riguarda i Quota 96 del comparto scuola, mentre arriva il si definitivo per i pensionamenti statali anticipati dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

È previsto, secondo quanto contenuto nel decreto legge 101 del 31 agosto 2013 che detta le disposizioni urgenti per il proseguimento degli obiettivi di razionalizzazione nella pubblica amministrazione, l'allungamento per i dipendenti pubblici, dei requisiti in vigore prima dell'approvazione della Riforma Fornero fino al 2015.

Il recente decreto sui precari della pubblica amministrazione ha diramato alcune istruzioni chiave per favorire l’uscita dal lavoro di quei dipendenti prossimi alla pensione e, insieme, raggiungere le quote di esuberi introdotte con le leggi recenti, su tutte la spending review 2012 di montiana memoria.

Ha trovato quindi tutte le regole applicative la procedura di esodo incentivato di lavoratori dipendenti prevista dalla legge 92/2012, che può essere usata da qualsiasi datore di lavoro con più di 15 dipendenti. Il ministero del Lavoro ha diffuso infatti le circolari 24/2013 e 33/2013, alle quali l'Inps ha fatto seguire la circolare 119 del 1° agosto 2013. A questo punto, le imprese hanno la concreta possibilità di valutare se sia conveniente sostenere il costo di un sostanziale pensionamento anticipato dei lavoratori più anziani, dirigenti compresi.

L'esodo incentivato può essere utilizzato nel quadro di una ristrutturazione aziendale coerente con l'obiettivo di concentrare l'attività in particolari settori. O ancora, nel medio termine, può rendere possibile, attraverso un ricambio generazionale, un più efficace utilizzo del personale.

Una serie di accordi collettivi tra le parti produce la cessazione del rapporto per i lavoratori che matureranno i requisiti minimi di pensione entro 48 mesi. Questi lavoratori, a partire dal mese successivo all'ultima retribuzione e fino alla data della pensione, riceveranno dall'Inps, ma con onere a carico del datore di lavoro, una indennità mensile e l'accredito della contribuzione figurativa fino alla data della pensione. Al maturare della pensione, la persona interessata incasserà una rata di pensione che rispetto alla prestazione prima a carico del datore di lavoro, risulterà più alta, per i contributi figurativi accreditati nel frattempo.

Il primo passo da fare, per le aziende, è la stesura degli accordi. Questi possono essere di tre tipi.

Il datore di lavoro può trovare un'intesa preliminare con le maggiori sigle sindacali aziendali per operai, impiegati e quadri, ovvero per il personale dirigente, con uno dei sindacati che hanno firmato il Ccnl. Questi due tipi di accordi sulla riduzione del personale sono la premessa dell'accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore, con cui si ha la risoluzione consensuale del contratto di lavoro e l'esodo volontario del lavoratore dipendente. Se un lavoratore decide di non firmare o non ha i requisiti di pensionabilità, l'accordo collettivo è senza effetto nei suoi confronti, ma resta valido per i lavoratori aderenti.

Il terzo tipo di accordo, che dà luogo a un esodo obbligatorio, è inserito nella procedura di licenziamento collettivo con le regole della mobilità, in base agli articoli 4 e 24 della legge 223/91. Questa procedura seguirà il suo iter naturale, con l'unica differenza che il licenziamento non darà luogo alla mobilità, ma alla corresponsione della prestazione di importo pari al trattamento di pensione maturato fino a quel momento. Va segnalato, tra l'altro, che se il singolo lavoratore non ha i requisiti di pensionabilità, l'accordo ex mobilità, che in teoria dovrebbe decadere, resta in vita per quanti sono in possesso dei requisiti (si esprime in questo senso la circolare del ministero del Lavoro 33/2013). L'incentivo all'esodo risulta alternativo anche all' Aspi e il datore di lavoro, già soggetto all'onere dell'esodo, non deve versare all'Inps il contributo di licenziamento.

L'incentivo è composto da due parti. La prima è quella che la legge e le circolari chiamano «prestazione»: sul piano fiscale, è una indennità sostitutiva della retribuzione che viene meno per la cessazione del rapporto di lavoro. Come tale, questa prestazione ha natura retributiva ed è soggetta a tassazione ordinaria (in base all'articolo 2, comma 6 del Tuir); non è reversibile, ma genera una pensione indiretta per i superstiti. Di fatto, invece, la «prestazione» è una pensione anticipata, perché il suo ammontare è pari al trattamento di pensione che sarebbe maturato alla data di cessazione del rapporto di lavoro. La seconda componente dell'incentivo all'esodo è la contribuzione figurativa che il datore di lavoro, mese per mese e fino alla data in cui l'esodato consegue i requisiti minimi di pensione, versa all'Inps o al Fondo previdenziale di appartenenza. La base imponibile sulla quale sono calcolati i contributi, in base all'aliquota contributiva prevista (il 33%), è la media delle retribuzioni mensili degli ultimi due anni prima della cessazione del rapporto di lavoro: il calcolo considera gli elementi continuativi e non continuativi e le mensilità aggiuntive.

Le indicazioni della spending review sul personale in sovrannumero negli enti pubblici specificavano che il 20% dei dirigenti e il 10% del personale andasse inserito nelle liste in eccesso, alle quali potevano essere riconosciuti i vecchi requisiti in termini di età pensionabile.
La data limite di questo adempimento, era fissata, per tutti coloro che rientrassero nel computo del personale in oggetto, al 31 dicembre 2014. C’è, però, un aspetto da tenere in considerazione: quello della finestra di 12 mesi, che rende possibile il rinvio alla fine del 2014.
Secondo il decreto precari nella pubblica amministrazione, dunque, l’obbligo per gli enti in grado di dare vita ai piani di allontanamento dei lavoratori più longevi, è quello del licenziamento dei diretti interessati che siano in possesso dei requisiti ante riforma Fornero entro la fine, appunto, del 2014.

Un altro aspetto innovativo del decreto precari, in riferimento ai prepensionamenti, riguarda l’applicazione dei minimi per accedere alla pensione – sempre pre riforma – a coloro che avessero le credenziali in regola al 31 dicembre 2011.

mercoledì 27 marzo 2013

Licenziamento del lavoratore possibilità al trasferimento o al tempo parziale

Rispetto rigoroso della tempistica, esatta individuazione dei requisiti dimensionali dell'azienda, definizione del perimetro del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva. Senza dimenticare l'obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1 gennaio 2013, che va versato a prescindere dall'esito della conciliazione.

A parte i passaggi previsti dalla conciliazione obbligatoria, bisogna considerare con attenzione anche i diversi effetti che questa produce sul rapporto di lavoro, a seconda dell'esito finale.

Il datore di lavoro può avanzare la procedura del licenziamento del lavoratore se il tentativo di conciliazione viene meno perché le parti non hanno trovato un accordo, perché si è verificato l'abbandono o l'assenza di una di esse, oppure se la convocazione da parte della Direzione Territoriale del lavoro (Dtl ) non è arrivata nei termini previsti: in queste ipotesi, la cessazione del rapporto ha effetto dal giorno della comunicazione alla Dtl con cui il procedimento è stato avviato (individuata nella data di ricezione della comunicazione da parte dell'ufficio), fatti salvi il diritto al periodo di preavviso – se il lavoratore non ha continuato a lavorare, durante la procedura – oppure, in alternativa, all'indennità sostitutiva in favore del lavoratore.

In alcuni casi, come quello di un periodo contrattuale di preavviso breve, si pone il problema di computare a questo titolo soltanto una parte dei giorni lavorati.

Per evitare eccessi, la riforma del lavoro ha previsto che eventuali malattie insorte dopo la comunicazione di avvio non producano alcuna sospensione del licenziamento, mentre restano validi gli effetti sospensivi previsti dalle norme a tutela della maternità e della paternità e in caso di impedimento derivante da un infortunio sul lavoro.

Viceversa, nell'ipotesi di esito positivo della conciliazione, le soluzioni alternative al licenziamento possono essere diverse: si pensi, ad esempio al trasferimento del lavoratore, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno tempo parziale.
I contenuti dell'accordo sono verbalizzati dalla commissione di conciliazione, e acquistano un valore incontestabile.

Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, invece, la Dtl ne dà sempre atto con un verbale e resta escluso l'obbligo di convalida – previsto dall'articolo 4, comma 17, della legge 92/2012 – davanti a uno degli organismi abilitati. Inoltre, in deroga alla disciplina ordinaria, il lavoratore può accedere all'Aspi ed essere affidato a un'agenzia del lavoro per la ricollocazione.

Sugli adempimenti operativi che riguardano la comunicazione obbligatoria del licenziamento ai servizi per l'impiego, che in via ordinaria deve essere effettuata nei cinque giorni successivi al recesso, il ministero del Lavoro (con la nota 18273 del 12 ottobre 2012) ha già chiarito che il termine di riferimento decorre dalla conclusione della procedura di conciliazione: vale a dire dalla data di effettiva risoluzione del rapporto, e non dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, che la legge 92/2012 individua come «data legale» e dalla quale si producono gli effetti del licenziamento.

Ricordaiamo che, in caso di omissione della comunicazione obbligatoria, è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro, con un importo che va da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro.

domenica 17 marzo 2013

Licenziamento sentenze della Cassazione del 2013


Con la nuova riforma del lavoro la certezza è una sola: non esiste una strada sola per le istanze di reintegro nel posto di lavoro. A fare da esempio, c'è la vertenza che riguardava un lavoratore addetto a un appalto, poi improvvisamente cessato. Quel che più conta, però, è che, nel caso esaminato, il ritorno sul posto di lavoro non è stato interpretato come diretta conseguenza del sollevamento incongruo dall’incarico.

Esclusa, per il soggetto coinvolto, anche la possibilità di vedersi collocato ad altra mansione o funzione sempre nello stesso ambiente di lavoro.
Qualora un caso simile fosse pervenuto all’attenzione del Tribunale prima dello scorso 18 luglio, quando, cioè, è diventata legge dello Stato la riforma Fornero, l’esito del procedimento sarebbe stato opposto. Dunque, anche qualora l’autorità giudiziaria ravvisi l’illiceità dell’interruzione del rapporto di lavoro, non è automatico che a questa sentenza consegua il ritorno all’occupazione precedentemente svolta o a una affine.

Ne consegue che il diritto al reintegro non vada in alcun modo collegato alla legittimità o meno dell’atto di licenziamento, poiché viene inteso come collegato, ma non corrispondente, alla decisione di interruzione del rapporto di lavoro. Infatti, non è un caso che il datore di lavoro sia stato condannato, in chiusura di dibattimento, al risarcimento del lavoratore, ma non alla sua riassunzione completa. Quindi, il panorama sviluppatosi con la legge Fornero è molto, forse troppo, variegato e scivoloso: saranno le situazioni contingenti a determinare il diritto al reintegro o meno del lavoratore ingiustamente licenziato che ha sporto ricorso. Questo è uno scenario che porta sempre più incertezza sulla posizione occupazionale di moltissimi dipendenti, anche nel caso si rivolgano al giudice essendo certi di spuntarla contro il datore di lavoro.

Comunque la riforma del mercato del lavoro potrebbe riportare in primo piano la figura del licenziamento discriminatorio, anche se – alla luce degli orientamenti della giurisprudenza – non sarà facile per un lavoratore dimostrare di esserne stato vittima. La legge 92/2012 ha modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, incidendo sui licenziamenti disciplinari e su quelli per motivi economici, ma ha sostanzialmente lasciato immutata la disciplina dei licenziamenti discriminatori.

Mentre la risoluzione del rapporto basata su motivi disciplinari o economici, se ritenuta illegittima, può essere oggi sanzionata, in alcuni casi, con il solo indennizzo economico, in luogo della reintegrazione sul posto di lavoro, l'illegittimità del licenziamento discriminatorio continua a prevedere come sanzione la reintegrazione del lavoratore in azienda.

Con la sentenza 3547 del 7 marzo 2012, la Cassazione ha affermato che il licenziamento del dirigente può essere considerato arbitrario solo quando si dimostra pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà. In pratica, se il licenziamento è collegato a un effettivo processo di riorganizzazione del settore aziendale, la motivazione risulterà lecita e obiettivamente verificabile, escludendo in questo modo l'arbitrarietà del provvedimento espulsivo. Di diverso avviso la tesi del ricorrente, secondo cui la soppressione dell'area di responsabilità non rientrava in precise scelte organizzative ma era dettata da intenti ritorsivi o discriminatori.

Ricordiamo inoltre che in un'altra vicenda giuridica la Cassazione ha dato ragione al direttore provinciale di una confederazione e consigliere di amministrazione di una società controllata dalla stessa confederazione. Il lavoratore sosteneva di essere stato licenziato per volontà del presidente in conseguenza del proprio rifiuto di sottoscrivere il bilancio aziendale e di aver espresso un fermo rifiuto sul distacco di alcuni dipendenti della federazione presso la società controllata, poiché si sarebbe potuta ravvisare l'ipotesi di somministrazione di manodopera vietata. La Cassazione, con la sentenza 2958 del 27 febbraio 2012, ha confermato la pronuncia di merito ritenendo che l'assunto difensivo fosse adeguatamente motivato. Infatti, da un lato c'erano indici di ritorsione nei confronti del dipendente, dall'altro era mancato un riscontro fattuale del motivo economico posto alla base del licenziamento per riduzione dei costi ingenti legati alla posizione lavorativa del direttore.

Altra sentenza. Niente licenziamento se il lavoratore è costretto all'inattività. E' quanto ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1693 depositata il 24 gennaio 2013. Un dipendente di un'azienda telefonica denunciava di aver subito una dequalificazione professionale giungendo alla totale inattività lavorativa. La ditta aveva privato quasi completamente il dipendente delle sue mansioni, fino a licenziarlo per giusta causa per mancata osservanza dell'orario di lavoro. Il tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno e rigettava quella sull'illegittimità del licenziamento. In appello, invece, la corte disponeva la reintegra del lavoratore e gli riconosceva il risarcimento del danno. In sostanza, l'inattività forzosa  del lavoro voluta dall'azienda ha contribuito a determinare l'inadempimento del lavoratore, ridimensionando la gravità delle mancanze imputategli. La società sosteneva che per il datore di lavoro esiste solo l'obbligo di retribuire il proprio dipendente, non anche quello di farlo lavorare, e che se il datore di lavoro provvede al regolare pagamento della retribuzione il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione.

La Cassazione ha affermato che il rifiuto del lavoratore subordinato di svolgere la propria prestazione lavorativa (mansioni inferiori) può essere legittimo, e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive, se il rifiuto è proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (Cassazione n. 4060/2008). L'interesse aziendale all'esecuzione della prestazione è venuto meno nella misura in cui il comportamento del dipendente di non osservare l'orario di lavoro è stato tollerato dalla società che non ha contestato immediatamente con sanzioni di carattere disciplinare. L'inattività forzata del lavoratore non solo non giustificherà il licenziamento ma sarà anche fonte dell'obbligo di risarcimento del danno in capo al datore di lavoro.

La Cassazione civile, sezione lavoro con la sentenza 4197 del 20 febbraio 2013 ha stabilito che è illegittimo il licenziamento per abbandono del posto di lavoro se il codice disciplinare aziendale richiede, per rendere lecito l'atto del datore di lavoro, una condizione in più, vale a dire che il comportamento del lavoratore abbia determinato un danno o pericolo all'azienda o a persone.

Il caso riguarda un dipendente di una società cooperativa, che, durante l'attività lavorativa, lascia, improvvisamente, il posto di lavoro, esce dall'azienda e viene, di conseguenza, licenziato. Il lavoratore impugna l'atto del datore di lavoro di fronte al giudice sostenendo, a sua giustificazione, di essersi dovuto recare in ospedale per rimuovere un corpo estraneo dall'occhio e, comunque, di avere comunicato l'uscita al proprio superiore. Il tribunale dà ragione alla società e conferma il licenziamento. Il dipendente licenziato si rivolge alla Corte d'appello, che rovescia la decisione di primo grado, ritenendo illegittimo il licenziamento: secondo i giudici, il lavoratore era ricorso, effettivamente, a cure mediche, aveva segnalato il suo allontanamento al suo superiore e non aveva determinato, con la sua condotta, né interruzione nel ciclo produttivo aziendale né, come richiesto per la liceità del licenziamento dalla specifica regolamentazione aziendale, danno o pericolo a cose o a persone.

La Cassazione riconosce, che si era verificato un infortunio sul lavoro, avvalorando così le affermazioni del lavoratore circa l'esistenza di una situazione di emergenza. In secondo luogo, la Corte d'appello ha tenuto presente il principio in base al quale un licenziamento è giustificato solo se la condotta del lavoratore fa venir meno la fiducia del datore nell'esattezza delle future prestazioni.

sabato 16 febbraio 2013

Ministero del Lavoro la circolare n. 3 del 2013 sul Tfr e retribuzione


Il tentativo obbligatorio di conciliazione può allargare la propria efficacia fino a diventare una sorta di accordo "omnibus": trattandosi infatti di una procedura a carattere conciliativo, il ministero del Lavoro ha precisato nella circolare 3/2013 che in questa intesa è possibile comprendere altre questioni di natura economica inerenti al rapporto di lavoro come, ad esempio, le differenze retributive, le ore di lavoro straordinario o il trattamento di fine rapporto.

Quindi sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva (articolo 7 della legge 604/1966, modificato dalla legge Fornero 92/2012, articolo 1, comma 40). Senza dimenticare l'obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1° gennaio scorso, che va versato a prescindere dall'esito della conciliazione, salvo le ipotesi – in via transitoria fino al 2015 – di licenziamento per cambio appalto e chiusura cantiere in edilizia. Le imprese e la casistica. La conciliazione preventiva è un vero e proprio percorso a tappe.

Obbligatorio per i datori di lavoro che occupano più di 15 lavoratori (in base alla legge 300/1970) e che effettuano licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, vale a dire per motivi inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro. Il Ministero del Lavoro ha precisato che il calcolo della base numerica – per il rispetto della disposizione – deve essere effettuato tenendo conto della media dei lavoratori occupati negli ultimi sei mesi, secondo i consolidati indirizzi della giurisprudenza in materia. Il computo dell'organico deve essere depurato dalle tipologie contrattuali escluse per effetto di disposizioni legislative ad hoc, come i rapporti di apprendistato, i lavoratori somministrati, e così via.

Rientrano invece nel conteggio i lavoratori a tempo parziale, "pro-quota" rispetto all'orario normale contrattuale, così come i lavoratori intermittenti.

Con riferimento alle ipotesi di recesso, la circolare ha precisato che, oltre alle ipotesi per legge  di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rientrano nell'obbligo di conciliazione anche i licenziamenti intimati per inidoneità fisica, per impossibilità di ripristino (destinazione del lavoratore ad altre mansioni), per chiusura di cantiere in edilizia e quelli conseguenti a provvedimenti di natura amministrativa (si pensi al ritiro del porto d'armi per una guardia giurata).

La procedura si sviluppa in tre fasi  per intraprendere la conciliazione:

il datore di lavoro deve trasmettere alla Direzione Territoriale del Lavoro DTL competente per territorio (in base al luogo di attività del dipendente), e per conoscenza al lavoratore, una comunicazione in cui manifesta la volontà di intimare il licenziamento e indica i motivi alla base di questa scelta;

quando la Dtl riceve la comunicazione, la procedura si intende avviata, e la convocazione delle parti avviene entro il termine perentorio di sette giorni;

entro 20 giorni da questa convocazione, la conciliazione deve concludersi (salvo il caso di sospensione o richiesta delle parti).

Fatte salve le eccezioni per l'edilizia indicate in precedenza, qualunque sia l'esito della procedura – recesso o risoluzione consensuale del rapporto – il datore di lavoro è tenuto a versare all'Inps il ticket sui licenziamenti introdotto dalla riforma per finanziare l'Aspi (articolo 2, comma 31 della legge 92/2012): ora il ticket può arrivare fino a 1.376 euro, ma si attende ancora la rivalutazione per il 2013.

Se la conciliazione sfocia in un accordo di risoluzione consensuale, il lavoratore potrà fruire dell'Aspi solo se ha i requisiti previsti: in questa ipotesi, il sussidio va corrisposto anche per le risoluzioni avvenute dal 18 luglio 2012 (messaggio Inps n. 20830/2012).

Un'altra criticità potrebbe derivare dalla gestione della "sospensione" del rapporto durante la procedura, fino alla sua cessazione: se il lavoratore ha continuato a prestare la propria attività, questo periodo deve essere considerato come preavviso lavorato, anche nei casi in cui il relativo periodo disposto dal Ccnl è inferiore alla durata del procedimento di conciliazione. Una stortura a cui il datore di lavoro potrebbe ovviare specificando nella comunicazione di avvio della procedura che la prestazione lavorativa non è richiesta e impegnandosi a corrispondere l'indennità di mancato preavviso.

È giusto sottolineare l'importanza che durante la procedura sia osservato con cura: la motivazione del licenziamento è rimessa alla valutazione del datore di lavoro, ma il recesso intimato in violazione degli obblighi sulla conciliazione è inefficace, con l'applicazione di un'indennità risarcitoria a favore del lavoratore, che il giudice può determinare tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità.

Il difetto di motivazione potrebbe portare a conseguenze sanzionatorie ben più pesanti nel momento in cui, in caso di contenzioso giudiziale, il licenziamento fosse classificato in ipotesi diverse da quella del giustificato motivo oggettivo. La mancata attivazione della conciliazione obbligatoria può comunque essere sanata se le parti intendono attivare una conciliazione in sede sindacale dopo il licenziamento: in questa ipotesi, il recesso dà luogo all'Aspi.
In queste ipotesi, il lavoratore deve essere pienamente consapevole della definitività e inoppugnabilità dell'intesa che andrà a sottoscrivere (in base all'articolo 410 del Codice di procedura civile): la commissione di conciliazione, nel caso vi siano somme corrisposte a vario titolo, dovrà evidenziare separatamente quelle finalizzate all'accettazione del licenziamento.

Per quanto riguarda gli aspetti di natura fiscale e contributiva legati alla transazione, costituiscono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da titoli che hanno a oggetto la prestazione lavorativa.

Nel caso di fallimento della procedura presso la Dtl, le parti possono ancora tentare altre vie per scongiurare il contenzioso giudiziale: ad esempio, attivando la conciliazione facoltativa in sede sindacale o affidando la controversia a un collegio arbitrale irrituale, come previsto dal collegato lavoro (legge 183/2010).

Nella prima ipotesi, l'accordo tra le parti è solitamente già stato raggiunto e la conciliazione serve a definire il verbale conciliativo: questo deve essere sottoscritto dal datore di lavoro, dal lavoratore e dai rappresentanti sindacali che hanno assistito le parti.

L'importanza della sottoscrizione, anche da parte del sindacato, è evidenziata da una sentenza della Cassazione (n. 13910/1999): per la Corte, il regime di inoppugnabilità (secondo gli articoli 410 e 411 del Codice di procedura civile) delle rinunzie e delle transazioni relative a diritti inderogabili dei lavoratori (articolo 2113 del Codice civile) presuppone che la conciliazione sia caratterizzata dall'intervento di un soggetto «terzo», ritenuto idoneo a tutelare il lavoratore nel momento in cui effettua la rinuncia o la transazione.

Una volta sottoscritto, il verbale in sede sindacale è depositato presso la Dtl a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale e poi nella cancelleria del tribunale per essere dichiarato esecutivo.

Nel secondo caso, la controversia può invece essere risolta attraverso un collegio arbitrale irrituale composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente.

La parte che intenda avvalersi di questa procedura deve notificare un ricorso sottoscritto e diretto alla controparte. Se quest'ultima accetta, nomina a sua volta il proprio arbitro di parte per proseguire nell'iter della conciliazione.

Anche i contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative, possono prevedere commissioni "ad hoc" alle quali i datori di lavoro o i lavoratori possono affidare la risoluzione della vertenza lavorativa.
 

domenica 13 gennaio 2013

Costa Crociere può ricorrere al rito abbreviato della legge Fornero per licenziare Schettino


Ad un anno dallo schianto tragico della Concordia il giudice del lavoro annuncia che la Costa può ricorrere al rito abbreviato per licenziare Schettino.

La Costa può ricorrere al rito Fornero per legittimare il licenziamento per giusta causa del comandante Francesco Schettino. La decisione – contestata dal legale del capitano, Rosario D'Orazio – è stata presa dal presidente della sezione Lavoro del tribunale di Genova Ravera. Si sdoppia, quindi, il procedimento sulla posizione lavorativa di capitan Schettino, allontanato dalla compagnia di navigazione per "violazione delle norme" e del cosiddetto "minimum etico", in relazione ai comportamenti contestati al comandante dopo il naufragio della Concordia abbandono della nave, ritardo nei soccorsi ed altro.

A Genova, dunque, resta il procedimento avviato dalla società; a Torre Annunziata, invece, resiste quello intrapreso dallo stesso Schettino per impugnare il provvedimento di licenziamento e chiedere il reintegro. La posizione difensiva del comandante si basa, in parte, anche sulle risultanze investigative della procura di Grosseto che avrebbero riscontrato un errore, da parte del timoniere, nell'esecuzione degli ordini di disimpegno della nave poco prima dell'impatto contro gli scogli dell'isola del Giglio. La prossima udienza nel capoluogo ligure si terrà a marzo, quando le parti approfondiranno le rispettive posizioni. A Torre Annunziata, invece, l'appuntamento è per fine mese. Resta, a questo punto, solo da capire chi dei due fori sarà competente per la decisione finale.

La Costa lo aveva allontanato per "violazione delle norme" e del cosiddetto "minimum etico", in relazione ai comportamenti contestati al comandante dopo il naufragio della Concordia.

Il giudice ha fissato in 20 giorni il tempo per rispondere alle eccezioni sollevate dalla difesa di Schettino. La prossima udienza nel capoluogo ligure si terrà il 14  marzo. A Torre Annunziata, invece, l'appuntamento è per fine mese.
In sostanza, il "rito Fornero" prevede tempi rapidi per il giudizio ed è stato concepito per aiutare i dipendenti licenziati. In questo caso però la Costa, datore di lavoro, se ne avvale per corroborare la pratica di licenziamento già decisa in azienda.

"Ora c'è un imbarazzo per Costa Crociere – sostiene il legale- perché la compagnia si trova con un duplice procedimento attivo e quindi sicuramente uno dei due non potrà gestirlo. In parole semplici c'è un conflitto interno tra il suo rito speciale e il suo rito ordinario. L'unica certezza che c'è in questo momento è che non si possa procedere con entrambi i riti. Vediamo ora cosa deciderà il giudice di Torre Annunziata il 30 gennaio e cosa decideranno anche gli avvocati delle parti perchè il giudice di Genova ha ritenuto ammissibile anche la mia difesa e quindi il mio attacco nei confronti di Costa Crociere".

Per una parte, la posizione difensiva del comandante si basa sulle risultanze investigative della procura di Grosseto che avrebbero riscontrato un errore, da parte del timoniere, nell'esecuzione degli ordini di disimpegno della nave poco prima dell'impatto contro gli scogli dell'isola del Giglio.

mercoledì 31 ottobre 2012

Lavoro: buonuscita per il licenziamento a chi si rivolge e modalità del tfr

Il trattamento di fine rapporto, buonuscita, è la somma che spetta al lavoratore dipendente al termine del lavoro in azienda. Il TFR è un'indennità di carattere assicurativo, un risparmio forzoso.

Iniziamo con dire che l’indennità di buonuscita è una somma di denaro corrisposta al lavoratore quando termina il servizio. E si rivolge ai lavoratori iscritti al fondo di previdenza per i dipendenti civili e militari dello Stato gestito dall’Inps Gestione ex Inpdap, assunti con contratto a tempo indeterminato entro il 31 dicembre 2000, che hanno risolto, per qualunque causa, il rapporto di lavoro e quello previdenziale con l’Inps Gestione ex Inpdap con almeno un anno di iscrizione.

Per il personale assunto con contratto a tempo indeterminato dopo il 31 dicembre 2000 trova applicazione, la disciplina del trattamento di fine rapporto (Tfr), con esclusione del personale non contrattualizzato (ad esempio: militari, docenti e ricercatori universitari, ecc.) per il quale continua ad applicarsi la disciplina dell’indennità di buonuscita anche se assunti successivamente a tale data.

A partire dalle anzianità maturate a decorrere dal 1° gennaio 2011, l’importo della prestazione è calcolato in due quote:

la prima quota si calcola in base all’anzianità maturata fino al 31 dicembre 2010 ed è pari a tanti dodicesimi dell’80% della retribuzione annua lorda percepita al momento del collocamento a riposo comprensiva della tredicesima mensilità, per quanti sono gli anni utili. Si considera come anno intero la frazione di anno superiore a sei mesi. (decreto del Presidente della Repubblica 1032 del 29 dicembre 1973 e successive integrazioni e modificazioni);

la seconda quota si calcola in base all’anzianità maturata dal 1° gennaio 2011 ed è determinata dall’accantonamento di una quota pari al 6,91% della retribuzione contributiva annua e dalle relative rivalutazioni, per ogni anno di servizio. Le frazioni dell’ultimo anno di servizio sono proporzionalmente ridotte e l’aliquota del 6,91 per cento sarà applicata alla retribuzione contributiva mensile in base alla retribuzione utile mensile. Si considera come mese intero la frazione di mese uguale o superiore a 15 giorni.

Il TFR si calcola sommando, per ciascun anno intero di servizio, e/o mesi, una quota pari e, comunque, non superiore all'importo della retribuzione dovuta, divisa per 13,5.

L’indennità può pertanto essere quindi percepita:
in una sola rata, per importi complessivi lordi non superiori ai 90.000 euro;

in due rate se la cifra, sempre complessiva lorda, sia tra i 90.000 euro e i 149.999, nel qual caso ad una rata da 90.000 ne seguirà una seconda dopo 12 mesi, con la parte restante del trattamento;

in tre rate infine se la buonuscita per il licenziamento è uguale o superiore ai 150.000 euro; per quest’ultima tipologia la prima rata è sempre da 90.000 euro, la seconda è di 60.000 e si percepisce a distanza di 12 mesi, mentre la terza (ad altri 12 mesi dall’ultima) contiene la parte mancante.

E’ bene ricordare  che la buonuscita per il licenziamento non è suddivisibile per rate qualora il rapporto di lavoro si sia concluso, per la presentazione delle dimissioni o il raggiungimento della massima età, entro il 30 Novembre 2010.

Vediamo le modalità di pagamento, in particolare, la norma dispone che l’indennità sia corrisposta:
in unico importo se l’ammontare complessivo lordo è pari o inferiore a 90.000 euro;

in due importi se l’ammontare complessivo lordo è superiore a 90.000 euro ma inferiore a 150.000 euro. In questo caso la prima somma da liquidare è pari a 90.000 euro e la seconda è pari all’importo residuo. La
seconda somma verrà corrisposta dopo 12 mesi dalla decorrenza del diritto al pagamento;

in tre importi se l’ammontare complessivo lordo è uguale o superiore a 150.000 euro. In questo caso la prima somma da liquidare è pari a 90.000 euro, la seconda è pari a 60.000 euro e la terza è pari all’importo residuo. La seconda e la terza somma saranno pagate rispettivamente dopo 12 e 24 mesi dalla decorrenza del diritto al pagamento.

lunedì 23 luglio 2012

Lavoro: il trasferimento in azienda deve essere motivato

Il trasferimento che comporta dequalificazione professionale. Non è sanzionabile con il licenziamento per giusta causa il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa dovuta a causa della ritenuta dequalificazione. A precisarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4709 del 23 marzo del 2012.

E’ bene ricordare che  l’art. 2103 c.c. dispone che il trasferimento possa essere attuato solo in presenza di "comprovate ragioni tecniche organizzative o produttive".
Quindi lavoratore dipendente può essere trasferito solo a condizione che il datore di lavoro possa dimostrare:

l'inutilità di tale dipendente nella sede di provenienza;

la necessità della presenza di quel dipendente, con la sua particolare professionalità, nella sede di
destinazione;

la serietà delle ragioni che hanno fatto cadere la scelta proprio su quel dipendente e non su altri colleghi che svolgano analoghe mansioni.

Queste ragioni debbono essere portate a conoscenza del dipendente per iscritto, prima del trasferimento. Se la lettera non contiene l'indicazione delle ragioni è però necessario che il dipendente le richieda espressamente.

In mancanza delle condizioni sopra esposte, il trasferimento è illegittimo e può essere annullato dal pretore del lavoro, a cui l’interessato deve rivolgersi se ritiene che il provvedimento sia illegittimo.
Il trasferimento presuppone che, nonostante la modifica del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, resti invariato il datore di lavoro.

Resta chiaro dopo la sentenza n. 4709 che, il lavoratore può rifiutare di prestare la propria prestazione di lavoro se il provvedimento di trasferimento non è adeguatamente motivato.

La vicenda vede coinvolto un impiegato addetto all'ufficio commerciale che era stato trasferito ad altro stabilimento con la nuova qualifica di responsabile del magazzino materie prime. Il dipendente aveva aderito al trasferimento ma dopo un breve periodo di lavoro presso la nuova sede, si era messo a disposizione dell'azienda presso la propria abitazione.

L’azienda aveva contestato l’assenza ingiustificata e gli aveva quindi comunicato il licenziamento per giusta causa. Ad avviso del ricorrente il trasferimento ed il conseguente licenziamento erano da ritenersi illegittimi, considerato che il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti era del tutto giustificato, anche in considerazione della palese inconsistenza delle dedotte esigenze di riorganizzazione della gestione del magazzino.

Nei fatti, tuttavia, il dipendente aveva aderito al trasferimento ma dopo un breve periodo di lavoro presso la nuova sede, si era messo a disposizione dell'azienda presso la propria abitazione.

Ad avviso del ricorrente il trasferimento ed il conseguente licenziamento erano da ritenersi illegittimi, considerato che il rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti era del tutto giustificato, anche in considerazione della palese inconsistenza delle dedotte esigenze di riorganizzazione della gestione del magazzino.

La sentenza ha ricordato la pronuncia n. 43 del 2007 sul trasferimento di dipendente divenuto invalido che non poteva più essere adibito alla sede originaria. La Cassazione aveva precisato che nella valutazione comparativa dei presunti inadempimenti reciproci, non si può prescindere dalla doverosa considerazione per cui il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa, se il datore di lavoro assolve a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro).

La Corte, nel fare riferimento all'art. 2103 del codice civile, sottolinea come il datore di lavoro abbia l'onere di provare in giudizio le ragioni fondate che hanno determinato il trasferimento, dimostrando le reali ragioni che giustificano il provvedimento. In assenza di ciò, il licenziamento viene annullato.

lunedì 2 luglio 2012

Riforma del lavoro 2012. ASPI


Ogni tipo di tutela della disoccupazione confluirà nell'Assicurazione Sociale per l'Impiego (Aspi), con il graduale superamento dell'indennizzato di mobilità .La nuova assicurazione sociale per l'impiego parte nel 2013 e sostituirà a regime, nel 2017, l'indennità di mobilità e le varie indennità di disoccupazione. Ne potranno usufruire oltre i lavoratori dipendenti anche gli apprendisti e gli artisti.

La contribuzione è estesa a tutti i lavoratori che rientrino nell'ambito di applicazione dell'indennità. L'aliquota sarà gravata di un ulteriore 1,4% per i lavoratori a termine. Sarà possibile trasformare l'indennità Aspi in liquidazione per poter così avere un capitale e avviare un'impresa. Il lavoratore che però rifiuta un impiego con una retribuzione superiore almeno del 20% rispetto all'indennità che percepisce perde il sussidio. I requisiti per l'accesso sono: anzianità di almeno de anni e 52 settimane di contribuzione nell'ultimo biennio.
L'Aspi durerà in relazione all'età dei lavoratori interessati da nuovi eventi di disoccupazione involontaria verificatisi a decorrere dal 1º gennaio 2016, prevedendo un periodo massimo di fruizione pari a 12 mesi per i lavoratori con età inferiore a 55 anni e di 18 mesi per quelli con età maggiore di 55 anni. L'importo massimo sarà di euro 1.119,32.
La mini-Aspi, è volta ad assicurare, dal 1° gennaio 2013, i lavoratori che non abbiano i requisiti per la fruizione dell'Aspi. La mini-Aspi va a sostituire l'indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione. In particolare, la mini-Aspi può essere concessa in presenza di almeno 13 settimane di contribuzione di attività lavorativa negli ultimi dodici mesi, e consiste in un'indennità di pari importo dell'Aspi.

L'Aspi: spetta dall'ottavo giorno successivo alla data di cessazione dell'ultimo rapporto di lavoro, o dal giorno successivo a quello in cui sia stata presentata la relativa domanda, a condizione che permanga la condizione di disoccupazione. La liquidazione dell'indennità avviene, a pena di decadenza, dietro presentazione, da parte dei lavoratori aventi diritto di un'apposita domanda, da inviare all'Inps esclusivamente in via telematica, entro due mesi dalla data di spettanza del trattamento. La fruizione dell'indennità è comunque condizionata alla permanenza dello stato di disoccupazione.

Riforma del lavoro 2012. Licenziamento collettivo


Qui il riferimento principale era e resta la legge 223 del 23 luglio 1991, che riguarda le norme su cassa integrazione e mobilità, e che si riferiscono solo alle aziende sopra i 15 dipendenti. Un licenziamento è collettivo se riguarda almeno cinque dipendenti. A questa norma vengono apportare una serie di modifiche.

Le procedure di messa in mobilità (che si chiama ma procedura di licenziamento collettivo) vanno comunicato all’ufficio del lavoro entro sette giorni (e non più contestualmente) dalla comunicazione scritta ai lavoratori che, al termine del relativo accordo sindacale, sono interessati ai relativi provvedimenti. Gli eventuali vizi di forma, che prima rendevano nulle le procedure di messa in mobilità, possono essere sanate con accordi sindacali.
Se però il provvedimento non viene comunicato in forma scritta o comunque i vizi di forma non vengono sanati da accordi, si prevede il reintegro ex articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Stesso discorso nel caso in cui non vengano rispettati i criteri di scelta dei lavoratori da mettere in mobilità (come previsti dall’articolo 5 della legge 223/1991).

Tutto questo non riguarda le aziende sotto i 15 dipendenti, in cui non c’è una disciplina specifica sui licenziamenti collettivi visto che sono comunque possibili i licenziamenti individuali.

In caso di recesso intimato violando i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità (elencati dall'articolo 5 della legge 223 del 1991), si applica la tutela reale prevista dal nuovo testo dell'articolo 18, comma 4, della legge 300 del 1970 (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e una indennità commisurata all'ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilità). Infine, si prevede che in tali ipotesi, ai fini dell'impugnazione dei licenziamenti, trovino applicazione le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 604/1966 (prevede che il licenziamento debba essere impugnato con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare la volontà del lavoratore, entro 60 giorni dalla sua comunicazione per iscritto, e che nei successivi 270 giorni - che scendono a 180 giorni ai sensi del presente provvedimento - debba essere depositato il ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o debba essere comunicata alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione).

Va anche detto che la riforma del lavoro prevede poi una serie di cambiamenti sugli ammortizzatori sociali, compresa la mobilità, che entreranno in vigore fra il 2013 e il 2016.

venerdì 29 giugno 2012

Riforma del lavoro 2012. Licenziamenti nelle aziende sopra i 15 dipendenti






Per i licenziamenti disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) e per quelli economici (giustificato motivo oggettivo), nel caso in cui li ritenga illegittimi, il giudice può disporre il reintegro o un indennizzo fra le 12 e le 24 mensilità.

La norma specifica con una certa precisione in quali casi il giudice disporrà il reintegro e quando invece sceglierà il risarcimento.

Nei casi di licenziamenti disciplinari è previsto il reintegro quando «il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili».

Mentre, per i licenziamenti economici è previsto il reintegro quando il giudice accerti «la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo». Negli altri casi, è previsto un risarcimento economico, da 12 a 24 mensilità.

Nel caso del licenziamento disciplinare illegittimo, il giudice stabilirà l'ammontare del risarcimento «in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo».

Nel caso di licenziamento economico, la determinazione della somma tiene conto anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito delle procedure di conciliazione.

Per i casi in cui è previsto il reintegro, il datore di lavoro viene anche condannato a pagare un’indennità collegata alla retribuzione dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, «dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione». In ogni caso l’indennità non potrà essere superiore a dodici mensilità. Per il medesimo periodo vanno versati anche i contributi previdenziali e assistenziali, maggiorati degli interessi ma senza sanzioni.
Se il lavoratore ha svolto altre attività lavorative, l’azienda deve versare la differenza fra i contributi a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto nel caso in cui non fosse stato illegittimamente licenziato e quelli versati per l’attività nel frattempo svolta. Se i contributi sono stati versati a un diverso ente previdenziale, l’addebito dei costi di trasferimento è a carico del datore di lavoro.
Anche qui, il lavoratore deve tornare al lavoro a trenta giorni dal reintegro o dall’invito dell’azienda, pena la risoluzione del rapporto di lavoro, a meno che non abbia chiesto l’indennità sostitutiva (15 mensilità).

Fanno eccezione i casi in cui il giudice dispone il reintegro per mancanza di licenziamento in forma scritta, o per mancato rispetto delle varie procedure di comunicazione (in sostanza, quelle previste dall‘articolo 7 dello Statuto dei lavoratori o dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604). Qui, il risarcimento che l’azienda deve pagare insieme al reintegro è limitato a sei/dodici mensilità, a meno che non ci sia anche un vizio relativo alla causa del licenziamento, nel qual caso valgono le norme sopra citate.

Se il licenziamento è revocato entro quindici giorni, il lavoratore torna al suo posto e non si applica nessun’altra sanzione. Solo per i casi di licenziamento economico (giustificato motivo oggettivo), che sia obbligatoria una fase di conciliazione preventiva. Si tratta quindi di una norma che riguarda solo le aziende sopra i 15 dipendenti.

Nello specifico, questo tipo di licenziamento «deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro» in cui l’azienda deve «dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato».

Entro sette giorni da questa comunicazione la direzione del lavoro convoca le parti davanti alla Commissione provinciale di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile.

Si tratta di un tentativo di conciliazione stragiudiziale, durante il quale vengono valutate le soluzioni alternative al recesso, e che si conclude in venti giorni (a meno che le parti non vogliano continuare per raggiungere un accordo).

Se la conciliazione non si conclude positivamente, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento e il lavoratore può ricorrere al magistrato che nello stabilire l’indennizzo nel caso in cui ritenga effettivamente illegittimo il licenziamento, terrà conto della condotta delle parti in questa fase di conciliazione. Se il giudice alla fine ritiene il licenziamento legittimo il lavoratore non ha diritto al risarcimento che eventualmente la controparte aveva offerto in fase di conciliazione, e che era stato rifiutato.

Se la conciliazione si conclude positivamente, con la soluzione del rapporto di lavoro e con un accordo economico, il lavoratore mantiene il diritto all’assicurazione per l’impiego (la nuova Aspi) e può anche essere previsto, per favorirne la ricollocazione professionale, l’affidamento «ad un’agenzia di cui all’articolo 4, primo comma, lettere a) e b), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276».

Riforma del lavoro 2012. Licenziamenti aziende con meno di 15 dipendenti


Addio reintegro automatico in caso di licenziamento per motivi economici. Prevista in alcuni casi un'indennità risarcitoria. La procedura di conciliazione, obbligatoria in questo primo caso, non potrà più essere bloccata da una malattia «fittizia» del lavoratore. Uniche eccezioni saranno maternità o infortuni sul lavoro. La riforma del lavoro, così come disegnata dal ddl definitivo, modifica le norme sul licenziamento in Italia previste fino a oggi dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori reintroducendo il possibile reintegro per tutti i tipi di licenziamento illegittimo (a discrezione del giudice e solo in casi estremi). Ad esclusione per i licenziamenti discriminatori, le nuove norme sul reintegro si applicano solo alle aziende con più di 15 dipendenti.
Nelle piccole imprese sotto i 15 dipendenti le regole restano immutate.

Per quanto riguarda i ricorsi le norme restano le stesse:
il licenziamento individuale illegittimo è sanzionato con un’indennità fra 2,5 e 6 mensilità
il licenziamento discriminatorio è sanzionato con il reintegro, senza onere della prova a carico del lavoratore, perché è il giudice stabilire se il licenziamento è discriminatorio.
A stabilire ciò era e resta l’articolo 3 della legge  n° 108 del 1990, in base alla quale il licenziamento discriminatorio «é nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall‘articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300». E vale anche per i dirigenti.
La riforma del lavoro introduce come novità l’obbligo da parte di qualunque azienda di comunicare le motivazioni del licenziamento. E dovrà farlo per iscritto, in base all‘articolo 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti individuali.

Si tratta di un cambiamento rispetto a quanto previsto dall‘articolo 2 della stessa legge, secondo la quale il datore di lavoro doveva comunicare le motivazione del licenziamento solo se il lavoratore lo richiedeva: la richiesta doveva arrivare entro otto giorni dal provvedimento e l’impresa a quel punto aveva cinque giorni per far pervenire la motivazione scritta.

Adesso, più semplicemente, «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato».
Il lavoratore ha ancora 60 giorni per impugnare il licenziamento, ma ha solo altri 180 giorni per depositare il ricorso alla cancelleria del tribunale o per comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, mentre prima aveva 270 giorni per il deposito in cancelleria (articolo 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183).
La precisazione sulla formulazione del licenziamento è importante perché la nuova norma prevede una diversificazione di diritti a seconda delle diverse tipologie di licenziamento.
Le leggi proteggono dal licenziamento e prevedono sempre il reintegro, anche sotto i 15 dipendenti, per le donne in gravidanza (decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151), o in concomitanza del matrimonio (decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198). Il periodo di protezione della “concomitanza con il matrimonio” va dal giorno delle pubblicazioni a un anno dalla celebrazione delle nozze.

È previsto il reintegro del posto di lavoro anche nel caso in cui il licenziamento sia ritenuto non valido perché comunicato in forma orale per tutte le aziende, anche sotto i 15 dipendenti.

Oltre al reintegro, il giudice stabilisce un’indennità «commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative». In ogni caso questo risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità. Il datore di lavoro deve pagare anche i contributi previdenziali e assistenziali per il medesimo periodo.

Il lavoratore deve tornare al lavoro entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro in seguito all’ordine di reintegrazione. Se non lo fa, il rapporto di lavoro è risolto.

Il lavoratore, nel caso in cui non voglia tornare in azienda, ha diritto a chiedere in sostituzione del reintegro un risarcimento pari a 15 mensilità (senza contribuzione). La richiesta deve essere fatta entro 30 giorni dall’ordine di reintegro o dall’invito del datore di lavoro a rientrare.

sabato 31 marzo 2012

Riforma del mercato del lavoro ed ipotesi di licenziamento

Licenziamento per motivi discriminatori vediamo quando scatta.

Causa di nullità
Il licenziamento per ragioni discriminatorie si riscontra ogni qualvolta un lavoratore viene allontanato dall’azienda a causa delle sue idee o della sua attività svolta all’interno o al di fuori del luogo di lavoro. Tra i motivi di nullità del licenziamento esplicitamente indicati dall’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori spiccano l’affiliazione sindacale oppure la sua partecipazione a uno sciopero. Al tempo stesso sono considerati discriminatori gli allontanamenti per ragioni legate a posizioni politiche,religione,razza, lingua o sesso.

Reintegro senza giusta casa, punto di vista delle parti sociali.
È la fattispecie su cui si è registrato da subito il consenso più ampio delle parti sociali. Anche Confindustria -che ha più volte chiesto una profonda revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si è mai espressa per una modifica della norma che prevede la riassunzione in caso di licenziamenti discriminatori. Dal canto loro anche i sindacati hanno sempre ribadito di volere lasciare il sistema previsto per i licenziamenti discriminatori così com’è attualmente

Reintegro senza giusta causa, punto di vista del governo.
La risoluzione del contratto decisa dall’impresa per motivi discriminatori è e resterà nullo:il lavoratore è reintegrato sul posto di lavoro, a meno che non opti per un indennizzo. È questa la posizione manifestata dall’Esecutivo che è intenzionato a lasciare la norma così come è adesso. Fermare stando la precisazione che, in caso di licenziamento per motivi discriminatori, il giudice potrà ordinare sempre il reintegro in qualsiasi caso e dimensione di impresa. Quindi anche al disotto dei15 dipendenti.

Licenziamento per motivi disciplinari

Giustificato motivo soggettivo
Il licenziamento per motivi disciplinari indica quello disposto per giusta causa o giustificato motivo soggettivo dovuti alla violazione di obblighi contrattuali contenuti nel codice disciplinare. Per arrivare al licenziamento la violazione deve essere di una certa entità poiché l’allontanamento del lavoratore è la sanzione più pesante tra tutte quelle che il datore di lavoro può disporre. Il licenziamento disciplinare scatta anche in presenza di un illecito penalmente perseguibile compiuto dal lavoratore.

Al giudice la scelta, punto di vista del governo.
Se il giudice accerta la mancanza di una giusta causa, scatta l’applicazione del «modello tedesco»: se il motivo è inesistente, per non aver commesso il fatto, o è riconducibile alle ipotesi punibili ai sensi dei contratti collettivi di lavoro (Ccnl), il giudice ordina il reintegro. Negli altri casi residui, sei motivi addotti dai datori di lavoro sono inesistenti, il magistrato può indennizzare il lavoratore illegittimamente licenziato con un numero di mensilità compreso tra le 15 e 27.

Al giudice la scelta, punto di vista delle parti sociali
È una delle due fattispecie su cui si sono registrate divisioni tra le parti sociali. Non tanto tra le imprese, se si eccettuano le perplessità sui 27 mesi di indennizzo giudicati eccessivi, quanto tra le sigle sindacali confederali. D’accordo con la soluzione proposta dal Governo si sono dette sia la Cisl (senza dubitare) sia la Uil (dopo aver ottenuto la garanzia che verranno fissate delle causali tali da ridurre la discrezionalità del giudice). Laddove la Cgil continua a dichiararsi contraria.


Licenziamento per motivi economici

Uscita individuale e condizioni.
Alla base del licenziamento economico individuale ci deve essere un giustificato motivo oggettivo inteso come le «esigenze tecniche, organizzative o produttive» che portano l’impresa alla soppressione di uno o più posti di lavoro, ma comunque entro il limite di 4. Oltre questa soglia di 4 uscite di lavoratori scatta infatti il licenziamento economico collettivo,che è regolato con una propria procedura ed è determinato dalla riduzione dell’attività di impresa o anche della sola attività di lavoro.

Solo un indennizzo economico, punto di vista del governo
Quando il giudice accerta che un licenziamento di un dipendente è stato stabilito senza giusta causa «oggettiva»–«oggettiva» nel senso di motivi economici legati a ragioni organizzative e produttive dell’azienda, come l’introduzione di macchinari ch necessitano di minori risorse umane –è previsto solo un indennizzo economico compreso tra 15 e 27mensilità. Questa è una delle proposte governative che più si discosta dalla norma attuale, che prevede il reintegro nel caso in cui il magistrato accerti l’assenza di una ragione economica del licenziamento.

Solo un indennizzo economico punto di vista delle parti sociali
Il panorama delle posizioni è simile a quello che è stato offerto sui licenziamenti disciplinari. La soluzione proposta dal Governo trova d’accordo innanzitutto Confindustria e le altre associazioni imprenditoriali (ferme restando le perplessità sui 27 mesi di indennizzo perché giudicati eccessivi). Ma anche gran parte dei sindacati. L’ipotesi di prevedere un semplice indennizzo ha ottenuto il consenso sia della Cisl, sia, con più sforzo, della Uil. Contraria si è invece continuata a dichiarare la Cgil.

domenica 19 febbraio 2012

Riforma del mercato del lavoro 2012 i nodi da sciogliere


E' giusto ricordare che con le regole attuali sul licenziamento il datore di lavoro sa che deve  rinunciare a licenziare i dipendenti che non sono produttivi o poco fedeli al principio dell'azienda  perché è consapevole che il giudice del lavoro reintegrerebbe il lavoratore, e per di più dovrà dovendo pagare al dipendente reintegrato tutti gli arretrati.
Vediamo quali sono gli argomenti in gioco per la riforma del mercato del lavoro l'obiettivo è  di aumentare il tasso di partecipazione al mercato stesso e  ridurre il dualismo tra garantiti e precari e dare maggiori opportunità a giovani e alle donne.
Occupazione femminile: il ministro del lavoro Elsa Fornero è molto sensibile al tema e ha già annunciato sgravi fiscali per favorire l'occupazione femminile. Nel nostro Paese la partecipazione al mercato delle donne è molto bassa anche per la scarsità dei servizi di supporto alla famiglia, esempio asili nido.
Il governo punta ad una flessibilità buona per un migliore in ingresso nel mercato del lavoro con controlli e sanzioni contro i contratti utilizzati impropriamente (come le associazioni in partecipazione, le false partite Iva e i casi di contratti a progetto utilizzati per rapporti che sono sostanzialmente di lavoro subordinato). Il Governo punta a valorizzare l'apprendistato come contratto prevalente di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani agevolandolo ma chiedendo che la formazione sia effettiva.
Sugli ammortizzatori sociali,  si tenterà di mettere a punto un sussidio di disoccupazione più sostanzioso di quello attuale dando invece una grossa stretta alla cassa integrazione straordinaria. Sara invece rafforzata la cassa ordinaria limitando quindi lo strumento ai casi di effettivo reinserimento dei lavoratori in azienda.
Per le politiche attive del lavoro si punta a rafforzare la formazione e a legare il sussidio a un percorso di formazione e alla ricerca attiva di un lavoro. Anche adesso è formalmente previsto che il sussidio si perda nel caso non si accetti un lavoro che si rende disponibile ma di fatto la norma è scarsamente utilizzata.

Una regola che si potrebbe seguire e di lasciare il diritto al reintegro nel posto di lavoro sui licenziamenti discriminatori mentre in tutti gli altri casi il lavoratore va adeguatamente indennizzato in un contesto di maggiore tutela per i disoccupati.
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