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domenica 1 maggio 2016

Sondaggio Demos-Coop: lavoro e ripresa, il 70% non ci crede


Il primo maggio si celebra la Festa del lavoro e un sondaggio condotto dall’Osservatorio di Demos-Coop, ha messo in luce come quasi 7 persone su 10 delle intervistate, ritengono che abbia senso celebrare questa giornata anche se sembra un sentimento più legato alla tradizione che altro.

Contrariamente alle indicazioni fornite dalle statistiche dell’Istat e riproposte dal governo, infatti, secondo il sondaggio una larga maggioranza della popolazione non crederebbe alla ripresa. Oltre 7 persone su 10 pensano che non sia vero, che l’occupazione sia ripartita e solo l’8%, invece, ritiene che il Jobs Act abbia funzionato. Mentre, secondo la maggioranza (40%), è ancora presto per vederne i risultati. Ma oltre 3 persone su 10 sono convinte che abbia perfino “peggiorato la situazione”. Le uniche “forme” di impiego effettivamente aumentate sarebbero, infatti, quelle del lavoro nero e quello precario. Così, infatti, la pensa circa il 70% degli italiani (interrogati da Demos-Coop).

Le  quali non vedono grandi cambiamenti nel futuro. Poco più di 2 persone su 10 (per la precisione: il 23%), infatti, contano che la loro situazione lavorativa possa migliorare, nei prossimi anni. Solo cinque anni fa questa sorta di “speranza di vita” – lavorativa – era coltivata da una componente molto più estesa: il 36%. Impiego pubblico, lavoro autonomo e da libero professionista, nel sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20% degli intervistati. Con una preferenza per l’attività professionale fra i giovanissimi (15-24 anni) e per l’impiego pubblico fra le persone adulte, ma anche fra i “giovani adulti” (25-34 anni). Così la pensano, almeno, i due terzi degli italiani (intervistati da Demos-Coop). E il 73% della popolazione ritiene che i giovani, per fare carriera se ne debbano andare all’estero. Un’opinione diffusa da tempo, ma mai come oggi, se cinque anni fa, nel 2011, era condivisa dal 56%. Dunque, la maggioranza degli italiani, ma oggi sono 17 punti in più.

È un segno che dimostra dell'incertezza che presente nella nostra società. Non solo nel lavoro. Due italiani su tre, infatti, ritengono inutile, oggi, affrontare progetti impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e rischioso. Per questo, il lavoro preferito risulta il pubblico impiego. Infatti il posto, lavoro autonomo e da libero professionista, nel sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20% degli intervistati.

I dati di questo sondaggio trovano una corrispondenza, che è molto vicino all'incertezza generata dalla scomparsa, del futuro o pensare a progetti a lunga scadenza. Ed è necessaria, la figura della famiglia per accompagnare in giovani nel percorso precario fra studio e lavoro al che trovino una strada professionale. Per gli italiani è ancora giusto ricordare il Primo maggio, ma per la stragrande maggioranza è in aumento solo il precariato. Per il 40% è presto per vedere i risultati del Jobs Act, solo l’8% crede abbia funzionato. Mentre per il presidente uscente di Confindustria Giorgio Squinzi, sono stati fatti i primi passi avanti, ma sulle riforme il governo è "a metà dell'opera" e "Fatta una legge si è a metà dell'opera. Si deve fare in modo che la sua applicazione sia coerente con lo spirito della legge. Che regolamenti e decreti vengano varati e attuati facendo in modo che i giudici non siano costretti a interpretare, con conseguenze per l'industria e lo sviluppo".


domenica 17 aprile 2016

Costo del Lavoro e Jobs Act un fallimento annunciato?


Gli incentivi monetari forniti alle imprese non si sono concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma hanno piuttosto favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’.

Se le misure del Jobs Act saranno realmente efficaci a lungo termine dal punto di vista della creazione di nuovo posti di lavoro è la domanda che in molti si stanno ponendo, soprattutto osservando i dati forniti dall’INPS relativi ai contratti di lavoro, hanno evidenziato che in particolare il contratto a tutele crescenti e decontribuzione, hanno alimentato una crescita dei posti di lavoro, soprattutto delle assunzioni a tempo indeterminato e dei voucher per il lavoro accessorio.

Questi risentono della riduzione degli sgravi contributivi previsti per chi assume nuovi lavoratori con contratto a tempo indeterminato, anche trasformando contratti a tempo determinato già in essere.
Tale riduzione è entrata in vigore nel 2016 e, di conseguenza, si è assistito ad un boom di assunzioni a tempo determinato a dicembre 2015, quando era ben noto il fatto che da gennaio i benefici sarebbero stati rimodulati, permettendo ai datori di lavoro di usufruire della “vecchia” decontribuzione. Sul totale delle nuove assunzioni a tempo indeterminato del 2015, quelle di dicembre rappresentano ben il 25%.

E’ legittimo chiedersi se questo boom di assunzioni e trasformazioni sia destinato a rimanere limitato e porsi domande sulla qualità della nuova occupazione e sulle prospettive di lunga durata dei contratti, una volta che si saranno esauriti gli sgravi. Vanno poi considerati i costi a carico dello Stato per questa misura, che sembra aver dato un impulso solo estemporaneo all’occupazione.
Ipotizzando che i datori di lavoro mantengano in essere tutti i contratti stipulati usufruendo degli sgravi per l’intero periodo di fruizione (36 mesi), il costo complessivo della misura risulterebbe pari a 22,6 miliardi di euro. O meglio 17 miliardi circa (5,7 miliardi di euro l’anno) considerando le maggiori entrate IRES dovute al fatto che i contributi fiscalizzati non sono più deducibili dal costo del lavoro.

Comunque in passato si è visto che non tutti i contratti a tempo indeterminato derivanti da trasformazioni di contratti a termine rimangono in essere per l’intero periodo di fruizione degli sgravi contributivi: tra il 2012 ed il 2014 il 40% dei contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato sono cessati entro i tre anni (Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro). Ipotizzando quindi che 4 trasformazioni su 10 cessino prima dei 36 mesi e tutte le nuove attivazioni di contratti a tempo indeterminato durino invece l’intero periodo di fruizione, il costo complessivo per l’intero periodo di vigore della decontribuzione ammonterebbe a poco più di 18 miliardi, al lordo delle maggiori entrate IRES (quasi 14 miliardi al netto IRES).

Diversamente, ipotizzando uno scenario più realistico in cui oltre al 40% delle trasformazioni a cessare entro i 18 mesi sia anche il 20% delle nuove attivazioni a tempo indeterminato, il costo della misura per le Casse dello Stato sarebbe pari a circa 14,6 miliardi al lordo dell’IRES, quasi 11 miliardi al netto.

Un’indagine sulla forza lavoro ha confermato come l’incremento dell’occupazione, dopo l’introduzione del binomio Jobs Act-decontribuzione, è sostanzialmente debole e, in gran parte, dovuto a nuovi contratti a tempo determinato. Inoltre, l’aumento più sensibile dei contratti a tempo indeterminato sembrerebbe aver interessato le fasce più anziane (oltre 55 anni) di lavoratori e non le più giovani. L’occupazione giovanile e la variazione del tasso di inattività di questi ultimi sembrerebbe essere principalmente spiegato dalla recente introduzione del programma ‘Garanzia Giovani’ e dall’esplosione dei cosiddetti vouchers (come emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti di natura amministrativa).

Quest’indagine mette ulteriormente in luce l’incapacità del Jobs Act di rispondere ai compiti che era stato chiamato ad assolvere, infatti mostra come tra il primo ed il secondo trimestre del 2015, in Italia, il 35% dei disoccupati ha smesso di cercare lavoro, transitando dalla disoccupazione all’inattività.

E’ vero che sono aumentati i contratti a tempo indeterminato ma è anche vero che l’incremento dei posti di lavoro è limitato e «solo alcuni dei disoccupati della crisi sono tornati a lavorare, mentre gli altri si sono ritirati dalla forza lavoro»: è un’analisi originale e argomentata dell’impatto del Jobs Act quella proposta da Tortuga.

In conclusione, il combinato disposto ‘Jobs Act’-decontribuzione si è rivelato, sin ora, inefficace in termini di quantità, qualità e durata dell’occupazione generata. Il potenziale effetto deflattivo di tali politiche, inoltre, rischia di contribuire ulteriormente all’indebolimento della struttura occupazionale ed industriale italiana, già gracile all’inizio della crisi del 2008 e pesantemente colpita da
quest’ultima.




sabato 9 aprile 2016

Lavoro: criticità delle dimissioni telematiche


La nuova procedura per le dimissioni e la risoluzione consensuale introdotta dal Jobs Act ha ottime ragioni ma può presentare anche qualche problema.

Tra le numerose disposizioni contenute nella Legge delega n. 183/2014 “Jobs Act” il Legislatore, nell'obiettivo di adeguamento della regolamentazione del mercato del lavoro sulla base delle nuove esigenze tecnico/produttive, ha lasciato spazio anche alla revisione di una serie di procedure che trovano loro rappresentazione normativa nel D.Lgs 151/2015 conosciuto come “Decreto Semplificazioni”. Uno degli aspetti contenuti nel suddetto decreto è la volontà del Legislatore di effettuare un nuovo “giro di vite” sul fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”.

Ricordiamo come, a riguardo, era già intervenuta la precedente riforma del mercato del lavoro Legge n. 92/2012 (Legge Fornero) che aveva introdotto la procedura di convalida delle dimissioni volontarie quale strumento che, nelle more di accertare la genuina volontà del recesso da parte del lavoratore, si configurava, fino al 11 marzo 2016, un valido strumento che permettesse  di accertare la legittimità del recesso con una simbiotica compartecipazione delle parti all'adempimento.

Vediamo com’è articolata la nuova procedura per le dimissioni e le risoluzioni consensuali?

Il lavoratore può procedere personalmente oppure tramite soggetti individuati dalla norma.

Nel caso in cui decidesse di procedere direttamente dovrà:

munirsi di Pin Inps (se non ne è già in possesso);

effettuare apposita registrazione sul portale www.cliclavoro.gov.it munendosi, in tal modo, di una user e di una password;

accedere al sito www.lavoro.gov.it per la compilazione dell'apposito modello. Nel caso in cui il rapporto sia iniziato dopo l'anno 2008, il sistema proporrà automaticamente i rapporti di lavoro esistenti, in modo da consentire al lavoratore la scelta di quello dal quale intende recedere. Al contrario, per i rapporti iniziati prima del 2008 (ante introduzione del modello “UniLav”), sarà lo stesso lavoratore a dover inserire manualmente tutti i dati necessari;

inviare telematicamente il modello, ricevendo, al contempo, un codice alfanumerico attestante
l'avvenuta trasmissione. Il modello sarà automaticamente inoltrato alla competente Direzione Territoriale del Lavoro e alla casella di posta elettronica del datore di lavoro. Da quanto indica il Dicastero di Via Flavia, con la circolare n. 12/2016, per il datore di lavoro sembrerebbe possibile indicare anche una mail “ordinaria” e non, necessariamente, un indirizzo di posta elettronica certificata.

Dal 12 marzo 2016 le dimissioni e risoluzioni consensuali dovranno essere rese “efficaci” dal lavoratore attraverso la compilazione e l'invio telematico come abbiamo visto sopra, procedura che questi, pena l'inefficacia del recesso, dovrà aver cura di adempiere per mezzo proprio o per tramite di soggetto delegato. L'utilizzo della procedura telematica costituisce, inoltre, unica modalità con cui il lavoratore, entro sette giorni dalla data di convalida del recesso, potrà anche revocare le proprie dimissioni richiamando codice identificativo della comunicazione inviata e marcata temporalmente.

La nuova procedura riguarda tutti i datori di lavoro privati con esclusione dei rapporti di lavoro domestico. La procedura di convalida ex art. 26 D.Lgs 151/2016 non riguarderà i casi di dimissioni o risoluzioni consensuali intervenute durante il periodo di congedo di maternità/paternità del soggetto lavoratore o dei primi tre anni di vita del bambino che restano soggette all'obbligo.

Vediamo di mettere  in evidenza altre criticità che la nuova norma solleva. Innanzitutto ci si chiede cosa succederebbe se il lavoratore non seguisse la procedura prevista dalla norma. In caso di mancato esperimento della procedura telematica, il datore di lavoro sarà costretto ad aprire un procedimento disciplinare – ex art. 7 della L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) – dovendo, molto probabilmente, giungere a un licenziamento disciplinare per assenze ingiustificate. Tale recesso comporterebbe, come noto, l'obbligo di pagare il “ticket di licenziamento”.

Un’altra situazione paradossale nella quale potrebbe venirsi a trovare il datore di lavoro è quella relativa all'esercizio del “diritto di ripensamento”. Immaginiamo un lavoratore che, all'improvviso, si dimette. Il datore di lavoro deve correre subito ai ripari ed effettuare una nuova assunzione. Ma il “vecchio” lavoratore, entro sette giorni, può ripensarci e revocare le dimissioni. Quale sarà la sorte del neo-assunto in “sostituzione”?

Infine, se il lavoratore vuole procedere personalmente all’invio delle dimissioni telematiche e non è già in possesso del Pin Inps, dovrà per prima cosa provvedere a tale richiesta e attendere che gli sia recapitato via posta tradizionale una parte del codice. A questo punto, il lavoratore potrebbe trovarsi nella paradossale situazione di non poter rassegnare le dimissioni, o magari a doverle procrastinare nel tempo, in quanto non ha ricevuto in tempo utile il codice pin.

giovedì 7 aprile 2016

Call center: chiarimenti sugli ammortizzatori sociali previsti



Arrivano con la Circolare n. 15/2016 del Ministero del Lavoro i chiarimenti in merito agli aspetti applicativi relativi alla durata del trattamento di sostegno al reddito in favore dei lavoratori del settore Call Center, con particolare riferimento agli aspetti applicativi relativi alla durata del trattamento di sostegno al reddito previsto per il settore.

Si tratta della norma che prevede concessione di misure per il sostegno al reddito, il trattamento può essere concesso, sulla base di specifici accordi, siglati in ambito ministeriale, nel limite massimo di 5.286.187 euro per l’anno 2015, e di 5.510.658 euro per il 2016, per periodi non superiori a 12 mesi.

L’art. 3 del decreto 22763 contempla la possibilità di concedere il trattamento sulla base di specifici accordi, siglati in ambito ministeriale, per periodi non superiori a 12 mesi.

Il Ministero ha chiarito che, in presenza di un accordo siglato nell’anno 2016, con domanda ed inizio della sospensione o riduzione di orario nel corso dello stesso anno, è possibile concedere il trattamento della durata di 12 mesi, superando il limite temporale del 31 dicembre 2016 attualmente previsto per gli ammortizzatori sociali in deroga. In considerazione della specialità della normativa, la circolare chiarisce inoltre che, in presenza di un accordo siglato nell’anno 2016 – con domanda ed inizio della sospensione o riduzione di orario sempre nel 2016, e fermo restando il limite di finanziamento – è possibile concedere il trattamento della durata di 12 mesi, superando il limite temporale del 31.12.2016 attualmente previsto per gli ammortizzatori sociali in deroga.

Con decreto n. 22763 del 12 novembre 2015, emanato dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministro delle Finanze è stata riconosciuta un’indennità, pari al trattamento massimo di integrazione salariale straordinaria, ai lavoratori delle aziende del settore dei call center non rientranti nel campo di applicazione del trattamento straordinario di integrazione salariale. In considerazione della specialità della normativa, la circolare ha chiarito che «in presenza di un accordo siglato nell’anno 2016, con domanda ed inizio della sospensione o riduzione di orario sempre nel 2016, e fermo restando il limite di finanziamento, è possibile concedere il trattamento della durata di 12 mesi, superando il limite temporale del 31.12.2016 attualmente previsto per gli ammortizzatori sociali in deroga».

domenica 28 febbraio 2016

Lavoro dipendente: i controlli a distanza non soggetti ad accordo sindacale


Il Jobs Act ha innovato la disciplina dei controlli a distanza, contenuta nel nuovo comma 2 dell’art. 4 della legge n. 300/1970. L’obbligo del preventivo accordo sindacale o, in mancanza, dell’autorizzazione amministrativa non si applica nel caso di strumenti utilizzati per eseguire la prestazione o per rilevare accessi/presenze. Per definire l’ambito applicativo della norma occorre verificare se lo strumento sia utilizzato per eseguire la prestazione; infatti soltanto per tali strumenti il controllo è affrancato dal preventivo accordo sindacale o dalla autorizzazione amministrativa.

La sentenza emessa dalla Corte dei diritti umani il 12 gennaio 2016 conferma il Jobs Act in tema di controllo a distanza. I Giudici di Strasburgo hanno infatti stabilito che, in determinate condizioni, il datore di lavoro ha il diritto di monitorare il dipendente durante l’attività lavorativa quando questo utilizza strumenti per svolgere le proprie mansioni; nel caso in cui riscontri violazioni può utilizzare le informazioni raccolte ai fini del licenziamento.

Secondo il nuovo art. 4 dello Statuto dei Lavoratori il datore di lavoro può  installare, previo accordo sindacale, strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza, esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale; inoltre ha piena libertà decisionale per quanto riguarda gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (computer, device mobili, ecc.) e quelli di registrazione di accessi e presenze; le informazioni così raccolte sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal Codice Privacy.

E’ importante sottolineare come la Corte abbia tenuto conto che, l’accesso all’account personale (e non quello aziendale) del dipendente era giustificato dalla convinzione che questi stesse utilizzando lo strumento per svolgere proprie mansioni. Su tali presupposti i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ragionevole e giustificato porre in essere un’attività di controllo volta a verificare che i dipendenti stiano svolgendo correttamente il proprio lavoro. Anche perché il monitoraggio riguardava il solo strumento di lavoro, ossia le comunicazioni sul Yahoo Messenger. I Giudici quindi hanno concluso che il controllo del datore di lavoro è stato svolto all’interno di determinati limiti ed è stato proporzionato.

Le ragioni dell’azienda
L’azienda aveva politiche lavorative scritte, chiare e comunicate a tutti i dipendenti;

l’azienda ha il diritto di controllare il corretto svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti se tale verifica è circoscritta e proporzionata;

l’attività di controllo, quando i dipendenti hanno accesso a Internet deve prevedere le minacce al sistema IT aziendale.

Le ragioni del lavoratore
La sentenza sarebbe forse potuta essere diversa se il dipendente avesse provato in giudizio che:

la propria condotta non aveva comportato danni (sotto molteplici profili) all’azienda;
il comportamento assunto trovava giustificazione in termini personali ed economici (es.: un cellulare costava troppo);

l’attività di controllo dell’azienda era stata svolta senza garanzie e i dati personali erano stati diffusi in maniera non giustificata.

Conclusioni
Sicuramente, l’atteggiamento dei Tribunali a seguito dell’adozione di normative quali il Jobs Act permettono ai datori di lavoro di avere maggiore libertà in tema di controllo dei dipendenti. Ma è fondamentale sottolineare che questo sarà possibile sempre, solo e soltanto quando l’impresa si metta in condizioni strutturali e imprenditoriali tali da rendere il controllo giustificato, circoscritto e proporzionato.

L’articolo 23 del d.lgs n. 151/2015  modifica l’articolo 4 dello  Statuto dei Lavoratori,  per rimodulare la fattispecie integrante il divieto dei controlli a distanza, nella consapevolezza di dover tener conto, nell’attuale contesto produttivo, oltre agli impianti audiovisivi, anche degli altri strumenti «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori» e di quelli «utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa».

Nella sua formulazione originaria l’articolo 4  stabiliva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Al secondo comma, invece, il divieto cadeva, soltanto a condizione che il datore di lavoro avesse osservato quanto ivi tassativamente previsto, in quanto era stabilito che gli impianti e le apparecchiature di controllo «che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori»  potevano essere installati previo accordo con le Rappresentanze Sindacali presenti in Azienda o, in caso di mancato accordo, previa autorizzazione della DTL territorialmente competente.

La Corte di Cassazione ha recentemente confermato che le garanzie poste in materia di divieto di controlli a distanza dal secondo comma dell’articolo 4 dello Statuto si applicano ai controlli difensivi, volti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori «quando, però, tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso», stabilendo che sono legittimi quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore e lesivi del patrimonio aziendale.

Lo scopo della norma  è quello di adeguare, da un lato, l’esigenza afferente all’organizzazione del lavoro e della produzione posta in essere dal datore e, dall’altro, il diritto del prestatore a non vedere sottoposto ad un controllato a distanza lo svolgimento delle sue attività nel luogo di lavoro, «individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti partecipi»).

Per quanto riguarda l’installazione e l’utilizzo degli strumenti di cui al primo comma, è stata confermata una procedura di co gestione fra datore di lavoro e Rappresentanze Sindacali (RSU o RSA) – che trova luogo tramite un Accordo con le rappresentanze sindacali presenti nelle diverse unità produttive dell’azienda ai fini  dell’installazione e dell’utilizzo dell’impianto di controllo – preliminare rispetto all’installazione degli strumenti, il cui esito negativo porta il datore a richiedere l’autorizzazione amministrativa della DTL competente.
L’installazione e l’impiego di tali strumenti necessitano della esclusiva sussistenza di esigenze organizzative e produttive, di sicurezza  del  lavoro di tutela del patrimonio aziendale, costituendo, queste, i presupposti per la stipula preventiva dell’Accordo sindacale o dell’autorizzazione della DTL.

Inoltre, tutte le informazioni raccolte con i mezzi di controllo devono essere utilizzati nel rispetto della disciplina sulla privacy. Gli accordi sindacali con Rsu e Rsa restano invece indispensabili per gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, che «possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale». In alternativa, se l'impresa ha più unità produttive in diverse province o regioni, l'accordo si fa con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.

In assenza dell'accordo serve l'autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, nel secondo caso, del ministero del Lavoro.

Questa disposizione, come prosegue la nuova norma, tuttavia, «non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze». E i dati raccolti possono essere utilizzati «a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli» sempre «nel rispetto del Codice sulla privacy.

giovedì 18 febbraio 2016

Indennità di disoccupazione: NASpI e risoluzione consensuale


Vediamo i chiarimenti del Ministero del lavoro sull'indennità NASPI a seguito di risoluzione consensuale in aziende al disotto dei 15 dipendenti (d.lgs.22/2015)

La Direzione Generale Ammortizzatori Sociali ha rilasciato questo parere a seguito di una richiesta di chiarimenti sulla possibilità di vedersi riconoscere l’indennità di disoccupazione NASpI per il lavoratore che si trovi in stato di disoccupazione a seguito di richiesta congiunta, con il datore di lavoro, ed ha chiarito che la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell’ambito del tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410 c.p.c.

Questa conclusione è dovuta a quanto disposto dall’articolo 3, comma 2, del D. Lgs n. 22/2015 che stabilisce letteralmente che la NASpI è riconosciuta oltre che nei casi di licenziamento anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 604/1966 come modificato dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92/2012 (Legge Fornero).

Quindi viene chiarito che la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell'ambito del tentativo di conciliazione di cui all'articolo 410 cpc. Ciò in base all'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 22/2015, che stabilisce che la NASpI è riconosciuta oltre che nei casi di licenziamento anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale intervenuta nell'ambito della procedura conciliativa «preventiva» prevista dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, disciplina che si applica (art. 18 della legge n. 300/1970) ai datori di lavoro con almeno 15 dipendenti.

Quindi la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell'ambito del tentativo di conciliazione.

Il principio del decreto legislativo 22/2015 nel ridisegnare il perimetro di tutela nei casi di perdita involontaria del posto di lavoro ha del resto inteso tutelare, con la concessione dell'ammortizzatore sociale di disoccupazione, i soli lavoratori che abbiano perduto involontariamente l’occupazione, con ciò ribadendo un principio storicamente presente da sempre nella disciplina legislativa dell'indennità di disoccupazione. La perdita involontaria del rapporto di lavoro, in altri termini, non può essere riconosciuta nei casi in cui la risoluzione del rapporto, seppur sorta per decisione unilaterale del datore di lavoro, venga ricomposta consensualmente in esito alla procedura di conciliazione per le controversie di lavoro prevista dal codice di rito.

domenica 31 gennaio 2016

Liberi professionisti e Partite Iva: più tutele sul lavoro autonomo


Il Jobs Act per gli autonomi permetterà ai professionisti la integrale deducibilità “degli oneri sostenuti per la garanzia contro il mancato pagamento delle prestazioni delle prestazioni di lavoro autonomo fornita da forme assicurative o di solidarietà”. In sostanza, il professionista che paga un premio annuale al fine di ottenere un indennizzo assicurativo a fronte del mancato pagamento di una prestazione professionale resa, potrà dedurre integralmente la somma pagata alla compagnia assicuratrice. E’ prevista, inoltre, la detrazione integrale dai redditi di lavoro autonomo delle spese di formazione.

Ovvero i professionisti potranno considerare integralmente in detrazione dai redditi di lavoro autonomo le spese di formazione, con l’unico limite rappresentato da un plafond annuale di 10.000 euro. La deduzione integrale riguarda le spese per l’iscrizione a master e a corsi di formazione o di aggiornamento professionale, nonché le spese sostenute per l’iscrizione a congressi.

Ad essere rafforzate saranno anche le garanzie. Maggiori tutele ci saranno per maternità, infortuni e malattie. In caso di assenza prolungata, al massimo 150 giorni l'anno, per ragioni di salute, il rapporto non potrà essere interrotto, ma solo sospeso senza stipendio. L'indennità di maternità, poi, verrà pagata anche se la neo mamma continua a lavorare. A differenza di quanto avviene nel lavoro subordinato, infatti, spesso per una partita Iva non è possibile fermarsi per non mancare una scadenza.

Quanti lavoratori coprirà il Jobs act delle partite Iva? Secondo la Cgia di Mestre, in realtà, pochi. Gli autonomi sono in tutto 3,9 milioni, ma il provvedimento interessa solo quelli iscritti alla gestione separata dell'Inps, che non poco più di 220 mila, il 6% del totale.

Sul fronte del lavoro autonomo, il disegno di legge conferma la stretta sulle clausole abusive: si considerano illegittime quelle clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni di contratto o che fissano termini di pagamento superiori a 60 giorni. Si tutelano anche le invenzioni fatte dai lavoratori autonomi: si stabilisce che i relativi diritti di utilizzo economico spettino al professionista, e non al committente, che al più ne può trarre un vantaggio.

Ad oggi il lavoratore autonomo, in caso di continuativo e prolungato ritardo nell’adempimento del corrispettivo da parte del committente/cliente, si limita ad aspettare di ricevere il proprio corrispettivo potendosi rivolgere, al più, ai servizi di recupero crediti degli ordini professionali.

Il Ddl sul lavoro autonomo, invece, stabilisce che l’autonomo o il giovane professionista abbia la possibilità di rivolgersi alla compagnia assicurativa ed essere da questa soddisfatto, a seguito dell’avvenuta sottoscrizione di una specifica polizza il cui contenuto sarà regolamentato dalla legge.
Il premio annuale che verrà versato all’assicurazione per poter fruire di tale servizio sarà detraibile dalle tasse.

L’assegno di maternità per 5 mesi non sarà più vincolato alla sospensione dell’attività lavorativa, ma verrà erogato anche se la lavoratrice autonoma, come spesso accade, deve continuare a far fronte agli impegni presi. Inoltre, in caso di malattia grave, comprese quelle oncologiche, si potrà sospendere il pagamento dei contributi sociali fino a un massimo di due anni (recuperando poi con pagamenti rateizzati). Infine, ci saranno norme di tutela contrattuale per impedire clausole vessatorie (per esempio, modifiche unilaterali di quanto pattuito) e ritardi nei pagamenti da parte dei committenti.

Si rafforzano le tutele per professionisti e partite Iva: l'indennità di maternità si potrà ricevere pur continuando a lavorare (non scatta l'astensione obbligatoria); alla nascita del bambino si avrà diritto a un congedo parentale di sei mesi (entro i primi tre anni di vita); le spese per la formazione saranno deducibili al 100% (nel limite di 10mila euro l'anno); e in caso di malattia o infortunio il rapporto con il committente si sospende (non si estingue) per un periodo non superiore a 150 giorni.

Nel caso di nascita di un bambino il professionista e le partite Iva potranno percepire l’indennità di maternità pur continuando a lavorare (non è prevista, quindi, l’astensione obbligatoria dal lavoro). Inoltre, nei primi tre anni di vita del bambino sarà possibile ottenere un congedo parentale di sei mesi.
L’indennità sarà pagata dall’Inps a seguito di apposita domanda in carta libera corredata da un certificato medico rilasciato dalla Asl.

Qualora sussista una grave malattia tale da eccedere i 30 giorni, il professionista avrà la possibilità di non pagare i contributi previdenziali fino a un periodo massimo di 2 anni. L’arretrato potrà poi essere recuperato, ai fini contributivi, mediante versamenti rateali per un arco temporale che sarà pari al triplo di quello della sospensione dell’attività professionale dovuta alla malattia.


domenica 17 gennaio 2016

Apprendistato formativo: si parte con il sistema duale. Alternanza scuola-lavoro


 Al via la sperimentazione del sistema duale in apprendistato, uno degli strumenti attuativi del Jobs Act pensato per promuovere la formazione dei giovani finalizzata al loro ingresso nel mondo del lavoro. Per sistema duale si intende la formazione alternata per il 50% a scuola e il restante 50% nell’ambiente di lavoro,  con l’obiettivo di rafforzare l’offerta educativa per i giovani, affinché raggiungano un maggior livello di qualificazione.

A darne notizia è il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con un comunicato stampa, con il quale ha reso nota la sottoscrizione dell’apposito Protocollo d’intesa con gli assessori regionali alla formazione.

Per una parte dei giovani studenti l'apprendimento in impresa avverrà tramite un contratto di apprendistato di primo livello, mentre per l'altra parte avverrà attraverso l'introduzione dell'alternanza "rafforzata" di 400 ore annue a partire dal secondo anno del percorso di istruzione e formazione professionale.

L'Agenzia Italia Lavoro sta  attualmente completando la selezione di 300 centri di formazione professionale che realizzeranno la sperimentazione. "Si tratta di uno degli strumenti attuativi del Jobs Act, attraverso il quale il Governo vuole favorire la occupazione giovanile e la possibilità di conseguire un titolo di studio anche attraverso un contratto di apprendistato, ha dichiarato il Sottosegretario al lavoro. "La collaborazione con tutti i soggetti coinvolti: Regioni, enti di formazione e parti sociali  ha consentito" di dare piena e concreta attuazione ai decreti legislativi 81 e 150 con l'obiettivo di rilanciare l'apprendistato di primo e terzo livello al fine di ridurre la dispersione scolastica e  ampliare l'offerta formativa." Di fatto la sottoscrizione di questi protocolli con gli Assessori regionali dà il via alla sperimentazione che è frutto di una intensa e proficua collaborazione con tutti i soggetti coinvolti: Regioni, enti di formazione e parti sociali.

La sperimentazione vedrà coinvolti 60 mila giovani nel prossimo biennio i quali, facendo ricorso all’apprendistato formativo e all’alternanza scuola-lavoro “rafforzata” di 400 ore annue a partire dal secondo anno del percorso di istruzione e formazione professionale, potranno conseguire gli stessi titoli di studio previsti nei percorsi di qualifica e diploma professionale, diploma di istruzione secondaria superiore, titoli di laurea triennale o magistrale, master e dottorato. Per la sperimentazione del Sistema Duale sono stati stanziati 87 milioni di euro sia per il 2015 che per il 2016, in aggiunta ai 189 milioni già previsti per la Istruzione e formazione professionale, ripartiti tra le Regioni e le Province Autonome sulla base del numero di studenti annualmente iscritti ai percorsi di IeFP e del numero complessivo di studenti qualificati e diplomati.

Sottoscrivendo i protocolli di intesa che hanno dato il via al Sistema Duale, il Sottosegretario al lavoro ha definito l’iniziativa:

«Una misura volta a promuovere, in maniera innovativa, la formazione dei giovani e a favorire la transizione dal mondo della scuola a quello del lavoro partendo dalla alternanza scuola-lavoro. Si tratta di uno degli strumenti attuativi del Jobs Act, per favorire la occupazione dei giovani e la possibilità di conseguire un titolo di studio anche attraverso un contratto di apprendistato.

«Le imprese che assumeranno in apprendistato formativo e quelle che ospiteranno studenti in alternanza rafforzata beneficeranno oltre che di minori costi per l’apprendista, anche di incentivi per abbattere i costi derivanti dall’impiego di tutor aziendali. Ma non solo. La nuova normativa, prevede, altresì, per l’apprendistato formativo un azzeramento della retribuzione per la formazione in aula, una diminuzione della remunerazione degli apprendisti al 10% (della retribuzione) per la formazione svolta in azienda, l’abolizione del contributo previsto a carico dei datori di lavoro in caso di licenziamento dell’apprendista, lo sgravio dal pagamento dei contributi per l’ASpI rivolto alle imprese artigiane, la cancellazione della contribuzione dello 0.30% per la formazione continua e, infine, viene dimezzata l’aliquota di contribuzione del 10% portandola al 5% per le imprese con più di nove dipendenti».

Il contratto, stipulato tra azienda e apprendista, è regolato in modo dettagliato dalla legge tedesca, che definisce con precisione obblighi e doveri delle parti. Il sistema duale è diffuso in altri paesi, come Austria e Svizzera e soprattutto nell’Europa del Nord. Soluzioni che si sono dimostrate in grado di assicurare una più ampia integrazione dei giovani nel mercato del lavoro, riducendo così i livelli di disoccupazione, e che ora l’Italia è pronta a testare modulandole ad hoc per mantenere le proprie caratteristiche strutturali.

La sperimentazione italiana del nuovo apprendistato normativo si basa su un modello fortemente innovativo che passa innanzitutto attraverso la ristrutturazione dell’apprendistato e delle sue caratteristiche (requisiti di accesso e modalità di regolazione della formazione): si punta così ad agire direttamente sul fronte delle imprese tramite la definizione di un nuovo mix di vincoli e benefici, in grado di bilanciare meglio l’onere formativo che esse assumono.

L’altro versante è quello della riorganizzazione dei percorsi formativi nell’ambito del Sistema regionale di Istruzione e formazione professionale (IeFP) e il potenziamento delle reti di servizi interne alle strutture formative. Illustrato a Job & Orienta, il progetto prevede la qualificazione dei servizi di placement dei centri di formazione professionale e la sperimentazione nel biennio 2015-2017 del contratto di apprendistato per il conseguimento della qualifica di istruzione e formazione professionale (IeFP) o del diploma professionale nei centri di formazione professionale.

Dal 1° gennaio anche i collaboratori protetti contro il mobbing


Ricordiamo che, dal primo gennaio 2016 le collaborazioni di tipo co.pro. devono intendersi  «prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro», ai contratti di collaborazione in essere «si applica la disciplina del lavoro subordinato».

Con l’applicazione del Jobs Act sarà consentito anche ai collaboratori di essere protetti contro il mobbing. Infatti da tale data, si applicherà la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Quest’ultima specificazione risulta particolarmente meritoria perché, oltre a muoversi verso il superamento dei contratti a progetto, costituisce un sicuro miglioramento della protezione di tutti i lavoratori titolari di rapporti non subordinati, riducendo l’alea di incertezza della disciplina precedentemente applicabile.

Tra le novità derivanti dall’applicazione delle misure previste dal Jobs Act che hanno preso il via dal 1° gennaio 2016 ci sono quelle che prevedono la protezione dal mobbing anche per i collaboratori. Di fatto viene estesa la disciplina che tutela il rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

In virtù del Jobs Act, dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Alla luce di una giurisprudenza se non unanime comunque ben consolidata, il datore di lavoro risponde del danno arrecato al dipendente anche nell’ipotesi in cui la condotta di mobbing provenga da un altro lavoratore, in posizione di supremazia gerarchica o di parità rispetto alla vittima. È il caso delle cd. costruttività organizzative, che è onere del datore di lavoro rimuovere qualora ne abbia avuto conoscenza.

Secondo l’interpretazione corrente e consolidata della giurisprudenza, il datore di lavoro risponde del danno di mobbing arrecato al dipendente anche qualora questo sia stato causato da un altro lavoratore in posizione di supremazia gerarchica o di parità rispetto alla vittima. Il datore di lavoro può essere esentato da tale responsabilità solo nel caso in cui l’evento lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale.

In caso di mobbing orizzontale, o tra pari, occorre provare che il datore di lavoro sia rimasto inerte di fronte ad una situazione a lui nota.

Secondo la sentenza n. 359 del 19 dicembre 2003 della Corte Costituzionale gli atti posti in essere possono risultare “se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico”, assumendo, purtuttavia, “rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto” e risolvendosi, normalmente, in «disturbi di vario tipo e, a volte, patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico.»

Premesso in linee generali ciò per quanto attiene a quei comportamenti vessatori dai quali può configurarsi il cosiddetto mobbing (dall’inglese to mob, ossia assalire, molestare), la tutela avverso tale tipo di molestie si configura ora anche per i collaboratori, ossia per chi si trovasse a prestare la propria forza lavoro in modalità continuativa e personale e dietro organizzazione del committente.

Il Jobs Act si muove così nell’ottica di estendere la tutela a tutti quei lavoratori fuori dal contratto tipico di lavoro subordinato. Mobbing che permane anche con riferimento a quella fattispecie in cui lo si subisce dal proprio collega di lavoro e rispetto alla quale si evidenzi l’inerzia del datore di lavoro.

venerdì 8 gennaio 2016

Agenzia del lavoro: approvato lo statuto


Prende forma la nuova Agenzia unica per le ispezioni sul lavoro istituita dal Jobs Act.

L’ANPAL (Agenzia nazionale per le politiche attive), sono stati fatti accordi con le Regioni per il rafforzamento dei centri per l’impiego con tanto di assegno di ricollocamento, riconosciuto a chi dopo quattro mesi di NASPI non ha ancora trovato lavoro, per aiutare a trovare una nuova occupazione.

L’ANPAL coordina la nuova Rete Nazionale dei Servizi per le Politiche Attive del Territorio e coinvolge i principali enti impegnati nell’erogazione degli ammortizzatori sociali, come INPS, INAIL, le Camere di Commercio, ma anche soggetti operanti come intermediatori nel mondo del lavoro, quali scuole e università e sarà strutturata su base regionale e coadiuvata dall’INPS e INAIL, dalle Agenzie per il Lavoro e da tutti i soggetti attualmente accreditati alle attività di intermediazione, dagli enti di formazione, da Italia Lavoro e ISFOL.

Fra i compiti dell’ANPAL ci sono quello di stabilire i programmi delle politiche attive, finanziati dall’FSE (Fondo Sociale Europeo), supervisionare la Rete Nazionale, archiviare tutti i fascicoli personali dei lavoratori e tenere un albo delle agenzie private del lavoro.

Ciò che rileva per i cittadini è che solo con l’iscrizione all’ANPAL il disoccupato (che sia stato licenziato o che abbia rassegnato le dimissioni per giusta causa) può aver diritto alla Naspi.

L’iscrizione all’ANPAL viene effettuata dai Centri per l’Impiego, durante un colloquio con il disoccupato : dalla data di licenziamento (o dimissioni per giusta causa) il Centro per l’Impiego ha 2 mesi di tempo per convocare il lavoratore, dalla convocazione il disoccupato ha tempo 15 giorni per presentarsi al Centro per l’Impiego, pena la perdita di un quarto dell’assegno di disoccupazione.

Nel corso del colloquio al Centro per l’Impiego, il disoccupato dovrà anche sottoscrivere un patto di servizio, cioè un programma che mira al ricollocamento dello stesso nel mondo del lavoro. Fino a che il disoccupato non troverà un nuovo impiego, il suo impegno nella formazione e ricollocazione professionale viene monitorato da un tutor.

Nello specifico lo schema di statuto disciplina il funzionamento e definisce le competenze dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Agenzia unica per le ispezioni del lavoro), la cui istituzione è prevista dal decreto legislativo 149 del 14 settembre 2015 al fine di razionalizzare e semplificare l’attività ispettiva. L' Agenzia avrà la funzione di coordinare, sulla base di direttive emanate dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, la vigilanza in materia di lavoro, contribuzione e assicurazione obbligatoria, svolgendo le attività ispettive già esercitate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dall’INPS e dall’INAIL. L’Ispettorato ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotato di autonomia organizzativa e contabile. Gli organi dell’Ispettorato sono: il direttore; il consiglio di amministrazione; il collegio dei revisori. Restano in carica tre anni, e sono rinnovabili per una sola volta.

Lo schema di statuto dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro disciplina il funzionamento e definisce le competenze dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro che avrà il compito di coordinare la rete dei servizi per le politiche attive del lavoro, attuando le linee di indirizzo triennali e gli obiettivi annuali in materia di politiche attive, nonché la specificazione dei livelli essenziali delle prestazioni da erogare su tutto il territorio nazionale così come stabiliti dal Ministero del lavoro.

L’Agenzia ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotata di autonomia organizzativa, regolamentare, amministrativa, contabile e di bilancio.

Gli organi dell’Agenzia che restano in carica tre anni rinnovabili per una sola volta, sono:
- il Presidente;
- il Consiglio di amministrazione;
- il Consiglio di vigilanza;
- il Collegio dei revisori.

lunedì 4 gennaio 2016

Co.co.co. 2016, arrivano le Co.co.pe


Le Co.co.pe., rappresentano le nuove collaborazioni continuative personali, con la nuova disciplina dal 2016.

Dal 1° gennaio 2016 sarà dunque molto più difficile ricorrere alle collaborazioni coordinate e continuative (anche a progetto) dato che tali prestazioni hanno spesso, per loro natura, quel carattere di “personalità” e “ripetitività” che potrà facilmente portare alla conversione del rapporto, innanzi ad un giudice, in lavoro subordinato.

Il Jobs Act, nonostante abbia dato un colpo di spugna ai contratti a progetto, non ha cancellato del tutto le Co.co.co., cioè le collaborazioni coordinate e continuative. Difatti, dopo l’entrata in vigore del Decreto di Riordino dei Contratti, le vecchie Co.co.co. sono comunque valide, e, dal primo gennaio 2016, saranno affiancate da una nuova tipologia di contratto parasubordinato, le Co.co.pe.

La sigla Co.co.pe. sta per collaborazioni continuative e personali: saranno ricondotte in questa categoria tutte le collaborazioni che consistono in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e con modalità di esecuzione, comprese le tempistiche ed il luogo di lavoro, organizzate dal committente.

Pertanto, qualora si riscontrino tali elementi in un rapporto di lavoro parasubordinato, non sarà possibile qualificarlo come Co.co.co, ma come Co.co.pe.

Il Jobs Act specifica che la disciplina da applicarsi alle Co.co.pe. sarà quella relativa al lavoro subordinato, escluse le seguenti categorie:

– collaborazioni previste da contratti collettivi nazionali, a causa di esigenze produttive e organizzative particolari, previste dal settore di attività: gli accordi dovranno regolamentare gli aspetti economici e normativi relativi a tali collaborazioni;

– collaborazioni prestate da professionisti iscritti ad albi, qualora siano inerenti all’attività professionale per la quale è necessaria l’iscrizione (ciò vuol dire che, se un avvocato collabora con un committente in un’attività al di fuori delle proprie competenze professionali, il suo rapporto potrà essere comunque ricondotto al lavoro subordinato, anche se è iscritto all’albo);

– attività effettuate da sindaci, amministratori, altri componenti di organi di controllo delle società, e partecipanti a collegi e commissioni;

– collaborazioni rese a società ed associazioni sportive dilettantistiche (Asd); in questo caso, è richiesta l’affiliazione a una federazione sportiva nazionale, alle discipline sportive associate, o a un ente di promozione sportiva riconosciuto dal C.O.N.I.

Nei casi dubbi, per i quali non si ravvisa con sicurezza il carattere della personalità della prestazione, è possibile certificare l’inesistenza di tale caratteristica, presso un’apposita commissione di certificazione dei contratti. Tuttavia, pur in presenza della certificazione (sottoscritta da datore di lavoro e lavoratore), non ci si salverà dalla riconduzione del contratto al lavoro subordinato, qualora venga accertato che, nel concreto, l’attività sia svolta in maniera esclusivamente personale, continuativa, e con modalità, tempo e sede di lavoro decisi dal committente.

Quindi restano in piedi, nel 2016, le collaborazioni coordinate e continuative genuine, cioè quelle non etero-organizzate. Le altre fattispecie, dette Co.co.pe (collaborazioni coordinate personali), saranno ricondotte al lavoro subordinato: esisteranno alcune eccezioni, come esplicite previsioni da parte del contratto collettivo applicato, nonché i contratti precedenti al 25 giugno 2015. È possibile, mediante una conciliazione, effettuare una sanatoria del contratto che metta al riparo da sanzioni per l’errata qualificazione, convertendolo in lavoro subordinato a tempo indeterminato.

I contratti di lavoro con collaborazioni coordinate e continuative, Co.co.co., rappresentano una categoria intermedia fra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente e pertanto rientrano in una fascia detta parasubordinata. Essi lavorano infatti in piena autonomia operativa, ed è escluso ogni vincolo di subordinazione con il committente del lavoro. Sono pertanto funzionalmente inseriti nell’organizzazione aziendale e possono operare all’interno del ciclo produttivo del committente, al quale viene dato un potere di coordinamento dell’attività del lavoratore in funzione dei bisogni e della programmazione aziendale.

I contratti di collaborazione Coordinata e Continuativa (CoCoCo) e i contratti di collaborazione a progetto (CoCoPro) siano aboliti, dal 1 Gennaio 2016 e sia commutati il contratti di lavoro dipendente (nella maggioranza dei casi, presumibilmente, in contratti a tempo determinato) in tutti i casi in cui:
«la collaborazione consista, in concreto, in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e con modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro»

In altri termini, stando al dettato della norma, dovranno essere abolite tutte quelle collaborazioni che si caratterizzano per:

una prestazione personale;

la ripetitività delle mansioni lavorative svolte;

l’obbligo di rispettare un determinato orario di lavoro;

l’obbligo di svolgere il lavoro in una specifica sede fisica;

l’organizzazione delle modalità di lavoro, da parte del datore di lavoro stesso.

Resteranno comunque valide le collaborazioni già attivate prima dell’entrata in vigore del provvedimento (anche se resta da comprendere la disciplina applicabile durante il periodo che va dall’entrata in vigore del decreto e il 1° gennaio 2016). Si prevede inoltre una sanatoria, a partire dal 1° gennaio 2016, per i datori di lavoro privati che stabilizzano: questi potranno infatti assumere con contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, i soggetti già titolari (con i medesimi datori) di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto) o i soggetti titolari di partita IVA, con conseguente estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali, connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso, fatti salvi gli illeciti già accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data precedente l’assunzione.

Una particolare deroga è concessa anche per le pubbliche amministrazioni. Le collaborazioni coordinate e continuative potranno continuare ad essere utilizzate nel settore pubblico, in attesa che arrivi in porto la riforma della pubblica amministrazione all’esame del Senato, sino al 31 dicembre 2016. Dal 1° gennaio 2017 saranno vietate, parimenti a quanto accade nel settore privato, quelle «continuative, di contenuto ripetitivo e con modalità organizzate dal committente».

sabato 26 dicembre 2015

Jobs Act, collaborazioni: requisiti per la stabilizzazione e contratto di lavoro


Nel decreto di riforma dei contratti di lavoro, attuativo del Jobs Act, è prevista per il datore di lavoro la possibilità di stabilizzazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e di persone titolari di partita IVA.

Al fine di promuovere il consolidamento di contratti flessibili (o precari, a seconda del punto di vista) il legislatore del Jobs Act ha previsto, nel decreto di riforma dei contratti di lavoro (decreto legislativo n. 81/2015), la possibilità, per il datore di lavoro, di stabilizzare contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, e di persone titolari di partita IVA.

Estesa dal 1° gennaio 2016 l’area della subordinazione, introducendo un nuovo regime per le collaborazioni personali e continuative che siano eterorganizzate dal committente. La norma contempera delle eccezioni all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato e investe sulla certificazione dei contratti. Si affaccia anche una nuova procedura di stabilizzazione con estinzione di illeciti e sanzioni a seguito di assunzione a tempo indeterminato e conciliazione individuale. Vengono abrogate le norme sul lavoro a progetto.

Questa forma di stabilizzazione di un contratto a tempo, qual è un contratto di collaborazione, potrà avvenire a decorrere dal 1° gennaio 2016 e soltanto per i datori di lavoro privati.

La stabilizzazione non rappresenterà una “sanatoria” esclusivamente per i contratti di collaborazione poco reali, ma può essere considerata una opportunità per le parti per consolidare un rapporto di lavoro con la tipologia contrattuale che lo stesso legislatore definisce “la forma comune di rapporto di lavoro” e cioè il contratto per antonomasia, che può essere solo eccezionalmente sostituito da altre forme contrattuali disciplinate dallo stesso decreto legislativo 81/2015.

Vediamo quali sono i requisiti perché si realizzi una stabilizzazione del rapporto e soprattutto perché questa procedura possa essere realmente valida contro un eventuale contenzioso proposto dal lavoratore o, soprattutto, dagli organi di vigilanza avverso i rapporti di collaborazione intercorsi precedentemente l’assunzione a tempo indeterminato.

Innanzitutto non si tratta di trasformazione del rapporto di lavoro, in quanto le due tipologie
contrattuali non possono prevedere una continuità logica. In pratica, vi dovrà essere una risoluzione anticipata del rapporto di collaborazione, qualora sia ancora in essere, e la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Quindi, il primo atto, sempreché la collaborazione sia ancora attiva in virtù di un contratto con scadenza più avanti nel tempo, è la risoluzione consensuale della collaborazione attraverso un atto di conciliazione. Conciliazione che dovrà contenere anche la convalida della risoluzione consensuale, al fine di rispettare il disposto normativo previsto dall’art. 4, della legge n. 92/2012 la Riforma Fornero.

Una volta risolto il rapporto di collaborazione, si passa a realizzare uno dei punti strategici della procedura. Infatti, il legislatore condiziona la stabilizzazione a due presupposti in capo alle parti, che dovranno essere inseriti in un atto di conciliazione sottoscritto in una delle sedi previste dagli articoli 410 e ss. del codice di procedura civile o dinanzi ad una Commissione di certificazione, ove:
a) il lavoratore sottoscriva, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, un atto tombale di “nulla più dovuto”.
b) il datore di lavoro dichiari che nei dodici mesi successivi alla assunzione non intenda recedere dal rapporto di lavoro, con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. È fatto salvo il licenziamento per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo.

Nulla vieta che anche la risoluzione consensuale del pregresso rapporto di collaborazione possa essere incardinata nell’accordo conciliativo sopraindicato.

Infine, la procedura definisce gli effetti dell’assunzione a tempo indeterminato effettuata alle condizioni suindicate: la stipula del contratto subordinato comporterà l'estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all'erronea qualificazione del rapporto di lavoro.

In pratica, si realizza una blindatura del pregresso rapporto di collaborazione con la quale gli organi ispettivi dovranno fare i conti. Questi ultimi non potranno entrare nel merito della collaborazione al fine di verificarne la genuinità.

La chiusura a verifiche ispettive non potrà avvenire qualora siano già stati accertati illeciti comportamenti sul contratto di collaborazione a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.

Una volta provveduto a stabilizzare il collaboratore con un rapporto a tempo indeterminato, la domanda sorge spontanea: il datore di lavoro (ex committente) potrà usufruire dell’esonero contributivo previsto nella nuova legge di Stabilità per l’anno 2016? Quello sgravio del 40%dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, nel limite massimo di 3.250 euro su base annua, per un periodo massimo di ventiquattro mesi?

Secondo la Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro, la risposta è affermativa, in quanto “la
procedura di stabilizzazione si attiva su espressa volontà delle parti, e solo dopo la legge regola quale forma contrattuale adottare per l’ex collaboratore.”

Il dubbio comunque resta, in quanto, l’assunzione avviene all’interno di una procedura più ampia che stabilisce la non applicazione di eventuali illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all'erronea qualificazione del rapporto di lavoro, qualora si proceda attraverso un iter ben disciplinato dall’art. 54 del decreto legislativo n. 81/2015; e visto che l’art. 4, comma 12, lettera a), della legge n. 92/2012 prescrive che “gli incentivi non spettano se l'assunzione costituisce attuazione di un obbligo preesistente, stabilito da norme di legge o della contrattazione collettiva”, sembrerebbe non applicabile l’incentivo in questione.

E' bene sottolineare che non tutte le collaborazioni eterorganizzate sono ricondotte alla disciplina del lavoro subordinato. È prevista una serie di eccezioni, che in parte, ma solo in parte, ricordano quelle già previste dall’art.61, co.1 e 3, D.Lgs. n.276/03, con riferimento al lavoro a progetto.

Ai sensi dell’art.2, co.2, la disposizione di cui al co.1 non trova applicazione in relazione:

alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del relativo settore. Tale disposizione rimette all’autonomia collettiva la possibilità di sottrarre alla disciplina del lavoro subordinato rapporti di lavoro autonomo eterorganizzato con riferimento anche ai tempi e al luogo di lavoro. Come si è già detto, se si ammette che le collaborazioni, pur eteroganizzate, conservino formalmente carattere di autonomia, allora non viene in questione il principio di indisponibilità del tipo contrattuale, che vieta al Legislatore e alle parti, individuali e collettive, di escludere l’applicazione delle discipline del lavoro subordinato a rapporti che di fatto hanno le caratteristiche del lavoro subordinato. La disposizione, piuttosto, potrebbe forse alimentare qualche dubbio di conformità rispetto al principio di cui all’art.3 Cost.. Le particolari esigenze produttive e organizzative di un certo settore possono giustificare il fatto che due collaboratori eterorganizzati nelle modalità di esecuzione della propria prestazione, anche con riferimento ai tempi e al luogo della prestazione, siano destinatari, l’uno della disciplina del lavoro subordinato, l’altro del trattamento economico e normativo definito dall’accordo collettivo? Se le “esigenze produttive e organizzative” si riducessero alla mera necessità di contenere il costo del lavoro in un certo settore qualche dubbio si porrebbe;

alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni, come individuati e disciplinati dall’art.90, L. n.289/02.

Le tre eccezioni richiamate riproducono, al netto di alcuni minimi aggiustamenti lessicali, altrettante ipotesi già escluse dall’applicazione della disciplina del lavoro a progetto.

domenica 22 novembre 2015

Jobs act: il nuovo contratto di collaborazione per il 2016


Collaborazioni organizzate dal committente, è il nome che il decreto utilizza per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (spesso noti come co.co.co.) nati nel 1997 con la cosiddetta legge Treu, poi modificati – in molti casi – in contratti a progetto (co.co.pro.) dal DLgs. 276/03.

Questi contratti erano e restano una categoria intermedia tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato, in cui c’è in teoria la piena autonomia operativa e non c’è vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il committente all’interno dell’organizzazione aziendale. Per evitare che questi contratti mascherino in realtà lavoro subordinato con minori costi e tutele, il decreto introduce le caratteristiche per individuare i rapporti di collaborazione da ritenere invece subordinati, a partire dall’1 gennaio 2016: prestazioni esclusivamente personali e continuative, organizzate dal committente anche in riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

La seconda indicazione – tempi e luogo – è quella più chiara e stringente, ma il decreto introduce comunque quattro possibilità di deroga, per le quali non vale quanto sopra indicato:

– collaborazioni realizzate sulla base di accordi collettivi nazionali stipulati dai sindacati in ragione di particolari esigenze produttive e organizzative di uno specifico settore;

– collaborazioni relative a professioni intellettuali per la quali è necessaria l’iscrizione agli albi professionali (ingegneri, giornalisti, avvocati, ecc.);

– attività specifiche di componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e di partecipanti a collegi e commissioni;

– prestazioni per associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate a federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate e enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI (allenatori e istruttori, principalmente).

Col decreto vengono abrogate tutte le norme esistenti al riguardo, che sopravvivono solo per i contratti ancora in essere, tuttavia le nuove indicazioni valgono a partire dal 2016: per circa sei mesi questo tipo di contratti non potranno essere quindi stipulati.

Con l’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act (dlgs 81/2015) sono cambiati i contratti di collaborazione: vediamo quali sono le principali caratteristiche delle nuove formule, a partire dall’autonomia gestionale limitata, che li distanzia sempre di più dal rapporto di lavoro autonomo, lasciando tuttavia, un certo grado di libertà, quel tanto che permette di farli discostare anche dalla subordinazione.

In pratica, la nuova normativa sul riordino dei contratti di lavoro ha profondamente modificato i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co.co.co.): se l’intento dichiarato era quello di abolirli a vantaggio di formule contrattuali stabili, nella pratica sussistono numerose eccezioni che rendono tali collaborazioni ancora stipulabili, ma prive di gran parte delle garanzie e tutele finora previste, soprattutto quelle stabilite dal decreto legislativo 276/2003.

Normativa
Il riferimento normativo per la nuova disposizione legislativa in materia di collaborazioni è l’articolo 409 c.p.c., inserito in realtà nel “Titolo quarto” dedicato alle “Norme per le controversie in materia di lavoro”. A rendere possibili nuove forme di collaborazione è anche il Collegato Lavoro alla Legge di Stabilità 2016.

Entrando nel concreto, il decreto attuativo del Jobs Act ha:
abrogato tutti gli articoli della Riforma Biagi sulle collaborazioni coordinate e continuative anche a progetto;
abrogato le norme della Riforma del Lavoro Fornero che limitavano l’utilizzo delle collaborazioni rese da persone titolari di posizione fiscale ai fini IVA (le cosiddetta “partite IVA”).
Ecco come viene definita dalla norma la tipologia contrattuale in esame:
“Rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.

Nuova presunzione di subordinazione
Il decreto ha stabilito i parametri da utilizzare per un rapporto di collaborazione autentico (articolo 2). In sostanza, il contratto non deve contenere alcune modalità esplicative della prestazione. Nel caso in cui queste siano presenti, dal 1° gennaio 2016, ai rapporti di collaborazione interessati si applicherà la disciplina del rapporto di lavoro subordinato:

“A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Si tratta di elementi che devono essere presenti in contemporanea; la mancanza di uno solo di questi elementi non fa scattare la presunzione assoluta.

Perché i contratti di collaborazione vengano giudicati autentici devono essere:
collaborazioni continuative, svolte in maniera prevalentemente personale e autonomamente organizzate dal collaboratore;

collaborazioni disciplinate (trattamento economico e normativo), dai CCNL (stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale), in ragione delle particolari

esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;

collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;

collaborazioni rese in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate al C.O.N.I.;

collaborazioni certificate dalle Commissioni di Certificazione, in base all’art. 76 del D.L.vo n. 276/2003.


domenica 8 novembre 2015

Diritti del lavoratore: demansionamento e dequalificazione professionale


La sentenza n. 20473 della Corte di Cassazione  sezione lavoro del 29 settembre 2014, ha stabilito che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l'asserito demansionamento, in quanto va  evitato, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale.

Quando il dipendente viene declassato e adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione La recente approvazione della riforma del lavoro, detta Jobs act, ha introdotto fra le altre cose il concetto di demansionamento.

Vediamo di capire meglio se e quando è lecito, e quali siano i margini di manovra delle aziende e dei lavoratori.

Il dipendente non può essere infatti adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato (è il cosiddetto demansionamento): il divieto è volto ad evitare la lesione della professionalità acquisita dal lavoratore.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda. Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:
– modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o
– previste dai contratti collettivi.

In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Con le recenti modifiche approvate con il Job Act è invece possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita).

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.
Per esempio: a un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificata al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, soprattutto in materia di onere della prova e del risarcimento del danno. In particolare, secondo i giudici, il demansionamento è escluso nei casi di:

– adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

– riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore;

– sopravvenuta infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.

Inoltre, un eventuale demansionamento non va valutato in rapporto ad un incarico di natura temporanea, bensì alle mansioni originarie e tipiche della qualifica del lavoratore. Per cui, se il lavoratore viene adibito solo temporaneamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni ciò non significa che sia stato demansionato.

Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Sono tuttavia esclusi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.

Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Pertanto il lavoratore può agire in tribunale, con una causa di lavoro, e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro – anche provvisoria – recedere dal contratto per giusta causa.

Il ricorso al giudice del lavoro costituisce lo strumento per accertare la violazione del divieto di demansionamento. Accertata la violazione, il giudice può disporre a tutela del lavoratore:

– la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;

– la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate medio tempore (es. nel caso di attribuzione di mansioni inferiori con conseguente trattamento economico deteriore);

– la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subito.

Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale deve essere sempre provato dal lavoratore che deve dimostrare una riduzione dello stipendio e/o le conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. In difetto, il giudice, anche qualora rilevi l’avvenuto demansionamento e l’illegittimità della condotta del datore, non può liquidare alcun indennizzo al dipendente.

Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale, è, infatti, necessario fornire prove o allegazioni del male subito.

In tal senso il danno da dequalificazione o da demansionamento può consistere:

– sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio (sempre di natura economica) subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno

– sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.

Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è ritenuto legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede.
Il rifiuto della prestazione lavorativa può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e lealtà, risulta oggettivamente ragionevole e logico, cioè deve trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate. In tal caso, l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro.

Comunque sul datore di lavoro grava l’obbligo di comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta, pena la nullità. In materia di onere della prova e risarcimento del danno, poi, è intervenuta la giurisprudenza.

In particolare, il demansionamento viene escluso dai giudici nei casi di:

 adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non comprese nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo . In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate;

 intervenuta infermità permanente, a patto che tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.


domenica 25 ottobre 2015

Riduzione dello stipendio ai lavoratori con il Jobs act è possibile


La riforma del lavoro detta Jobs act non solo ha cambiato il paradigma dei contratti di lavoro per i neoassunti, ma tramite i decreti attuativi finirà per impattare tangibilmente anche sui contratti in essere. Innanzitutto in virtù dei decreti su controllo a distanza dei dipendenti e demansionamento, in quest’ultimo caso con possibilità di diminuzione dello stipendio. La possibilità di tagliare lo stipendio, anche se ancora non è stata adeguatamente valutata dalla giurisprudenza, poiché non sono emerse questioni inerenti, è in realtà uno degli aspetti più rilevanti del decreto, che ha modificato il Codice Civile.

Quindi ha previsto il demansionamento del lavoratore a condizioni che sono nelle mani del datore di lavoro.

Nella peculiarità, il decreto stabilisce che:
“In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.
Appare evidente come la modifica degli assetti organizzativi sia un presupposto nelle mani dell’azienda e che abbia un significato molto generale, forse troppo.

L’assegnazione ad una mansione pari al livello contrattuale inferiore non dovrà però intaccare il margine contributivo raggiunto.

E se la discesa del lavoratore sembra decisione facilmente applicabile, non è altrettanto per la salita, ovvero per il passaggio ad una mansione superiore, che potrà avvenire in termini più lunghi. Prima, infatti, l’assegnazione a un livello superiore diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell’attività, con il decreto, questo arco di tempo passerà da tre a sei mesi.

Il decreto prevede, inoltre, la possibilità di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione.

Questo significa che il lavoratore in accordo con il datore di lavoro può stipulare livelli inferiori di tutela.

È seppure tale operazione avviene con il consenso del dipendente, che non è lasciato da solo di fronte all’imprenditore, e pur vero che l’azienda può mettere il dipendente di fronte a una scelta: o il lavoratore accetta le condizioni, che possono comprendere riduzione di mansione o di  stipendio, o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità.

La nuova formulazione del Codice, infatti, non solo ammette il demansionamento, ma aggiunge – previo accordo tra datore e lavoratore in sede protetta – la possibilità di ridurre la retribuzione: possibilità esplicitamente vietata dalla vecchia formulazione del Codice Civile, che prevedeva la nullità di ogni patto di diminuzione della retribuzione. Formulazione fin qui sempre condivisa dai giudici, anche in presenza di accordi privati. Con l’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs act cambia tutto, gli accordi di diminuzione dello stipendio sono validi, anche se individuali, rispettando determinate condizioni.

Ora in sostanza, perché il patto individuale di modifica (sia delle mansioni, che della categoria, dell’inquadramento e della retribuzione) sia valido, devono essere rispettate le seguenti disposizioni:
l’accordo deve essere concluso nelle sedi di conciliazione deputate (le cosiddette sedi protette:

commissioni sindacali, presso la Dtl, commissioni di certificazione dei contratti…);

deve sussistere l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione;
in alternativa, deve sussistere l’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità;

in alternativa, deve sussistere l’interesse del lavoratore al miglioramento delle condizioni di vita.

I minimi retributivi previsti dai Contratti Collettivi, corrispondenti all'inquadramento (livello) del lavoratore, restano in ogni caso inderogabili, anche nei casi in cui non sia applicato alcun Contratto Collettivo, poiché il giudice può utilizzare tali minimali come misura di adeguatezza della remunerazione, in base alla Costituzione.

Inoltre con la legge di stabilità del 2016 è stato inserito un comma che allarga il tetto agli stipendi dei super-manager delle partecipate bello Stato e degli enti locali, anche ai dirigenti e ai dipendenti delle società. Oggi esistono tre tetti alle retribuzioni a seconda delle dimensioni dell’azienda: il più alto di 240 mila euro, uno intermedio di 192 mila euro, e uno più basso di 120 mila euro. La norma attuale fermo restando che il limite massimo di 240 mila euro, i  tetti dovranno diventare cinque. Dunque è probabile che la soglia di 120 mila euro sarà abbassata. Ma la vera novità è che i limiti non si applicheranno più solo agli amministratori delegati e ai presidenti, ma a tutti i dipendenti delle società.

I tetti saranno cumulativi, nel senso che terranno conto di tutti i compensi percepiti, anche da parte di altre società o amministrazioni pubbliche. La stessa norma contiene anche un'altra nota. Quando nei consigli di amministrazione di un'azienda pubblica viene nominato un dipendente dello Stato o di un ente locale, il gettone di presenza incassato per la poltrona nel cda, dovrà obbligatoriamente essere devoluto all'amministrazione di appartenenza.


giovedì 8 ottobre 2015

I congedi di maternità, paternità e parentali come cambiano


Per quest’anno i genitori possono chiedere il congedo non più fino a 8 ma fino a 12 anni di vita del bambino. Inoltre, il Jobs Act alza anche da 3 a 6 anni i limiti temporali di indennizzo, nel quale il genitore in congedo percepisce il 30% dello stipendio. La stessa norma si applica ai casi di adozione o affidamento. La riforma  consente ai genitori lavoratori o lavoratrici dipendenti di fruire dei periodi di congedo parentale residui fino a 12 anni di vita del figlio oppure fino ai 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato. Tale estensione è possibile per i periodi di congedo fruiti dal 25 giugno 2015 al 31 dicembre 2015.

Inoltre i periodi congedo parentale fruiti da 3 a 6 anni di vita del figlio oppure da 3 a 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato sono indennizzati, entro il limite massimo complessivo tra i due genitori di 6 mesi, nella misura del 30% della retribuzione media giornaliera, a prescindere dalle condizioni di reddito del genitore richiedente.

I periodi di congedo parentale fruiti tra gli 8 anni ed i 12 anni di vita del bambino, oppure tra gli 8 anni ed i 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, non sono in ogni caso indennizzabili.

Resta possibile estendere l’indennizzo per periodi di congedo ulteriori rispetto ai 6 mesi, oppure fra i 6 e gli 8 anni del bambino, se il reddito individuale del genitore richiedente è inferiore a 2,5 volte il trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. Tale limite di reddito, annualmente rivalutato, è pari per l’anno 2015 ad euro 6mila 531,07. I periodi che vanno dagli 8 ai 12 anni di vita del figlio, non sono mai indennizzabili. La fruizione del congedo parentale è sempre coperta da contribuzione figurativa fino ai 12 anni del figlio (quindi anche per i periodi non indennizzati).

Nel caso in cui i genitori abbiano già fruito solo in parte del congedo parentale nei primi 8 anni di vita del figlio, possono utilizzare i giorni rimanenti fino al compimento del 12esimo anno di età, a partire dal 25 giugno. In questo caso, come spiegato dall’INPS per il solo mese di luglio si presenta domanda cartacea usando l’apposito modulo INPS, per consentire l’adeguamento del sistema informatico per la richiesta online (che continua a funzionare per le richieste relative ai primi 8 anni di vita del bambino). La norma si applica anche per i casi di adozione e affidamento, in questo caso i 12 anni partono dall’ingresso del minore in famiglia (i congedi non possono comunque essere fruiti quando il figlio diventa maggiorenne).

Durata del congedo

limite individuale pari a 6 mesi, elevabile a 7 nel caso in cui il padre lavoratore dipendente fruisca di almeno 3 mesi di congedo parentale;

limite complessivo tra i genitori pari a 10 mesi, elevabili a 11 nel caso in cui il padre fruisca di congedo parentale per un periodo non inferiore a 3 mesi;

limite per il genitore solo pari a 10 mesi;

periodi di congedo parentale fruiti nell’arco temporale dagli 8 anni ai 12 anni di vita del bambino, oppure dagli 8 anni ai 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato non sono in alcun caso indennizzati.

Rispetto alla disciplina previgente - che individuava negli 8 anni di vita del bambino, oppure negli 8 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, il limite temporale oltre il quale non era più possibile fruire del congedo parentale – l’attuale disciplina estende l’arco temporale di fruibilità del congedo dagli 8 ai 12 anni.

Esempio: genitore “solo” di un figlio che ha già 11 anni di vita, per il quale residuino ancora 10 mesi di congedo parentale. Il congedo è fruibile fino ai 12 anni di vita ma non è indennizzabile.
genitore, lavoratrice o lavoratore dipendente, ha diritto all’indennità di congedo parentale, pari al 30% della retribuzione media giornaliera, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6 mesi, fruiti entro i 6 anni di vita del bambino oppure entro i 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato.

Quindi, rispetto alla disciplina precedente - che prevedeva l’indennizzo del 30% per un periodo complessivo di sei mesi di congedo parentale fruito fino a 3 anni di vita del bambino, oppure fino a 3 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato – l’attuale disciplina comporta che anche i periodi di congedo parentale fruiti dai 3 a 6 anni siano indennizzati a prescindere dal reddito del genitore richiedente.

Esempio 1: genitore di un figlio che ha 5 anni, per il quale residuino ancora periodi di congedo parentale. Questi periodi residui, se fruiti tra il 25 giugno ed il 31 dicembre 2015, danno diritto all’indennità al 30% purché i periodi di congedo fruiti da entrambi i genitori non superino i 6 mesi.

Se la fruizione dei periodi supera i 6 mesi complessivi tra i genitori, il congedo è indennizzabile subordinatamente alle condizioni di reddito.

Le finalità delle misure del provvedimento sono quelle precipue di tutelare la maternità delle lavoratrici – ma in verità le norme guardano con attenzione anche alla tutela della paternità dei lavoratori – e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori.

lunedì 21 settembre 2015

Fondi di solidarietà e ammortizzatori sociali le regole per il 2015 - 2016


L’intervento sugli ammortizzatori sociali nel Jobs Act, tocca le tutele del reddito sia in caso di sospensione del rapporto di lavoro sia in caso di disoccupazione. I principi e criteri prevedono: tutele del reddito universali in caso di disoccupazione; tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori; razionalizzazione della normativa in materia di integrazione salariale; coinvolgimento attivo dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro e dei beneficiari di ammortizzatori sociali; semplificazione delle procedure amministrative e riduzione gli oneri non salariali del lavoro.

L’impianto resta quello disegnato dalla legge Fornero del 2012 ma viene allargato il raggio d’azione: da gennaio 2016 l’obbligo di contribuire ai fondi è infatti esteso ai datori che occupano più di 5 dipendenti e non rientrano nella cassa integrazione. Entrano così in gioco circa 150mila nuove imprese per 1,3 milioni di lavoratori, rispetto alla platea precedente, limitata alle aziende dai 16 addetti in su.

Con il nuovo meccanismo (che entrerà in vigore l’1 gennaio 2016) gli ammortizzatori sociali andranno a coprire circa 600.000 imprese e 5.600.000 lavoratori

Integrazioni salariali ordinarie (CIGO) e straordinarie (CIGS)

I principali interventi riguardano:
l’estensione dei trattamenti di integrazione salariale agli apprendisti assunti con contratto di apprendistato professionalizzante, con la conseguente estensione degli obblighi contributivi (gli apprendisti diventano destinatari della CIGO e, nel caso in cui siano dipendenti di imprese per le quali trova applicazione solo la CIGS, di quest’ultimo trattamento, limitatamente alla causale di crisi aziendale);

la revisione della durata massima complessiva delle integrazioni salariali: viene previsto, infatti, che per ciascuna unità produttiva, il trattamento ordinario e quello straordinario di integrazione salariale non possano superare la durata massima complessiva di 24 mesi in un quinquennio mobile.

Utilizzando i contratti di solidarietà tale limite può essere portato a 36 mesi nel quinquennio mobile;
Integrazioni salariali ordinarie (CIGO)

I principali interventi riguardano:

una riduzione generalizzata del 10% sul contributo ordinario pagato su ogni lavoratore.
l’introduzione del divieto di autorizzare ore di integrazione salariale ordinaria eccedenti il limite di un terzo delle ore ordinarie lavorabili nel biennio mobile, con riferimento a tutti i lavoratori dell’unità produttiva mediamente occupati nel semestre precedente la domanda di concessione dell’integrazione salariale; e ciò, al fine di favorire la rotazione nella fruizione del trattamento di CIGO, nonché il ricorso alla riduzione dell’orario di lavoro rispetto alla sospensione;

Integrazioni salariali straordinarie (CIGS)
I principali interventi riguardano:

la razionalizzazione della disciplina concernente le causali di concessione del trattamento: nello specifico, viene previsto che l’intervento straordinario di integrazione salariale possa essere concesso per una delle seguenti tre causali:

riorganizzazione aziendale (che riassorbe le attuali causali di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale);

crisi aziendale, ad esclusione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo di essa. Viene previsto, tuttavia, che può essere autorizzata, per un limite massimo di 6 mesi e previo accordo stipulato in sede governativa, entro il limite di spesa di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018, una prosecuzione della durata del trattamento di CIGS, qualora all’esito del programma di crisi aziendale l’impresa cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale);

contratto di solidarietà: pertanto, gli attuali contratti di solidarietà di tipo “A”, previsti per le imprese rientranti nell’ambito di applicazione della CIGS, diventano una causale di quest’ultima;

l’introduzione della previsione che per le causali di riorganizzazione aziendale e crisi aziendale possano essere autorizzate sospensioni del lavoro soltanto nel limite dell’80% delle ore lavorabili nell’unità produttiva nell’arco di tempo di cui al programma autorizzato; e ciò, al fine di favorire la rotazione nella fruizione del trattamento di CIGS; questa disposizione non opera per un periodo transitorio di 24 mesi dall’entrata in vigore del decreto;

la revisione della durata massima della CIGS e dei contratti di solidarietà; nello specifico:
per la causale di riorganizzazione aziendale viene confermata l’attuale durata massima di 24 mesi per ciascuna unità produttiva, eliminando però la possibilità, attualmente prevista, di concedere le c.d. “proroghe complesse” (ossia due proroghe della durata massima di 12 mesi ciascuna);

per la causale di crisi aziendale viene confermata la durata massima di 12 mesi;

per la causale di contratto di solidarietà viene confermata, rispetto agli attuali contratti di solidarietà di tipo “A”, la durata massima di 24 mesi. Tale durata può essere estesa a 36 mesi, in quanto viene previsto che la durata dei trattamenti per la causale di contratto di solidarietà, entro il limite di 24 mesi nel quinquennio mobile, sia computata nella misura della metà. Oltre tale limite, la durata di tali
trattamenti viene computata per intero.

In sintesi
Cassa integrazione in deroga. Può essere autorizzata fino al 31 dicembre 2016 con appositi provvedimenti di concessione, i datori destinatari sono: Imprese di cui all'articolo 2082 Codice civile, esclusi i datori non imprenditori (sono stati riammessi gli studi professionali). Beneficiari: operai, impiegati e quadri, compresi apprendisti e somministrati. Requisiti: anzianità lavorativa di 12 mesi e devono essere state fruite le ferie residue. Quando e durata Crisi aziendali; ristrutturazione o riorganizzazione, massimo 5 mesi per il 2015. L’indennità 80% della retribuzione complessiva che sarebbe spettata, ridotto progressivamente in caso di proroga.

Contratti di solidarietà «B».  Sopravvivono fino al 30 giugno 2016. Datori destinatari Aziende non rientranti nel campo di applicazione delle Cig. I beneficiari sono i lavoratori subordinati, esclusi i dirigenti, dipendenti da: imprese con più di 15 dipendenti, che abbiano avviato la procedura di mobilità; imprese con meno di 15 dipendenti che stipulano contratti di solidarietà al fine di evitare licenziamenti plurimi individuali; imprese alberghiere, aziende termali pubbliche e private operanti in località territoriali con gravi crisi occupazionali; imprese artigiane. Indennità 25% della retribuzione persa. Durata Massimo 24 mesi

Fondi di solidarietà bilaterali, sistema in vigore dal 2016. Sono istituiti presso l'Inps, con decreto Lavoro-Economia, entro 90 giorni dagli accordi istitutivi del fondo. Obbligatori per tutti i settori che non rientrano nella Cigo o Cigs, in relazione ai datori che occupano in media più di 5 dipendenti (rientrano anche gli apprendisti) . I fondi già costituiti si adeguano alle nuove norme entro il 31 dicembre 2015.

Assegno ordinario per le causali Cigo/Cigs
-importo pari alle integrazioni salariali (80% retribuzione persa nei limiti dei massimali); durata compresa tra 13 sett. nel biennio mobile e le durate di Cigo/Cigs

Assegno di solidarietà
stipula di accordi collettivi di solidarietà ; durata max 12 mesi nel biennio mobile; importo pari alle integrazioni salariali (80% retribuzione persa)

Fondi «puri» e alternativi
Fondi di solidarietà bilaterali «puri»
Erogano l'assegno ordinario
Se il fondo viene costituito dopo il 2016 la contribuzione è almeno pari allo 0,45% (contribuzione addizionale non inferiore all'1,5%)

Fondi di solidarietà bilaterali alternativi
Si tratta dei fondi costituiti in riferimento ai settori dell'artigianato e della somministrazione di lavoro. Assicurano almeno una delle seguenti prestazioni: assegno ordinario o quello di solidarietà. La contribuzione addizionale non può essere inferiore all'1,5%

Fondo d'integrazione salariale

Prestazioni
Assegno di solidarietà (massimo 12 mesi nel biennio mobile – per i datori fino a 15 dipendenti, richiedibile per eventi dal 1° luglio 2016); l'ulteriore assegno ordinario solo per i datori oltre i 15 dipendenti fino a un massimo 26 settimane nel biennio mobile, per le stesse causali di Cigo (no maltempo) e Cigs (per crisi o riorganizzazione)

Durata
La durata massima dell'assegno è di 4 volte i contributi versati (questo limite è modulare nel periodo transitorio 2016-2021)

Contributi
Contributo ordinario (2/3 sul datore e 1/3 sul lavoratore): nelle aziende oltre 15 dipendenti è pari allo 0,65%, in quelle fino a 15 dipendenti è dello 0,45 %

Contributo addizionale: 4% della retribuzione persa

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