giovedì 28 marzo 2013

Tfr per il 2013, domande telematiche per le aziende


Nuove modalità telematiche per la domanda di erogazione diretta del Tfr a carico del Fondo di tesoreria gestito dall'Inps. E’ quanto ha spiegato l’Inps con la circolare n. 21 del 2013.

Nella circolare l'Inps ha precisato che per la "trasmissione della dichiarazione di incapienza mediante modalità telematica" è previsto un periodo transitorio di sperimentazione della durata di 180 giorni a partire dal 7 febbraio, data di pubblicazione della circolare.

Durante questo periodo i soggetti interessati (datore di lavoro ovvero dipendente delegato dallo stesso; i soggetti abilitati alla cura degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti; e i  responsabili delle procedure concorsuali e i responsabili della gestione dell'azienda in sostituzione del datore di lavoro) potranno inviare le domande anche con il vecchio metodo, cioè con i modelli cartacei FTES01/02/03.

Sempre entro 180 giorni gli operatori Inps provvederanno a inserire manualmente nel sistema telematico le domande presentate su carta.

L’ente di previdenza ha precisato che la trasmissione della dichiarazione di incapienza da parte dell’azienda dovrà essere effettuata attraverso uno dei seguenti canali:
- accedendo al sito internet WWW.INPS.IT alla sezione “Servizi on line – Per tipologia di utente” “Aziende, consulenti e professionisti – Domanda Fondo Tesoreria”.
- inviando un file telematico XML. Per la trasmissione dei dati da parte delle aziende sarà possibile procedere tramite invio FTP in formato XML; le specifiche tecniche per la trasmissione e i parametri di configurazione per la connessione FTP possono essere richiesti alla seguente casella di posta: Info.FondoTesoreria@inps.it.

Il Contact Center Multicanale Inps Inail, raggiungibile al numero 803 164 da rete fissa ed al numero 06.164.164 da rete mobile, provvederà a fornire, a richiesta, esclusivamente supporto informativo per il corretto utilizzo del servizio web.

L’identificazione del soggetto per l’accesso alla trasmissione della dichiarazione di incapienza avverrà tramite PIN.
Il flusso delle domande telematiche viene memorizzato in un data-base centralizzato. Dal data-base le domande transitano, in maniera automatica ed in relazione al codice di avviamento postale dei lavoratori interessati dall’erogazione, alle Sedi che gestcono i pagamenti.

Marzo 2013 una buona notizia per i lavoratori Telecom

Firmato l'accordo con i sindacati per salvaguardare i livelli occupazionali in Telecom scongiurando i licenziamenti. Dei tremila esuberi individuati 2.500 saranno gestiti con contratti di solidarietà mentre 500 lavoratori andranno in pensione.

Dopo una trattativa per tutta la notte è stato appena firmato l'accordo con i sindacati per salvaguardare i livelli occupazionali in Telecom attraverso il miglioramento della produzione e scongiurando i licenziamenti.

Dei 3 mila esuberi individuati in Telecom Italia Spa, 2 mila 500 saranno gestiti con contratti di solidarietà mentre 500 lavoratori lasceranno la società per andare in pensione, avendo maturato i requisiti necessari. Altri 350 lavoratori di Telecom IT saranno gestiti con analoghi ammortizzatori sociali.

L'azienda e i sindacati, nell'accordo che hanno raggiunto questa mattina dopo la trattativa notturna, prevedono nei prossimi anni una forte internalizzazione del lavoro. In questo modo punterebbero a rendere stabile la tutela dei livelli di occupazione.

Hanno affermato alla Reuters il segretario nazionale SLC-Cgil, Michele Azzola, e il segretario nazionale Uilcom, Salvo Ugliarolo, precisando che l'intesa ha un valore di due anni, passati i quali, in mancanza di un miglioramento della situazione, gli esuberi si potrebbero concretizzare.

Azzola ha spiegato che l'accordo prevede contratti di solidarietà per 2.500 Fte (Full time equivalent) e l'uscita di 160 persone che hanno raggiunto 37 anni di anzianità. "Restano 500 posizioni aperte complessivamente, cioè la possibilità di 500 uscite, ma, se si escludono i 160, sono su base volontaria", ha detto Azzola. "A consuntivo le uscite volontarie dovrebbero essere contenute".

"L'accordo di oggi è difficilmente ripetibile", ha aggiunto Azzola, paventando un reale rischio esuberi se tra 24 mesi la situazione economica non migliora.

mercoledì 27 marzo 2013

Apprendistato dopo la circolare n. 5 del 2013 Ente Regione

L’apprendistato secondo la riforma del mercato del lavoro è visto come principale strumento per lo sviluppo professionale del lavoratore, individuando tale istituto come la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».Ricordiamo che in tutte le ipotesi in cui il rapporto di apprendistato venga “disconosciuto”, sia per violazione degli obblighi di carattere formativo, che per assenza dei presupposti di instaurazione del rapporto stesso (ad es. violazione limiti numerici, violazione degli oneri di stabilizzazione, assenza requisiti anagrafici ecc.), il lavoratore è considerato un “normale” lavoratore subordinato a tempo indeterminato.

Vediamo alcune importanti fasi di controllo tracciate dalla circolare. Una prima fase riguarda l'individuazione del momento in cui si può ritenere violata la disciplina formativa del contratto per giustificare un intervento ispettivo. Con riguardo all'apprendistato professionalizzante sono due gli aspetti da considerare a seconda che si tratti di formazione trasversale o di formazione di tipo professionalizzante: laddove la Regione decida di rendere facoltativa la formazione trasversale, in assenza della configurabilità di un vero e proprio obbligo, non è possibile l'adozione di un provvedimento di carattere sanzionatorio; laddove il contratto collettivo di riferimento scelga di rimettere al datore di lavoro l'obbligo di erogare anche la formazione trasversale, nelle more dell'intervento della Regione, non potrà non ravvisarsi un corrispondente "ampliamento" delle responsabilità datoriali e pertanto dei connessi poteri sanzionatori in capo al personale ispettivo.

Una volta accertata la violazione dei contenuti formativi, scatta una fase due che ha lo scopo di verificare se è possibile recuperare l'interesse sostanziale della norma e far fare la necessaria formazione all'apprendista. Proprio su questo punto interviene la circolare della direzione generale per l'Attività ispettiva, fornendo un criterio di ragionamento da applicare in modo uniforme sul territorio.

Ricordiamo inoltre che, se la Regione attiva i corsi della formazione trasversale dopo l'inizio del rapporto di apprendistato non è necessario il recupero delle ore riferite ai periodi del contratto già trascorsi. Tuttavia, se la Regione lo prevedesse espressamente in un proprio provvedimento, allora la violazione di questo obbligo potrebbe comportare il disconoscimento del rapporto di lavoro.

Alla luce delle novità contenute nella circolare, è necessario individuare il momento in cui l'azienda incorre in una violazione nella gestione della formazione dell'apprendista. Il primo presupposto per violare la norma è che il datore di lavoro impedisca all'apprendista di ricevere la formazione che costituisce la causa mista del contratto. L'impedimento deve essere di esclusiva competenza del datore di lavoro. Un secondo presupposto che fa scattare la sanzione è il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi.
Impedimento all'apprendista di ricevere la formazione, la responsabilità prevista dalla legge si realizza quando il datore impedisce all'apprendista di seguire i corsi formativi regionali che devono risultare effettivamente operanti (e non solo disciplinati). La responsabilità del datore si potrebbe realizzare anche quando esso violi adempimenti amministrativi previsti dalla Regione ai fini del coinvolgimento dell'apprendista nei percorsi formativi. D'altronde, l'inoperosità del datore di lavoro potrebbe pregiudicare l'organizzazione formativa da parte dell'ente preposto.

Posizione più tenera quando la Regione decida di rendere facoltativa tale formazione: in questo caso la mancata formazione non può dare luogo ad alcun provvedimento di carattere sanzionatorio. E ciò anche se il contratto collettivo di riferimento scelga di rimettere al datore di lavoro l'obbligo di erogare anche la formazione trasversale.

Con riferimento alle modalità di erogazione della formazione cosiddetta "formale" la previsione dei Ccnl trae origine nel Decreto 26 settembre 2012. Il quale prevede che per apprendimento formale si intende quello erogato in un contesto organizzativo e strutturato appositamente progettato come tale, in termini di obiettivi di apprendimento e tempi o risorse per l'apprendimento: a questo riguardo, la declinazione spetta ai contratti collettivi. Per esempio, il contratto del commercio prevede che la formazione interna può essere svolta in aula, on the job, nonché con strumenti di formazione a distanza o di e-learning. In questo ultimo caso, il contratto collettivo prevede che l'attività di accompagnamento potrà essere realizzata in modalità virtualizzata e attraverso strumenti di tele-affiancamento o videocomunicazione da remoto. Ovviamente, la scelta di svolgere la formazione interna deve presupporre la presenza di personale idoneo a trasferire le competenze.

Questa modalità di erogazione della formazione deve necessariamente essere certificata in un documento interno completo di firma dell'apprendista e del contenuto della formazione erogata. L'attività ispettiva sarà concentrata a verificare la documentazione che "certifica" la formazione svolta e ad acquisire le dichiarazioni del lavoratore interessato e di altri soggetti in grado di confermare l'effettività di tale formazione. Peraltro, la Direzione generale per l'attività ispettiva precisa che nei casi di più complessa valutazione è opportuno procedere alla emanazione della "disposizione" per consentire pur sempre una possibilità di recupero del debito formativo.

Mentre è stato dato il via libera all'assunzione di apprendisti anche per le aziende che operano nei settori in cui il contratto collettivo (anche interconfederale) non ha regolato la materia, ovvero per le aziende che regolano i rapporti di lavoro con contratti individuali plurimi: in questo caso è sufficiente applicare le previsioni contenute in un contratto collettivo appartenente a un settore affine a quello di riferimento.
Questa precisazione ha il merito di togliere gli ultimi ostacoli all'applicazione generalizzata del contratto di apprendistato. Infatti una prima categoria è rappresentata dalle imprese che operano sulla base di un contratto collettivo aziendale, ovvero un contratto individuale plurimo. Questi sono casi molto diffusi nell'ambito di scuole o università private. Un altro settore interessato è quello delle palestre e impianti sportivi che sembrerebbe ancora non aver disciplinato la possibilità di assumere apprendisti.

Apprendistato dopo la circolare n. 5 del 2013 e la formazione in azienda


L’apprendistato secondo la riforma del mercato del lavoro è visto come principale strumento per lo sviluppo professionale del lavoratore, individuando tale istituto come la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».  Ricordiamo che in tutte le ipotesi in cui il rapporto di apprendistato venga “disconosciuto”, sia per violazione degli obblighi di carattere formativo, che per assenza dei presupposti di instaurazione del rapporto stesso (ad es. violazione limiti numerici, violazione degli oneri di stabilizzazione, assenza requisiti anagrafici ecc.), il lavoratore è considerato un “normale” lavoratore subordinato a tempo indeterminato.

Innanzitutto chiariamo che la L. n. 92/2012 è intervenuta a modificare anche la disciplina dell’apprendistato, contenuta nel recente d.lgs. n. 167/2011. Si tratta di interventi che interessano trasversalmente tutte le tipologie di apprendistato disciplinate dal Decreto (per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e ricerca) e di interventi legati alla specifica disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante.

Per quanto riguarda gli obblighi formativi e gli aspetti sanzionatori. Non è prevista nessuna sanzione per il contratto di apprendistato se il datore di lavoro non effettua nel primo anno la formazione annunciata dal piano individuale; al contrario, la violazione genera le sanzioni amministrative e di conversione del rapporto se nel secondo anno di durata del contratto il datore di lavoro non svolge almeno il 40% delle ore di formazione accumulate oppure, nel terzo anno, il 60% delle ore accumulate.

Relativamente agli aspetti sanzionatori è stato stabilito che “in caso di inadempimento nella erogazione della formazione di cui sia esclusivamente responsabile il datore di lavoro e che sia tale da impedire la realizzazione delle finalità, il datore di lavoro è tenuto a versare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento, con esclusione di qualsiasi altra sanzione per omessa contribuzione”. Qui è sono messi in evidenza due aspetti uno la esclusiva responsabilità del datore di lavoro e della gravità della violazione, tale da impedire il raggiungimento dell’obiettivo formativo.

Questo è uno dei chiarimenti contenuti nella circolare n. 5/2013  del ministero del Lavoro che ha fatto il punto sulla corretta applicazione del contratto di apprendistato dopo le recenti modifiche introdotte dalla legge 92/2012. La circolare precisa anche che gli apprendisti in somministrazione possono essere assunti solo a tempo indeterminato: sono così nulle le clausole di alcuni Ccnl che dispongono in modo diverso. Inoltre, le aziende con meno di 10 dipendenti dovranno rispettare le percentuali di stabilizzazione fissate dalla contrattazione collettiva. Mentre le aziende con un organico superiore dovranno rispettare i parametri di legge, ossia confermare in servizio almeno il 30% dei contratti venuti a scadere negli ultimi 24 mesi (50% dal 18 luglio 2015).

Solo se le percentuali sono rispettate e quindi il datore ha raggiunto un numero minimo di ore svolte, allora l'ispettore può passare alla fase tre: vale a dire impartire una "disposizione" per effettuare il resto della formazione entro un termine. Diversamente, la fase tre è rappresentata dall'applicazione integrale del regime sanzionatorio.

Nell’ambito dell’apprendistato e dei contratti somministrazione di lavoro sono stati chiariti i limiti di utilizzabilità. Ferma restando la possibilità di ricorrere a personale apprendista fornito da una agenzia di somministrazione – si prevede infatti che il datore di lavoro può assumere un dato numero di apprendisti direttamente o “indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione di lavoro ai sensi dell’articolo 20 del D.Lgs. n. 276/2003” – si chiarisce ora che “è in ogni caso esclusa la possibilità di assumere in somministrazione apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato di cui all’articolo 20, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”. In sostanza, le agenzie di somministrazione potranno fornire lavoratori assunti con contratto di apprendistato solo in forza di una somministrazione a tempo indeterminato (c.d. staff leasing).

Corte di Cassazione sentenza 10 gennaio 2013, n.536. Infortunio sul lavoro, più verifiche ai giovani lavoratori

Ha rilevato la Corte di Cassazione che da un lato ha ritenuto il datore di lavoro responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore per avere omesso di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare l’evento; dall’altro ha affermato, sulla scorta della prova testimoniale, che gli occhiali protettivi si trovavano nel luogo di lavoro; che il loro uso era obbligatorio per disposizione dell’imprenditore; che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per l’esecuzione del lavoro cui era stato addetto, consistente nel piegare tondini di ferro lunghi 10-12 cm. con un martello, dopo averli bloccati con una morsa; che tale lavoro era di facile esecuzione e non comportava rischi.

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio sul lavoro, sia quando evita di adottare idonee misure protettive, sia quando non vigila affinché il dipendente le utilizzi. Il suo dovere di sicurezza e la sua responsabilità divengono ancora più intensi se il lavoratore è giovanissimo o inesperto e, ancor di più, se è apprendista, a favore del quale vigono precisi obblighi di formazione e addestramento. Sono questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione con la sentenza 536 depositata il 10 gennaio 2013.

Il caso ha riguardato un apprendista, al lavoro da 20 giorni, che, nel piegare un tondino, viene colpito a un occhio da una scheggia. Dagli accertamenti è risultato che il datore di lavoro avesse messo a disposizione occhiali protettivi e che il lavoratore non li avesse indossati.

In sede di giudizio, la Corte di appello ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro e lo condanna al pagamento, a favore dell'Inail, della somma equivalente dell'indennizzo pagato dall'Istituto. La società ricorre in Cassazione, contestando la sentenza di merito perché i giudici – sostiene la società – non hanno considerato che il datore aveva dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento.

Ha provato infatti che gli occhiali erano nel luogo di lavoro, che la loro obbligatorietà era imposta dall'azienda, che il capo officina aveva addestrato il lavoratore per la mansione specifica e che il lavoro era di facile esecuzione.

La difesa critica la Corte d'appello anche per non avere giudicato anomalo e imprevedibile il comportamento dell'apprendista, poiché egli, piegando il ferro con l'incudine e non (come avrebbe dovuto) con la morsa, aveva svolto un lavoro cui non era stato adibito.

La Cassazione, nel decidere, conferma in primo luogo che le norme per la prevenzione degli infortuni sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti derivanti da sua imperizia, negligenza e imprudenza. Il datore, pertanto, è responsabile dell'infortunio al lavoratore sia se omette di adottare le idonee misure protettive sia se non accerta e non vigila che il dipendente ne faccia uso.

Inoltre, i giudici esprimono un principio più convincente: il dovere di sicurezza, a carico del datore di lavoro, diviene particolarmente deciso se i lavoratori sono di giovane età o professionalmente inesperti e si accresce se sono apprendisti, soggetti verso i quali si devono manifestare precisi obblighi di formazione e di addestramento. Un'eventuale imprudente iniziativa di collaborazione da parte di uno di questi lavoratori, dunque, non esonera e non attenua la responsabilità del datore, su cui grava un obbligo di particolare vigilanza, diretta o attraverso collaboratori.

I giudici di merito, secondo la Cassazione, hanno applicato questi principi e il ricorso va, quindi, rigettato. Il messaggio è molto evidente: i lavoratori giovani e inesperti vanno adeguatamente formati e vigilati. Solo in questo modo il datore di lavoro può efficacemente prevenire incidenti ed evitare il sorgere, a proprio carico, di responsabilità.

La corte ha rigettato il ricorso e condannato la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in € 40,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Licenziamento del lavoratore possibilità al trasferimento o al tempo parziale

Rispetto rigoroso della tempistica, esatta individuazione dei requisiti dimensionali dell'azienda, definizione del perimetro del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva. Senza dimenticare l'obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1 gennaio 2013, che va versato a prescindere dall'esito della conciliazione.

A parte i passaggi previsti dalla conciliazione obbligatoria, bisogna considerare con attenzione anche i diversi effetti che questa produce sul rapporto di lavoro, a seconda dell'esito finale.

Il datore di lavoro può avanzare la procedura del licenziamento del lavoratore se il tentativo di conciliazione viene meno perché le parti non hanno trovato un accordo, perché si è verificato l'abbandono o l'assenza di una di esse, oppure se la convocazione da parte della Direzione Territoriale del lavoro (Dtl ) non è arrivata nei termini previsti: in queste ipotesi, la cessazione del rapporto ha effetto dal giorno della comunicazione alla Dtl con cui il procedimento è stato avviato (individuata nella data di ricezione della comunicazione da parte dell'ufficio), fatti salvi il diritto al periodo di preavviso – se il lavoratore non ha continuato a lavorare, durante la procedura – oppure, in alternativa, all'indennità sostitutiva in favore del lavoratore.

In alcuni casi, come quello di un periodo contrattuale di preavviso breve, si pone il problema di computare a questo titolo soltanto una parte dei giorni lavorati.

Per evitare eccessi, la riforma del lavoro ha previsto che eventuali malattie insorte dopo la comunicazione di avvio non producano alcuna sospensione del licenziamento, mentre restano validi gli effetti sospensivi previsti dalle norme a tutela della maternità e della paternità e in caso di impedimento derivante da un infortunio sul lavoro.

Viceversa, nell'ipotesi di esito positivo della conciliazione, le soluzioni alternative al licenziamento possono essere diverse: si pensi, ad esempio al trasferimento del lavoratore, alla trasformazione del rapporto da tempo pieno tempo parziale.
I contenuti dell'accordo sono verbalizzati dalla commissione di conciliazione, e acquistano un valore incontestabile.

Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, invece, la Dtl ne dà sempre atto con un verbale e resta escluso l'obbligo di convalida – previsto dall'articolo 4, comma 17, della legge 92/2012 – davanti a uno degli organismi abilitati. Inoltre, in deroga alla disciplina ordinaria, il lavoratore può accedere all'Aspi ed essere affidato a un'agenzia del lavoro per la ricollocazione.

Sugli adempimenti operativi che riguardano la comunicazione obbligatoria del licenziamento ai servizi per l'impiego, che in via ordinaria deve essere effettuata nei cinque giorni successivi al recesso, il ministero del Lavoro (con la nota 18273 del 12 ottobre 2012) ha già chiarito che il termine di riferimento decorre dalla conclusione della procedura di conciliazione: vale a dire dalla data di effettiva risoluzione del rapporto, e non dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, che la legge 92/2012 individua come «data legale» e dalla quale si producono gli effetti del licenziamento.

Ricordaiamo che, in caso di omissione della comunicazione obbligatoria, è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro, con un importo che va da un minimo di 100 euro a un massimo di 500 euro.

domenica 24 marzo 2013

Contribuzione dovuta sulle interruzioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato


L'INPS, con la circolare n. 44 del 22 marzo 2013, ha fornito alcuni chiarimenti sui criteri impositivi e sulla misura del nuovo contributo sulle cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato previsto dalla legge di Riforma del mercato del lavoro.

La legge introduce un nesso tra il contributo e il teorico diritto all’Aspi da parte del lavoratore il cui rapporto di lavoro è stato interrotto; conseguentemente, i datori di lavoro saranno tenuti all’assolvimento della contribuzione in tutti i casi in cui la cessazione del rapporto generi in capo al lavoratore il teorico diritto alla nuova indennità, a prescindere dall’effettiva percezione della stessa.

Restano escluse dall’obbligo contributivo le cessazioni del rapporto di lavoro a seguito di:

dimissioni (ad eccezione di quelle per giusta causa o intervenute durante il periodo tutelato di maternità);

risoluzioni consensuali, ad eccezione di quelle derivanti da procedura di conciliazione presso la D.T.L., nonché da trasferimento del dipendente ad altra sede della stessa azienda distante più di 50 km dalla residenza del lavoratore e\o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici;

decesso del lavoratore. 

Il contributo non è dovuto, per il periodo 2013 – 2015, nei seguenti casi: 

licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in applicazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai CCNL;

 interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e chiusura del cantiere.   

Ne consegue che, per le interruzioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato intervenute nel 2013, a decorrere dal 1 gennaio, per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni, la contribuzione da versare sarà pari a € 483,80 (€1.180X41%).  

Per i soggetti che possono vantare 36 mesi di anzianità aziendale, l’importo massimo da versare nel 2013 sarà, quindi, € 1.451,00 (€483,80 X 3).

L'Inps ha precisato che:
1. il contributo è scollegato all’importo della prestazione individuale; conseguentemente, lo stesso è dovuto nella misura indicata, a prescindere dalla tipologia del rapporto di lavoro cessato (full time o part time);

2. per i rapporti di lavoro inferiori ai dodici mesi, il contributo va rideterminato in proporzione al numero dei mesi di durata del rapporto di lavoro; a tal fine, si considera mese intero quello in cui la prestazione lavorativa si sia protratta per almeno 15 giorni di calendario. Per un rapporto di 10 mesi, ad esempio, l’importo da versare nel 2013 sarà pari a € 403,16;

3. nell’anzianità aziendale si devono includere tutti i periodi di lavoro a  tempo indeterminato. Quelli a tempo determinato si computano se il rapporto è stato trasformato senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione del contributo dell’1,40%.

4. nel computo dell’anzianità aziendale non si tiene conto dei periodi di congedo di cui all’articolo 42, c. 5 del D.lgs, 151/2001; 

5. la contribuzione va sempre assolta in unica soluzione, non essendo prevista una definizione rateizzata.

6. il contributo è dovuto anche per le interruzioni dei rapporti di apprendistato diverse dalle dimissioni o dal recesso del lavoratore, ivi compreso il recesso del datore di lavoro al termine del periodo di formazione.


ASPI tabelle contributive del 2013



Diffuse dall'Inps le tabelle contributive applicabili dal 1° gennaio 2013. Con il messaggio 4623 del 15 marzo 2013, l’Inps ha diffuso le tabelle con le aliquote contributive applicabili dal 1  gennaio 2013. Si tratta delle aliquote previste per i diversi settori nei quali operano le aziende che effettuano le rispettive attività, agricoltura inclusa, con personale dipendente.

Quest’anno le tabelle assumono un rilievo particolare dal momento che dal 1 gennaio 2013 è formalmente entrata in vigore l’Aspi per il cui finanziamento si preannuncia una contribuzione ripartita su tre distinti livelli: il contributo ordinario, quello aggiuntivo ed infine il contributo correlato all’interruzione di alcuni rapporti di lavoro.

Si ricorda che la contribuzione ordinaria è pari all’1,61%, ed è comprensiva della percentuale (0,30%) destinabile ai Fondi interprofessionali. Il costo del lavoro, per gran parte dei datori di lavoro, resta invariato in virtù della conservazione della medesima quota prevista sino al 31 dicembre 2012. Per altri invece può verificarsi una crescita, fissata dalla residua applicazione del cuneo fiscale.

Più salato è il costo del lavoro per chi si avvale di contratti non a tempo indeterminato. L'aumento è pari all'1,40%, decorre dal 1° gennaio e si paga per tutti i contratti, anche per quelli stipulati prima di quella data. Fanno eccezione, per espressa previsione della normativa, i lavoratori assunti in sostituzione, gli apprendisti, i lavoratori stagionali e i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Nei confronti di quei datori di lavoro per i quali l’incremento previsto risulta pari all’intero 1,61% si annuncia una graduale uniformazione della contribuzione in un periodo quinquennale, ossia dal 2013 al 2017. Cresce ancora il costo del lavoro per quei datori che si avvalgono di forme contrattuali a tempo determinato: l’aumento in tal caso è pari all’1,40%, decorre dal 1 gennaio ed è previsto il pagamento per tutti i contratti, anche per quelli stipulati precedentemente la data fissata.

Si fa eccezione per i lavoratori stagionali, i lavoratori assunti in sostituzione, gli apprendisti e i dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il maggiore onere contributivo, in realtà, può essere in parte vanificato mediante la previsione aggiuntiva della restituzione del contributo versato nell’ultimo semestre in caso di trasformazione a tempo determinato alla scadenza.

Nelle tabelle Inps non sono indicati gli apprendisti. Anche questa particolare categoria di lavoratori è interessata ad aumenti. Prima di tutti va rilevato che l'1,61% si applica a tutti gli apprendisti anche se assunti da aziende che occupano (al momento dell'assunzione) sino a 9 dipendenti e per cui trova applicazione lo sgravio totale triennale. Può essere utile, a riguardo, ricordare che il computo dei lavoratori (per verificare se si può usufruire dello sgravio) va eseguito escludendo gli apprendisti, i lavoratori assunti con contratto di inserimento (Dlgs 276/2003); i lavoratori assunti con contratto di reinserimento (articolo 20 della legge 223/1991), i lavoratori somministrati, con riguardo all'organico dell'utilizzatore. Si deve, inoltre, tenere presente che il requisito occupazionale va determinato tenendo conto della struttura aziendale complessivamente considerata e che, ai fini dello sgravio, rileva il profilo soggettivo relativo alla formazione dell'apprendista.

Aspi e mini-aspi, modifiche alla legge di stabilità 2013


L'INPS, con la circolare n. 37 del 14 marzo 2013, precisa ed integra le disposizioni impartite in materia con la circolare n. 142 del 18 dicembre 2012 in merito alla indennità di disoccupazione Aspi e mini–Aspi, soprattutto per quanto riguarda le modifiche ed integrazioni introdotte dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 (c.d. Legge di stabilità 2013). In particolare ha apportato alcune modifiche ed integrazioni relativamente alla durata delle indennità, la sospensione della mini-Aspi e l’applicabilità delle norme in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola.

Con la circolare nr. 37 dello 14 marzo 2013, l’INPS ha precisato che:

La durata delle indennità
Con riferimento al meccanismo di computo della durata a regime dell’indennità di disoccupazione Aspi per i nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dal 1 gennaio 2016.
Ambito temporale nel medesimo periodo” è sostituito da “negli ultimi dodici mesi” e l’inciso di cui alla lett. b) del medesimo comma ”nel medesimo periodo” è sostituito da “negli ultimi diciotto mesi. Inoltre la novella legislativa precisa l’ambito temporale entro cui va verificato l’eventuale periodo di indennità già fruito, necessario per determinare il meccanismo di detrazione.

Alla luce di queste modifiche, la circolare precisa che:
a) per i lavoratori di età inferiore ai cinquantacinque anni, l’indennità viene corrisposta per un periodo massimo di dodici mesi, detratti i periodi di indennità già eventualmente fruiti sia a titolo di indennità di disoccupazione Aspi che mini-Aspi negli ultimi dodici mesi  precedenti la data di cessazione del rapporto di lavoro;

b) per i lavoratori di età pari o superiore ai cinquantacinque anni, l’indennità è corrisposta per un periodo massimo di diciotto mesi, nei limiti delle settimane di contribuzione negli ultimi due anni, detratti i periodi di indennità già eventualmente fruiti sia a titolo di indennità di disoccupazione Aspi che mini-Aspi negli ultimi diciotto mesi precedenti la data di cessazione del rapporto di lavoro.

La sospensione della mini-Aspi
La legge di stabilità, modifica anche il meccanismo di computo della durata dell’indennità di disoccupazione mini-Aspi là dove all’art. 2, comma 21, l’inciso “detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo” è sostituito da “ai fini della durata non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione della prestazione”.

Pertanto relativamente al punto 3.2 (durata della prestazione), primo periodo, della circolare n. 142 del 2012 si precisa che l’indennità è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione nei dodici mesi precedenti la data di cessazione del rapporto di lavoro e che, ai fini della durata, non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione della prestazione.

Qualora invece la corresponsione di una precedente indennità mini-Aspi sia stata fruita parzialmente poiché interrotta per rioccupazione del beneficiario prima della fine del periodo di durata spettante, possono essere computati, ai fini di una eventuale nuova indennità mini-Aspi, anche i periodi di  contribuzione residui presi in considerazione per la precedente prestazione parziale, ma in relazione ai quali non vi sia stata una concreta erogazione della stessa prima indennità. Questi periodi di contribuzione residui devono naturalmente ricadere nei dodici mesi precedenti la data di cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro

Applicabilità delle norme in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola.

La legge di stabilità modifica l’art. 2, comma 22, della legge di riforma citata con riferimento alle disposizioni sull’indennità di disoccupazione Aspi applicabili anche all’indennità mini-Aspi. In particolare, per l’indennità mini-Aspi è stato eliminato il richiamo al comma 15 che prevede, in caso di nuova occupazione del soggetto assicurato con contratto di lavoro subordinato, la sospensione fino ad un massimo di sei mesi dell’indennità in godimento .

Di conseguenza, in caso di nuova occupazione con contratto di lavoro subordinato del soggetto assicurato percettore di indennità mini-Aspi, ’indennità è sospesa fino ad un massimo di cinque giorni, secondo quanto disposto dall’art. 2, comma 23, della legge di riforma.

Istruzioni contabili
Al fine di rilevare gli effetti economico-finanziari e patrimoniali prodotti dalla normativa in oggetto, è stata istituita, a decorrere dall’esercizio 2013, nell’ambito della Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti (PT), specifica evidenza contabile:

PTA – Gestione dei trattamenti dell’Assicurazione sociale per l’impiego, di cui all’art. 2, comma 1, della legge 28 giugno 2012, n. 92.

Alla nuova gestione devono essere imputati tutti i fenomeni connessi con la prestazione di disoccupazione ordinaria, denominata Aspi, la cui disciplina è contenuta nel paragrafo  2 della richiamata circolare n. 142/2012, nonché quelli concernenti l’indennità riconosciuta ai soggetti in possesso dei requisiti ridotti, denominata mini-Aspi, di cui al paragrafo 3 della predetta circolare, che sostituisce la precedente indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti ridotti, per effetto dell’abrogazione dell’art. 7, comma 3 del decreto legge n. 86/88, convertito con modificazioni dalla legge n. 160/88, operata dall’art. 2, comma 69, lettera b) della legge in argomento.

L’onere per il pagamento delle nuove prestazioni è posto, in parte, anche a carico dello Stato e, pertanto, dovrà essere rilevato nell’ambito della Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali (GIAS).

Per la rilevazione contabile dell’onere per le prestazioni in parola si istituiscono i seguenti nuovi conti:

PTA30100 – Indennità di disoccupazione Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 1 a 18 della legge n. 92/2012;
PTA30101 – Indennità di disoccupazione mini-Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 20 a 24 della legge n. 92/2012;
GAU30179 – Indennità di disoccupazione Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 1 a 18 della legge n. 92/2012 (per la quota parte GIAS);
GAU30180 – Indennità di disoccupazione mini-Aspi ai lavoratori dipendenti non agricoli, di cui all’art. 2, commi da 20 a 24 della legge n. 92/2012 (per la quota parte GIAS).

Il debito nei confronti dei beneficiari per le prestazioni Aspi e mini-Aspi ed il conseguente pagamento ai medesimi soggetti deve essere imputato al conto in uso GPA10022 (sia per la quota a carico GIAS che per quella di spettanza della nuova gestione).

La liquidazione delle nuove indennità ai lavoratori in possesso dei requisiti previsti dalla normativa in parola, è disposta utilizzando la procedura dei pagamenti accentrati delle prestazioni non pensionistiche, secondo gli schemi di contabilizzazione in uso.

Pensionati 2013: il Cud può essere consegnato dal commercialista


Anche i commercialisti, i ragionieri e, a certe condizioni, i periti tributari possono rilasciare il Cud ai pensionati. Dopo avere comunicato che i pensionati possono avere una stampa della Certificazione unica dei redditi presso i professionisti abilitati all'assistenza fiscale, l'Istituto – con messaggio 4909 del 22 marzo _ ha precisato che sono autorizzati i soggetti indicati nell'articolo 3, comma 3, del Dpr 322/1998 in possesso di certificato Entratel. E cioè: gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commercialisti, dei consulenti del lavoro; gli iscritti, al 30 settembre 1993, nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle Camere di commercio per la subcategoria tributi; le associazioni sindacali di categoria indicate nell'articolo 32, comma 1, lettere a), b), c) del Dlgs 241/1997.


Rientrano in questo gruppo Confindustria, Confartigianato eccetera, nonché le associazioni aderenti; le associazioni che riuniscono soggetti appartenenti a minoranze etnico-linguistiche; i Caf e altri soggetti individuati con decreto del ministro delle Finanze.

Finora, ha affermato il direttore generale dell'Inps Mauro Nori a «Salvadanaio» su Radio24, i canali preferiti dai cittadini sono stati il sito internet con 1,75 milioni di certificati, le sedi territoriali dell'istituto (500mila), il call center (450mila), oltre ai Caf.

Mentre prima di questo messaggio i pensionati che non riuscivano ad ottenere il Cud tramite internet dovevano andare in un ufficio postale e farselo stampare. Con un costo di 3,27 euro (2,70 più Iva). Era  una delle opzioni messe a disposizione dall'Inps.

Poi una una notizia fresca che il certificato dei reddiri può essere rilasciato anche dai professionisti abilitati all'assistenza fiscale che hanno sottoscritto con l'Inps la convenzione per la trasmissione dei modelli Red, quali consulenti del lavoro e commercialisti.
I nuovi canali si aggiungono agli otto già attivati dall'istituto di previdenza, dato che da quest'anno, come detto, la modalità principale di recapito deve essere quella telematica, mentre fino all'anno scorso il documento veniva inviato per posta al domicilio dei pensionati. Una novità rilevante, tenuto conto che la maggior parte dei destinatari non ha grande dimestichezza con i computer e internet.
In base a quanto previsto dalla legge di stabilità, l'invio cartaceo del Cud dovrebbe costituire una modalità residuale che i pensionati possono richiedere chiamando il numero dedicato 800.43.43.20.

Oltre alle modalità annunciate ieri, il certificato è disponibile nella sezione "servizi al cittadino" del sito Inps a cui si accede tramite codice Pin.

Può inoltre essere richiesto e ricevuto tramite una casella di posta elettronica certificata. Viene rilasciato gratuitamente dalle sedi territoriali dell'Inps, dallo sportello mobile per gli utenti ultraottantacinquenni e dai Caf (gratuitamente per chi già si avvale dei servizi dei centri di assistenza fiscale). Inoltre può essere consegnato anche a una persona delegata dal diretto interessato.

sabato 23 marzo 2013

Donne e lavoro più flessibilità e detassazione con il tempo parziale

Occorre detassare il lavoro delle donne e un uso più flessibile del tempo parziale sia per gli uomini sia per le donne in modo da riequilibrare i ruoli nella famiglia. Per la questione femminile e il mondo del lavoro: servono riforme e un cambio di visione.

L’Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia. Quando studiano, le ragazze italiane sono più brave dei ragazzi, in tutte le materie. I dati del programma Pisa (Programme for international student Assessment, l’indagine promossa dall’Ocse — l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico — allo scopo di misurare le competenze degli studenti in matematica, scienze, lettura e abilità nel risolvere problemi) mostrano che a 15 anni le ragazze italiane raggiungono punteggi di gran lunga superiori ai maschi in «abilità di lettura» (510 contro 464, una differenza enorme) ma anche in «abilità scientifica» (490 contro 488). Solo in matematica le ragazze fanno un po’ meno bene dei maschi. Non è da escludere che questo sia un effetto indotto da una cultura che assegna a ragazzi e ragazze ruoli diversi: «La matematica è una cosa da uomini».

Lo si vede nella scelta dell’università: il 76% delle matricole delle facoltà umanistiche sono donne; nelle scientifiche solo il 37%. Questa scelta probabilmente riflette anch’essa stereotipi culturali.

Perché laurearsi in fisica nucleare per poi fare la casalinga?
Meglio studiare poesia. Quando però le donne si iscrivono a una facoltà scientifica, spesso sono più brave: alla Federico II di Napoli, ad esempio, il 37% delle ragazze si laurea con 110 e lode, contro il 24% dei maschi.
La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. È vero che le donne più giovani lavorano di più: ad esempio, nella classe di età 35-44, il tasso di partecipazione è aumentato di 5 punti in un decennio. Ma rimane 15 punti inferiore al corrispondente tasso tedesco.

Il motivo di queste differenze straordinarie è che in Italia la divisione dei compiti tra lavoro domestico e lavoro retribuito sul mercato è più sperequata fra uomo e donna. La donna lavora in casa, il marito o il compagno in fabbrica, o in ufficio, sebbene, come abbiamo visto, il capitale umano delle donne giovani sia in media più alto di quello degli uomini.

Insomma, troppe donne con grandi potenzialità non le sfruttano. I dati lo dimostrano chiaramente. All’interno delle mura domestiche le donne italiane fanno molto di più dei loro compagni: 6,7 ore di lavoro casalingo al giorno contro meno di 3 ore. Sommando il lavoro nel mercato e a casa, sono gli uomini ad apparire cicale mentre le donne, come formiche operose, lavorano quasi 80 minuti al giorno in più dei loro compagni. E questo accade indipendentemente dal livello di istruzione: è vero sia per le donne con la licenza elementare che per le laureate.

Perché le donne italiane lavorano così poco fuori casa? Si dice perché non ci sono abbastanza asili nido gratuiti o sussidiati. Magari fosse così semplice! In primo luogo tutte le donne in Italia lavorano meno che in altri Paesi, non solo le giovani madri. Inoltre, in molti casi, i bambini non verrebbero mandati al nido neanche se questo fosse gratuito perché si pensa che sia la mamma a doversi occupare dei figli piccoli.

Ci si aspetterebbe che il nostro fosse un Paese con un alto tasso di natalità. E, invece, tanta attenzione per i figli non si riflette in tassi di fertilità altrettanto elevati: anzi, la fertilità è molto più alta in Svezia, dove quasi tutte le donne lavorano (1,9 figli per donna), che in Italia (1,4).

Insomma, le ragioni della scarsa partecipazione al lavoro sono molto più profonde: hanno a che fare con la nostra cultura, che assegna alla donna il ruolo di «angelo del focolare» e all’uomo quello di produttore di reddito.

Ma il risultato è che tanti uomini mediocri fanno un mediocre lavoro in ufficio; un lavoro che le loro mogli casalinghe farebbero molto meglio perché hanno più capitale umano. Inoltre, al momento degli scatti di carriera spesso le imprese preferiscono gli uomini; magari non semplicemente per discriminazione di genere, ma perché sanno che in caso di conflitto fra esigenze familiari e aziendali un uomo sarà più disposto di una donna ad anteporre le esigenze dell’azienda a quelle della famiglia.

Il risultato è che il capitale umano del nostro Paese è sottoutilizzato perché quello femminile è usato poco e male.
La famiglia rimane un’istituzione fondamentale della società, nessuno lo nega. Ma il punto è che in Italia, più di ogni altro Paese europeo, il carico della famiglia è troppo sbilanciato sulla donna. Fino a quando non si aggiusta questa equazione non si fanno passi avanti. Sia chiaro: ci stiamo muovendo su un terreno minato, che sfiora il dirigismo culturale. Forse gli italiani (uomini e donne) sono contenti così. Cioè sono contenti di una distribuzione del lavoro domestico e nel mercato tanto sbilanciata. Se così fosse, non c’è alcun motivo per cui il legislatore debba intervenire.

Ma siamo proprio sicuri che le donne italiane siano cosi felici di assumersi carichi domestici che paiono ben superiori a quelli delle donne di altri Paesi europei? Siamo così sicuri che tutte le donne siano contente di non essere promosse nel lavoro perché devono farsi carico della famiglia (non solo dei figli, anche di genitori e parenti anziani) praticamente da sole?

Forse no, e allora il prossimo governo dovrà mettere la questione del lavoro femminile al centro del suo programma. Proposte ce ne sono. Ad esempio per detassare il lavoro femminile e favorire la partecipazione al lavoro delle donne. Si deve anche considerare ad un uso molto più flessibile del part-time per facilitare la gestione della famiglia, come nei Paesi nordici, dove il contratto a tempo parziale è molto più diffuso. Attenzione però: lavoro a tempo parziale sia per uomini che per donne, per riequilibrare i ruoli nella famiglia.

Lavoro e fisco la prima fotografia del Ministero dell’economia del 2013

Quasi 10 milioni di italiani hanno l'Irpef pari a zero. La busta paga media sale a 19.655 euro mentre la metà dei contribuenti dichiara meno di 15.723 euro e 9 su 10 non superano i 35.600. Questa è la fotografia scattata dal ministero dell'Economia che ha pubblicato le dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche relative all'anno d'imposta 2011. I lavoratori autonomi sono a i primi in classifica per i redditi Irpef e i paperoni d'Italia sono circa 28.000.

Il reddito complessivo totale a livello nazionale dichiarato è pari a 805 miliardi di euro mentre il reddito medio è pari a 19.655 euro. Sia il reddito totale che quello medio sono in aumento rispetto all'anno precedente (rispettivamente +1,5% e +2,1%), in linea con l'andamento del Pil nominale.

La regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (23.210 euro), seguita dal Lazio (22.160 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 14.230 euro. Nel 2011 si registra un ulteriore allargamento del divario nord-sud rispetto al 2010: si riscontra infatti una crescita superiore del reddito complessivo medio nelle regioni settentrionali rispetto al resto del Paese; gli incrementi variano da un massimo del 2,2% al nord-ovest ad un minimo dell'1,0% nelle isole.

Circa 9,7 milioni di contribuenti hanno imposta netta Irpef pari a zero. Si tratta, in modo prevalente di contribuenti con livelli reddituali compresi nelle soglie di esenzione, ovvero di contribuenti la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni riconosciute dal nostro ordinamento.

Il 5% dei contribuenti con i redditi più alti, detiene il 22,9% del reddito complessivo, ossia una quota maggiore a quella detenuta dal 55% dei contribuenti con i redditi più bassi. Il 90% dei soggetti dichiara invece un reddito complessivo fino a 35.601 euro. Il numero totale di contribuenti che hanno assolto direttamente l'obbligo dichiarativo attraverso la presentazione dei modelli di dichiarazione Unico e 730, ovvero indirettamente attraverso la dichiarazione dei sostituti d'imposta (Modello 770), è circa 41,3 milioni (-0,5% rispetto all'anno precedente).

I ricchi d'Italia sono circa 28mila: tanti infatti sono i soggetti tenuti al pagamento del contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito eccedente i 300 mila euro, per un ammontare complessivo di 260 milioni di euro (poco più di 9.000 euro in media, deducibili dal reddito complessivo Irpef).

I lavoratori autonomi hanno il reddito medio più elevato, pari a 42.280 euro mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 18.844 euro. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è pari a 20.020 euro, quello dei pensionati a 15.520 euro e, infine, il reddito medio da partecipazione è pari a 16.670 euro. Rispetto all'anno d'imposta 2010 i redditi medi d'impresa (+3,7%), da pensione (+3,6%) e da lavoro autonomo (+2,3%) crescono piu' del reddito medio complessivo (+2,1%), mentre il reddito medio da lavoro dipendente (+1,1%) e da partecipazione (+1,0%) crescono meno.

C'è anche un balzo dell'addizionale regionale all'Irpef che ammonta complessivamente a 11 miliardi di euro (+27% sul 2010)), influenzato dall'innalzamento delle aliquote di 0,33 punti percentuali che ha portato l'aliquota base all'1,23% (0,9% nel 2010), raggiungendo un importo medio per contribuente pari a 360 euro. L'addizionale regionale media più alta si registra nel Lazio (450 euro), seguito dalla Campania (430 euro) mentre la più bassa in Basilicata (240 euro). L'addizionale comunale ammonta invece complessivamente a 3,4 miliardi di euro (+11% rispetto al 2010) con un importo medio pari a 130 euro.

Le detrazioni fiscali ammontano a più di 62 miliardi di euro, il 94% delle quali è composto da carichi di famiglia (18,2%), redditi da lavoro dipendente e pensione (67,1%) e oneri detraibili al 19% (8,5%). Nel 2011 le deduzioni ammontano a 30,9 miliardi di euro di cui 22,4 miliardi relative a oneri deducibili e 8,5 miliardi a deduzioni per abitazione principale. Risultano in flessione le deduzioni dei contributi ai servizi domestici e familiari (-4,4%), delle detrazioni per erogazioni a favore di istituzioni religiose (-3,5%) e delle detrazioni per erogazioni a favore delle Onlus (-6,9%), che sembrano essere frutto di scelte di riallocazione della spesa delle famiglie mentre continuano ad aumentare le spese sostenute per addetti all'assistenza personale (badanti) (+5,6%).

mercoledì 20 marzo 2013

250 nuovi mila posti di lavoro se lo stato restituisse alle imprese 48 miliardi di euro



Pubblichiamo l'intervista di Giorgio Squinzi di Fabrizio Forquet sul Sole 24 ore del 20 marzo 2013.

La restituzione di almeno «48 miliardi» dei debiti Pa alle imprese determinerebbe nei prossimi 5 anni «un aumento di circa 250mila occupati e un incremento del Pil dell'1%, par a 16 miliardi di euro, per i primi tre anni, fino ad arrivare all'1,5% nel 2018».

Lo dice il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, citando uno studio del Centro studi dell'associazione. Squinzi «auspica che il Governo in carica provveda tempestivamente ad adottare, già dal prossimo Consiglio dei ministri, tutti i provvedimenti necessari per la liquidazione di quanto spetta alle imprese, così come indicato dalla Commissione europea e chiaramente emerso dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio uscente, Mario Monti, che nei giorni scorsi ha manifestato la disponibilità a lavorare con la Commissione per identificare le soluzioni e avviare la liquidazione del debito nel più breve tempo possibile».

La simulazione del Centro studi Confindustria

La cifra di 48 miliardi, pari ai due terzi di quanto complessivamente dovuto a fine 2011, determinerebbe una serie di ricadute positive, e non scontate, sull'economia reale.
Secondo la simulazione effettuata dal Centro studi Confindustria, infatti, oltre al significativo aumento degli investimenti nei prossimi 5 anni pari ad oltre il 13% - un risultato importante che ribadisce l'impegno e la fiducia delle imprese nel paese - la liquidazione di questi crediti comporterebbe un aumento di circa 250mila occupati e, da sola, determinerebbe un incremento del Pil dell'1% (16 miliardi di euro) per i primi 3 anni, fino ad arrivare all'1,5% nel 2018.

domenica 17 marzo 2013

Assunzioni per il 2013 opportunità per chi lavora con internet


Internet è poco sfruttato dall’economia europea. E' quanto sostiene un nuovo studio della società Email-Brokers, secondo il quale sono ancoro troppo poche le aziende europee che vantano una presenza online e che riescono, quindi, a cogliere le opportunità offerte dall’eCommerce e dai social network in termini di business e creazione di occupazione. Dallo studio emerge che i paesi che vantano la maggior presenza di aziende online sono la Germania, il Belgio e l’Olanda, con una percentuale rispettivamente del 64%, 61% e 58%.
L’Italia risulta invece al secondo posto per numero di aziende attive nei social media (5,6%), dietro alla Gran Bretagna (6%) e davanti alla Svezia (5,4%). La Gran Bretagna (16%) è anche, col Lichtenstein (17%), il paese con la maggiore percentuale di aziende attive nel commercio online.
Comunque per il 2013 i profili più richiesti sono gli ingegneri e i laureati o diplomati, con esperienza, nel settore informatico. E Le opportunità di lavoro si trovano soprattutto nelle multinazionali italiane digitali.

Il settore web-internet offre opportunità di lavoro in diversi ambiti e per tutti i livelli di esperienza e specializzazione.

Amazon ha aperto una ventina di posizioni nelle sedi di Milano e Cagliari tra le quali spiccano manager costumer service, responsabili di reparto logistico, product manager, ingegneri industriali, analisti finanziari, online marketing specialist, email marketing manager. Il nuovo centro di customer service aperto a Cagliari lo scorso novembre prevede di creare 500 posti di lavoro nei prossimi cinque anni. Le posizioni aperte su www.amazon.it/lavoro.

Aruba cerca a Firenze e Arezzo candidati con profili di sviluppatore software, analisti tecnico funzionali e project manager in ambito tecnico. L'azienda preferisce assumere laureati o diplomati nel settore informatico con esperienza in attività di progettazione object oriented, nella realizzazione di applicazioni e architetture SOA per quanto attiene la figura dell'analista e buona conoscenza della lingua inglese. Le posizioni aperte sono disponibili al sito www.aruba.it/lavora.asp. Il numero di risorse, in particolare in ambito tecnico, ha subito un notevole incremento nel corso dell'ultimo anno soprattutto grazie ai nuovi servizi di Cloud Computing che Aruba sta proponendo al mercato e al processo di internazionalizzazione che sta vivendo.

Mentre in fase di potenziamento del proprio organico, Phonetica Spa è alla ricerca di operatori telefonici inbound (part time 20 ore settimanali) per la gestione di un servizio in lingua portoghese nella sede torinese. Le competenze richieste includono la buona conoscenza di inglese e portoghese. Le figure professionali più ricercate dall'azienda sono receptionist telefonici, gestori customer care e customer service; addetti al marketing telefonico e alla vendita telefonica BtoB.

QVC è dotato di un e-commerce online: E l'azienda è alla ricerca di nuovi talenti nelle aree Merchandising & planning, Finance, IT, E-Commerce, Marketing, area televisiva e nel Call center per il ruolo di operatore telefonico. Per consultare le posizioni aperte si può visitare il sito www.qvc.it/azienda/lavora-con-noi, per candidature spontanee mandare invece il curriculum vitae a italy.recruiting@qvc.com e in ambito Call center a italy.recruiting.CC@qvc.com.

Yahoo ha delle offerte di lavoro nella sede milanese: DR Analyst, Editorial Intern, Advertising Technology producer, Junior Sales support, International account manager e Stretegic planner. Ci si può candidare sul sito http://it.careers.yahoo.com.

L'azienda di e-commerce Zalando è alla ricerca di due stagisti nel marketing (uno nel canale Social media e uno nel SEO) e un Project manager per il servizio assistenza clienti. All'indirizzo www.zalando.it/career/departments è possibile applicare anche per offerte all'interno dei canali degli altri Paesi dove le posizioni aperte sono circa 400.

Lavoro 2013: licenziamenti individuali per motivi economici


Innanzitutto diciamo che il licenziamento individuale per motivi economici è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, regolato dall’articolo 3 della legge n.604/1966, secondo la quale costituiscono giustificato motivo oggettivo di licenziamento individuale:
la crisi dell'impresa
la cessazione dell'attività
il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, nel caso in cui non è possibile il suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili e coerenti con il livello di inquadramento.

Il licenziamento individuale per motivi economici, non è dovuto a un inadempimento del lavoratore, ma a esigenze tecniche ed economiche dell’attività aziendale.

Nelle aziende con più di 15 dipendenti l'assenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro per licenziare, quando viene comprovata davanti a un giudice, produce il reintegro del lavoratore e il risarcimento del danno subito.

Va messo in evidenza che la disciplina limitativa del licenziamento individuale risultante dalle leggi attualmente vigenti si applica nei confronti dei lavoratori dipendenti che rivestono la qualifica di impiegato ed operaio e, per quelli assunti in prova, dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva (art. 10 L. n. 604/1966). La disciplina del licenziamento economico si applica sia ai vecchi lavoratori sia ai nuovi assunti.

Vediamo adesso i primi numeri sulla procedura di conciliazione preventiva, introdotta dalla riforma Fornero per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (cosiddetti licenziamenti economici), danno utili indicazioni per valutare se e come sta funzionando l'istituto.

Secondo i dati del ministero del Lavoro, aggiornati al 31 gennaio 2013, emerge un primo fatto positivo: le direzioni territoriali stanno rispettando i termini che fissa la legge per svolgere la procedura. In gran parte dei casi, le parti sono convocate entro sette giorni dalla formulazione della richiesta di conciliazione, e la procedura si conclude entro i 20 giorni successivi. Non si tratta di un dato banale, se si considerano le croniche difficoltà della Pa quando deve gestire termini così stretti.

Il dato risulta ancora più positivo se si considera che i tentativi di conciliazione richiesti alla data del 31 gennaio sono molti: sono state, infatti, presentate 12.563 richieste, con alcuni picchi nelle città più popolose (1.042 a Roma, 1.180 a Milano, addirittura 1.450 a Napoli).

Risulta importante vedere gli esiti di queste richieste: alla data di osservazione 1.124 procedimenti risultavano ancora pendenti, mentre 1.831 si sono estinti per mancata comparizione delle parti. Le procedure concluse con un accordo tra le parti sono state 3.958, e il numero di quelle concluse con un mancato accordo è quasi identico, 3.638. Sommando le liti concluse con un accordo ai procedimenti abbandonati spontaneamente dalle parti, si scopre che quasi metà dei licenziamenti sono stati abbandonati o conciliati grazie alla procedura (il 46%), in cambio di una transazione economica.

Il grande numero di conciliazioni raggiunte potrebbe essere legato all'incertezza intorno alla nuova disciplina dei licenziamenti: ancora non ci sono sentenze che hanno definito i contorni del nuovo regime sanzionatorio e la procedura accelerata introdotta dalla legge Fornero mostra dei problemi di interpretazione che ne stanno depotenziando l'efficacia.

Un altro fattore, meno episodico e più strutturale, che può aver aumentato il numero delle conciliazioni può essere la regola, introdotta dalla riforma, che consente l'accesso all'Aspi alle persone che risolvono, nell'ambito della procedura obbligatoria, il proprio rapporto di lavoro. In passato le persone che risolvevano il rapporto di lavoro doveva escogitare gli stratagemmi più spericolati per accedere al trattamento di disoccupazione, in quanto questo spetta solo a chi ha perso il lavoro contro la propria volontà.

Quindi in sintesi in riferimento al licenziamento individuale per motivi economici vediamo cosa accade. Se il giudice ritiene non valido il motivo economico addotto dall’azienda, può decidere il reintegro del lavoratore. Sarà il dipendente, nel caso, a scegliere in alternativa l’indennizzo.

Mentre con la riforma riforma Fornero. Se il giudice ritiene non valido il motivo economico addotto dall’azienda, potrà decidere solo per l’indennizzo economico, che sarà tra le 15 e le 27 mensilità in base alle dimensioni dell’azienda, dell’anzianità del lavoratore e del comportamento delle parti.

Se il motivo economico è addotto per mascherare un licenziamento disciplinare o discriminatorio, si ricade nelle due ipotesi qui di seguito. Ossia, Il giudice non è chiamato a valutare il tipo di licenziamento, ma se dovesse valutare l’inesistenza dei motivi economici, scatterà l’indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità.

Licenziamento sentenze della Cassazione del 2013


Con la nuova riforma del lavoro la certezza è una sola: non esiste una strada sola per le istanze di reintegro nel posto di lavoro. A fare da esempio, c'è la vertenza che riguardava un lavoratore addetto a un appalto, poi improvvisamente cessato. Quel che più conta, però, è che, nel caso esaminato, il ritorno sul posto di lavoro non è stato interpretato come diretta conseguenza del sollevamento incongruo dall’incarico.

Esclusa, per il soggetto coinvolto, anche la possibilità di vedersi collocato ad altra mansione o funzione sempre nello stesso ambiente di lavoro.
Qualora un caso simile fosse pervenuto all’attenzione del Tribunale prima dello scorso 18 luglio, quando, cioè, è diventata legge dello Stato la riforma Fornero, l’esito del procedimento sarebbe stato opposto. Dunque, anche qualora l’autorità giudiziaria ravvisi l’illiceità dell’interruzione del rapporto di lavoro, non è automatico che a questa sentenza consegua il ritorno all’occupazione precedentemente svolta o a una affine.

Ne consegue che il diritto al reintegro non vada in alcun modo collegato alla legittimità o meno dell’atto di licenziamento, poiché viene inteso come collegato, ma non corrispondente, alla decisione di interruzione del rapporto di lavoro. Infatti, non è un caso che il datore di lavoro sia stato condannato, in chiusura di dibattimento, al risarcimento del lavoratore, ma non alla sua riassunzione completa. Quindi, il panorama sviluppatosi con la legge Fornero è molto, forse troppo, variegato e scivoloso: saranno le situazioni contingenti a determinare il diritto al reintegro o meno del lavoratore ingiustamente licenziato che ha sporto ricorso. Questo è uno scenario che porta sempre più incertezza sulla posizione occupazionale di moltissimi dipendenti, anche nel caso si rivolgano al giudice essendo certi di spuntarla contro il datore di lavoro.

Comunque la riforma del mercato del lavoro potrebbe riportare in primo piano la figura del licenziamento discriminatorio, anche se – alla luce degli orientamenti della giurisprudenza – non sarà facile per un lavoratore dimostrare di esserne stato vittima. La legge 92/2012 ha modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, incidendo sui licenziamenti disciplinari e su quelli per motivi economici, ma ha sostanzialmente lasciato immutata la disciplina dei licenziamenti discriminatori.

Mentre la risoluzione del rapporto basata su motivi disciplinari o economici, se ritenuta illegittima, può essere oggi sanzionata, in alcuni casi, con il solo indennizzo economico, in luogo della reintegrazione sul posto di lavoro, l'illegittimità del licenziamento discriminatorio continua a prevedere come sanzione la reintegrazione del lavoratore in azienda.

Con la sentenza 3547 del 7 marzo 2012, la Cassazione ha affermato che il licenziamento del dirigente può essere considerato arbitrario solo quando si dimostra pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà. In pratica, se il licenziamento è collegato a un effettivo processo di riorganizzazione del settore aziendale, la motivazione risulterà lecita e obiettivamente verificabile, escludendo in questo modo l'arbitrarietà del provvedimento espulsivo. Di diverso avviso la tesi del ricorrente, secondo cui la soppressione dell'area di responsabilità non rientrava in precise scelte organizzative ma era dettata da intenti ritorsivi o discriminatori.

Ricordiamo inoltre che in un'altra vicenda giuridica la Cassazione ha dato ragione al direttore provinciale di una confederazione e consigliere di amministrazione di una società controllata dalla stessa confederazione. Il lavoratore sosteneva di essere stato licenziato per volontà del presidente in conseguenza del proprio rifiuto di sottoscrivere il bilancio aziendale e di aver espresso un fermo rifiuto sul distacco di alcuni dipendenti della federazione presso la società controllata, poiché si sarebbe potuta ravvisare l'ipotesi di somministrazione di manodopera vietata. La Cassazione, con la sentenza 2958 del 27 febbraio 2012, ha confermato la pronuncia di merito ritenendo che l'assunto difensivo fosse adeguatamente motivato. Infatti, da un lato c'erano indici di ritorsione nei confronti del dipendente, dall'altro era mancato un riscontro fattuale del motivo economico posto alla base del licenziamento per riduzione dei costi ingenti legati alla posizione lavorativa del direttore.

Altra sentenza. Niente licenziamento se il lavoratore è costretto all'inattività. E' quanto ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1693 depositata il 24 gennaio 2013. Un dipendente di un'azienda telefonica denunciava di aver subito una dequalificazione professionale giungendo alla totale inattività lavorativa. La ditta aveva privato quasi completamente il dipendente delle sue mansioni, fino a licenziarlo per giusta causa per mancata osservanza dell'orario di lavoro. Il tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno e rigettava quella sull'illegittimità del licenziamento. In appello, invece, la corte disponeva la reintegra del lavoratore e gli riconosceva il risarcimento del danno. In sostanza, l'inattività forzosa  del lavoro voluta dall'azienda ha contribuito a determinare l'inadempimento del lavoratore, ridimensionando la gravità delle mancanze imputategli. La società sosteneva che per il datore di lavoro esiste solo l'obbligo di retribuire il proprio dipendente, non anche quello di farlo lavorare, e che se il datore di lavoro provvede al regolare pagamento della retribuzione il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione.

La Cassazione ha affermato che il rifiuto del lavoratore subordinato di svolgere la propria prestazione lavorativa (mansioni inferiori) può essere legittimo, e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive, se il rifiuto è proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (Cassazione n. 4060/2008). L'interesse aziendale all'esecuzione della prestazione è venuto meno nella misura in cui il comportamento del dipendente di non osservare l'orario di lavoro è stato tollerato dalla società che non ha contestato immediatamente con sanzioni di carattere disciplinare. L'inattività forzata del lavoratore non solo non giustificherà il licenziamento ma sarà anche fonte dell'obbligo di risarcimento del danno in capo al datore di lavoro.

La Cassazione civile, sezione lavoro con la sentenza 4197 del 20 febbraio 2013 ha stabilito che è illegittimo il licenziamento per abbandono del posto di lavoro se il codice disciplinare aziendale richiede, per rendere lecito l'atto del datore di lavoro, una condizione in più, vale a dire che il comportamento del lavoratore abbia determinato un danno o pericolo all'azienda o a persone.

Il caso riguarda un dipendente di una società cooperativa, che, durante l'attività lavorativa, lascia, improvvisamente, il posto di lavoro, esce dall'azienda e viene, di conseguenza, licenziato. Il lavoratore impugna l'atto del datore di lavoro di fronte al giudice sostenendo, a sua giustificazione, di essersi dovuto recare in ospedale per rimuovere un corpo estraneo dall'occhio e, comunque, di avere comunicato l'uscita al proprio superiore. Il tribunale dà ragione alla società e conferma il licenziamento. Il dipendente licenziato si rivolge alla Corte d'appello, che rovescia la decisione di primo grado, ritenendo illegittimo il licenziamento: secondo i giudici, il lavoratore era ricorso, effettivamente, a cure mediche, aveva segnalato il suo allontanamento al suo superiore e non aveva determinato, con la sua condotta, né interruzione nel ciclo produttivo aziendale né, come richiesto per la liceità del licenziamento dalla specifica regolamentazione aziendale, danno o pericolo a cose o a persone.

La Cassazione riconosce, che si era verificato un infortunio sul lavoro, avvalorando così le affermazioni del lavoratore circa l'esistenza di una situazione di emergenza. In secondo luogo, la Corte d'appello ha tenuto presente il principio in base al quale un licenziamento è giustificato solo se la condotta del lavoratore fa venir meno la fiducia del datore nell'esattezza delle future prestazioni.

sabato 16 marzo 2013

Crisi economica annus horribilis per il lavoro e le imprese



Il saldo tra apertura e cessazione delle imprese è stato negativo per due punti percentuali. Secondo i dati di Anepa Confartigianato sono stati persi più di 80mila posti di lavoro. Male anche per i costruttori artigiani: in un anno 55mila posti di lavoro in meno.
Ancora notizie negative dal fronte economico per l'Italia, sia nel campo del lavoro che in quello dell'edilizia. In due mesi, gennaio e febbraio, i lavoratori in cassa integrazione "equivalenti a zero ore" sono stati 490 mila, per un taglio del reddito di circa 650 milioni di euro, pari a circa 1.319 euro per ogni singolo lavoratore. È l'elaborazione della Cgil su dati Inps, secondo cui a febbraio sono state autorizzate 79 milioni di ore di cassa.

In due mesi le ore di cassa integrazione autorizzate alle aziende sono state 168 milioni con un aumento del 22,71% sullo stesso periodo del 2012. La Cgil segnala come a partire da gennaio del 2009 e fino ad oggi, le ore di cassa integrazione autorizzate siano state stabilmente intorno agli 80 milioni per mese.

«Prosegue senza sosta - afferma il segretario confederale Elena Lattuada - il deperimento del tessuto produttivo e il progressivo processo di deindustrializzazione del paese. Centinaia di migliaia di lavoratori si trovano in una condizione di grandissima sofferenza, acuita dalle complicazioni e dai mancati pagamenti della cassa integrazione in deroga che vanno assolutamente risolti e superati. I numeri dimostrano che la priorità da affrontare, l'emergenza alla quale dare risposta, è sempre il lavoro. Il Parlamento e il prossimo governo devono, in fretta, dare priorità assoluta al tema della crescita e del lavoro, anche con interventi straordinari altrimenti il conflitto sociale e i livelli di povertà diventeranno entrambi insostenibili».

Il settore delle costruzioni, che conta 894.028 imprese, ne ha perse 61.844, con un saldo negativo dell'1,88 per cento. In tutto - spiega Anepa Confartigianato - sono stati persi 81.309 occupati. Dunque - secondo il rapporto Anepa Confartigianato - «è un quadro sempre più cupo, costellato da segni negativi, quello che caratterizza il settore delle costruzioni. E oltre al profondo rosso delle aziende delle costruzioni non è andata meglio per le imprese artigiane, che ne rappresentano la fetta più consistente: 571.336 aziende, vale a dire il 63,9% del totale. Nel 2012 hanno chiuso 54.832 costruttori artigiani, con un saldo negativo dell'1,96 per cento.

Le imprese edili sono strette in una morsa fatta di scarso credito bancario e di tempi di pagamento sempre più lunghi. A novembre 2012 lo stock di credito erogato alle aziende delle costruzioni è in calo del 7,6% rispetto a novembre 2011. E i tempi di pagamento da parte dei committenti pubblici e privati si attestano su una media di 180 giorni, vale a dire 115 giorni in più rispetto alla media dei Paesi europei. Non meno preoccupanti le ripercussioni sull'occupazione: lo scorso anno il settore costruzioni ha perso 81.309 addetti, con una variazione negativa del 4,6 per cento. Di questi, 69.055 erano lavoratori dipendenti e 12.255 titolari e collaboratori. Ancora più negativo il trend della produzione: -16,2% nel corso del 2012, un crollo tre volte più intenso rispetto alla media europea (-5,6%).

A proposito di investimenti in edilizia, il rapporto di Confartigianato evidenzia le opportunità di interventi fortemente richiesti dai cittadini, soprattutto per quanto riguarda l'abbattimento di barriere architettoniche per disabili e anziani: quasi 1,5 milioni di persone riferiscono di avere difficoltà di accesso ad edifici e strutture pubbliche e il 98% degli italiani vorrebbe maggiori investimenti per l'abbattimento delle barriere architettoniche.

Imprenditoria femminile fondo perduto per il 2013

I contributi a fondo perduto sono somme che, una volta ricevute, non devono essere restituite da coloro che ne hanno beneficiato. Sono finanziamenti erogati generalmente da enti pubblici (Unione Europea, Ministeri, Regioni, ecc.) a favore delle nuove imprese o delle imprese già attive. Normalmente non sono necessarie garanzie per ottenere il contributo, tranne nei casi in cui è prevista l’erogazione di un anticipo.

Il contributo a fondo perduto viene concesso a fronte di un investimento dell’imprenditore per la realizzazione di opere o l’acquisto di beni strumentali che abbiano effetti durevoli sull’impresa ed è calcolato in percentuale sul totale dell’investimento. Il contributo viene erogato solo a fronte della presentazione di documentazione di spese (ovvero fatture dei fornitori quietanzate).

Il nuovo momento sociale, la crisi economica e ovviamente la mancanza di lavoro, hanno negli ultimi anni ingenerato un forte aumento dell’interesse verso l’imprenditoria femminile e i finanziamenti a fondo perduto. Sicuramente, l’idea di aprire un’impresa è un’ottima opportunità per mettersi in gioco e lavorare di creatività, consentendo di innovarsi su più fronti.

Vediamo come si può partecipare al bando finanziamenti imprenditoria femminile.
Richiedere la partecipazione ai bandi è possibile presentando un business plan fornito di descrizione del progetto che si intende realizzare e di una sezione più dettagliata inerente a requisiti di fattibilità finanziaria del progetto. Le spese ammissibili per le agevolazioni riguardano solitamente l’acquisto di terreni, di impianti e macchinari, consulenze e corsi di formazione.

Per ottenere i vantaggi dedicati all’imprenditoria femminile con finanziamenti a fondo perduto occorre possedere alcuni requisiti di ammissibilità. Sarà pertanto possibile ricevere le agevolazioni finanziarie nei casi di:
imprese individuali in cui il titolare sia una donna;
società di persone costituite in maggioranza, sia numerica che di capitale, da donne;
società di capitali costituite in maggioranza, sia numerica che di capitale da donne, e in cui l’organo di amministrazione sia costituito prevalentemente al femminile.

Possono essere erogate diverse tipologie di contributi a fondo perduto, si tratta di contributi in conto impianti (il cui valore massimo può ammontare per le micro e piccole imprese fino al 50% delle spese), contributo in conto interessi, il cui valore massimo del finanziamento può arrivare al 75% dell’investimento per micro e piccole imprese.
Inoltre vi è la possibilità di richiedere una combinazione di contributi Per accedere ai finanziamenti a fondo perduto le imprese devono operare nei settori dell’industria, del commercio e dei servizi.

Per vedersi agevolati nell’imprenditoria al femminile e poter usufruire dei finanziamenti a fondo perduto, è necessario rientrare in alcuni settori. Tra i settori ammessi vi sono quello manifatturiero e il settore dei servizi, mentre tra i settori esclusi emergono l’industria carboniera, il settore siderurgico e quello delle fibre sintetiche.

Come trovare i finanziamenti a fondo perduto attualmente a disposizione? Considerato che l’elenco di tutti i finanziamenti a fondo perduto esistenti attualmente in disponibilità sul territorio italiano sarebbe troppo lungo, cerchiamo di tracciare un percorso per consentirvi di individuare il finanziamento a fondo perduto più conforme alle proprie esigenze.

Una prima strada porta indubbiamente alle istituzioni comunitarie (Unione Europea – europa.eu) e a quelle statali (Governo – governo.it). Molti finanziamenti a fondo perduto vengono tuttavia erogati da parte delle Regioni su stanziamenti comunitari. Di conseguenza, è certamente buona norma consultare il sito internet della vostra regione (es. regione.nomeregione.it). Si consiglia inopltre di consultare il sito internet dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo dell’impresa (invitalia.it) e quello della Camera di Commercio più vicino alla sede della vostra impresa.

Stipendi per i dipendenti della Pubblica amministrazione : è online il servizio per accedere alla propria busta paga

E’ online il nuovo servizio per visualizzare gli stipendi della Pubblica amministrazione. Tutti i dipendenti pubblici hanno ora accesso online al proprio cedolino stipendiale e ad altri interessanti servizi erogati dal sito Noipa.

StipendiPa, il servizio online per la visualizzazione e la stampa del cedolino stipendiale dei dipendenti pubblici e per scaricare altri documenti, è stato sostituito da Noipa, che ha le stesse funzionalità.

Tutti i dipendenti della pubblica amministrazione hanno accesso online alla propria busta paga e ad altri servizi. Infatti, possono visualizzare i propri documenti tramite il portale Stipendipa, sostituito da Noipa, che consente di variare autonomamente la modalità di pagamento degli stipendi e di fare altre operazioni, senza dover recarsi necessariamente presso gli uffici competenti.

Ricordiamo che il servizio di NoiPa nasce al fine di consentire il processo di dematerializzazione dei documenti e ogni dipendente, anche chi non disponga di casella di posta elettronica istituzionale o che si trovi dislocato fuori sede, può visualizzare e stampare il proprio cedolino e scaricare altri documenti.

Questo servizio consente di accedere ad una serie di documenti utili:
 cedolino stipendiale, buste paga, CUD e il modello 730

I documenti sono disponibili in formato digitale e per breve tempo, è necessario pertanto stamparli o salvarli sul proprio computer. Il portale di NoiPa rende disponibili una serie di funzionalità self-service e nell’area servizi online sono descritte, per ciascuna tipologia di utente, tutte le applicazioni a cui questi può accedere https://noipa.mef.gov.it/servizi-online .

La busta paga per i dipendenti della P. a. è caratterizzato da tre pagine chiare, nella prima pagina dispone informazioni riepilogative, nella seconda pagina sono presenti i dettagli delle informazioni riepilogative, e la terza pagina può contenere eventuali note all'amministrato.

Accedere al cedolino stipendiale è possibile tramite una registrazione al sito di NoiPa e inserendo il codice riservato ai dipendenti pubblici.

Vediamo nel dettaglio la composizione del cedolino per gli stipendi Pa.

Prima pagina: i suoi diversi riquadri contengono rispettivamente l’anagrafica del dipendente, i dati dell’ente di appartenenza, la posizione giuridico-economica, il dettaglio delle detrazioni e gli estremi di pagamento, nonché i dati riepilogativi della retribuzione con le competenze fisse, quelle accessorie, le ritenute e i conguagli fiscali.

Seconda pagina: vengono riportati i dati di dettaglio della retribuzione con competenze fisse, competenze accessorie e altri assegni, e i dati circa le ritenute previdenziali,fiscali e le ritenute sindacali.

Terza pagina: si compone dei dati dell'amministrazione e dell'Ufficio Responsabile, i dati del relativo codice fiscale e dell'Ufficio di Servizio del dipendente, ed eventuali note dell'amministrazione al dipendente.

StipendiPa è diviso in due categorie: una di accesso libero e un’area riservata. La prima categoria, di accesso libero, contiene le circolari, comunicazioni e informazioni generali della pubblica amministrazione mentre che la seconda categoria è riservata alla consultazione personale dei dipendenti pubblici sui propri dati stipendiali, cedolini, CUD, ecc….Nello specifico, sono disponibili 13 mensilità per la visualizzazione e stampa del cedolino e 5 annualità per i CUD ed i 730 (relativo alle assistenze dirette).

Ci sono diverse modalità di accesso al servizio StipendiPa (ora Noipa). Infatti, esso può avvenire con l’inserimento User (codice fiscale) e Password (fornita dal sistema) o tramite CNS (Carta Nazionale dei Servizi). Per accedere al servizio StipendiPa tramite password, è necessario registrarsi: cliccare il pulsante in alto a destra “area riservata” ed effettuare la registrazione (primo accesso) tramite il proprio codice fiscale del dipendente pubblico e la partita stipendiale.

Una volta inseriti i dati però, è necessario modificare la password, altrimenti non sarà possibile utilizzare il servizio online StipendiPa, sostituito da Noipa. Inoltre, la password va modificata ogni 180 giorni. Una volta scaduta, sarà il proprio sistema a condurre il dipendente presso la pagina apposita per cambiare password.

I cedolini degli stipendi vengono mostrati in ordine decrescente e rappresentano le ultime 13 mensilità. E’ possibile scaricare il documento in PDF (cliccando su ‘azioni’) per procedere alla stampa.

Per quel che riguarda i CUD, viene selezionato un elenco premendo il pulsante Visualizza CUD. Sempre in ordine decrescente e in riferimento agli ultimi 5 anni. Lo stesso serve per i 730: selezionando il pulsante Visualizza 730 viene rappresentato l’elenco, in ordine decrescente, dei 730 di competenza del dipendente pubblico connesso.

La prima volta che viene utilizzato il nuovo sito per scaricare lo Stipendio Pubblica Amministrazione, Noipa, è necessario realizzare il Primo accesso.  Esso viene effettuato inserendo il codice fiscale e la partita stipendiale.

La partita stipendiale viene attribuita al momento della creazione della partita di stipendio. Si trova in alto a destra del cedolino, nel riquadro dove è presente il cognome e il nome. Quindi, nel momento in cui un dipendente pubblico riceve la prima busta paga, ha già una partita stipendiale. La partita stipendiale, per il primo accesso a Stipendio Pubblica Amministrazione deve essere digitata comprensiva degli zeri iniziali quando presenti, per un totale di 8 caratteri.

Una volta realizzato il primo acceso, e quando il sistema avrà controllato l’identità del dipendente interessato, viene inviata una mail con una password di accesso. Ma questa password è soltanto per il primo accesso, ovvero, una volta il dipendente avrà effettuato l’accesso a Stipendipa sarà automaticamente indirizzato ad un nuovo spazio per modificare la password e creare una chiave di accesso personale. Questa nuova password, di Stipendipa, va collegata ad una domanda segreta, ed è importante fare attenzione alla domanda scelta perché sarà la prima cosa che richiederà il sistema nel caso di password smarrita.

lunedì 4 marzo 2013

Busta paga per badanti e colf

In occasione del pagamento dello stipendio, il datore di lavoro deve predisporre una busta paga (anche chiamata prospetto paga o cedolino di paga) in cui vengono riportate e quantificate tutte le componenti della retribuzione. La figura della badante o colf si occupa di fornire assistenza presso il domicilio degli anziani; molto utilizzata in Italia, gode di regolare inquadramento e busta paga.

Vediamo gli elementi che costituiscono la busta paga, il quale deve essere composto dalle seguenti attività:

calcolo competenze e trattenute
elaborazione dei parametri progressivi del contratto di lavoro
calcolo del TFR
elaborazione e calcolo del valore dei contributi

La busta paga deve essere composta da seguenti elementi: dati anagrafici del datore di lavoro nonché quelli della collaboratrice. La prima riga riporterà la data di assunzione e quella di licenziamento, nonché gli scatti di anzianità che per colf e badanti maturano ogni biennio.

La seconda riga indicherà la scadenza del tempo determinato, la percentuale di tempo parziale (quest’ultima viene indicata solo nel rapporto di non convivenza) e i ratei di tredicesima. Le righe immediatamente successive faranno riferimento ad elementi come la paga base, l’indennità di funzione, il risultato in euro degli scatti di anzianità maturati e lo straordinario forfetizzato (ovvero l’importo corrisposto per compensare gli straordinari effettuati nel mese di riferimento).

Altri valori indicati saranno l’indennità assorbibile, ossia un valore corrisposto in aggiunta al minimo sindacale, e l’acconto futuri aumenti. Qualora il datore di lavoro e la badante si accordino per il pagamento di ferie, tredicesima e TFR a cadenza mensile, si potranno compilare altresì i campi indicati con le apposite diciture.

Occorre tener presente che nella compilazione della busta paga si distingue il caso della badante a ore da quello della badante fissa. Le ‘ore ordinarie’, ossia il numero delle ore lavorate, sono indicate in modo differente a seconda che il rapporto sia di convivenza oppure no.

Nel caso di non convivenza si calcolano come segue: tempo x valore = competenze. Nei casi di convivenza della badante con l’assistito, risulterà anche la dicitura ‘ore non lavorate’, che si ottengono sottraendo all’importo del pagamento mensile le assenze. Le badanti conviventi possono svolgere al massimo dieci ore al giorno non consecutive, per un totale di 54 ore a settimana, mentre quelle non conviventi possono svolgere al massimo otto ore di lavoro al giorno non consecutive per un totale di 40 ore alla settimana.

Il TFR del mese è composto dalla somma dei redditi mensili (stipendio, prestazioni aggiuntive e valori sostitutivi di vitto e alloggio) diviso 13,5. Nell'anno in corso il TFR accumulato è la somma dei TFR mensili.

Per il computo di quanto accantonato negli anni precedenti si considera il valore al 31 dicembre dell'anno precedente rivalutato secondo il coefficiente  Il valore del TFR è il totale tra il TFR dell'anno in corso e quello, rivalutato degli anni precedenti.

domenica 3 marzo 2013

Contributi per l’imprenditoria giovanile per il 2013

Ci sono leggi e regolamenti dettagliati a cui devono fare riferimento tutti i giovani che sono alla ricerca di finanziamenti per la loro idea imprenditoriale.

La legge 95/95 prevede infatti finanziamenti per i giovani che decidono di avviare un'attività in proprio, ma non mancano anche finanziamenti e sovvenzioni di altro tipo. C'è anche, ad esempio, la legge 236/93 (che è stata successivamente integrata dalla legge 144/99) che dà contributi a fondo perduto e finanziamenti a tasso di interesse agevolato ai giovani che vogliono creare imprese di servizi.

Non è semplice ottenere dei contributi per un giovane imprenditore, ma è fattibile se si ha la decisione di mantenersi informati e un’idea che sia competitiva e allettante. La prima cosa da fare è rivolgersi a Invitalia, un’agenzia che opera su mandato del Governo per stimolare la competitività del paese sostenendo i settori di sviluppo strategici. Ci si può anche rivolgere ad un altro ente governativo costituito ad hoc per i giovani: Giovane impresa – portale per l’imprenditoria giovanile.

Vediamo la normativa in materia di finanziamenti per giovani imprenditori.


La legge 95/95 che prevede finanziamenti per i giovani che desiderano avviare un’attività in proprio;
La legge 263/93 (successivamente integrata dalla legge 144/99) che offre contributi a fondo perduto e finanziamenti a tassi agevolati per i giovani che avviano imprese di servizi;
Il DL n. 185 del 21 aprile 2000 sugli “incentivi all’auto-imprenditorialità e all’auto-impiego (in attuazione del dell’art. 45, comma 1 della Legge 144/99);
Il DL n. 29 del 28 maggio 2001 sul “Regolamento recanti criteri e modalità di concessione degli incentivi a favore dell’auto-impiego.
La Legge 95/95, in quanto aiuto di Stato non è cumulabile ad altre agevolazioni analoghe, ma a volte è possibile il cumulo di agevolazioni esclusiva mene di tipo fiscale.

I destinatari di queste agevolazioni sono giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni che costituiscono nuove società nelle seguenti tipologie:
S.n.c. (società a nome collettivo);
S.a.s. (società in accomandita semplice);
S.r.l. (società a responsabilità limitata);
S.p.a. (società per azioni)
S.a.p.a. (società in accomandita per azioni)
S.s. (società semplice)
Cooperative e piccole cooperative.
Sono escluse le imprese individuali, le società di fatto, le s.r.l. con un unico socio.

Per fare richiesta alle agevolazione ricordiamo che non esistono dei periodi specifici per inoltrare una domanda di finanziamento. Il bando è attivo sempre.

Le agevolazioni consistono in contributi a fondo perduto (cioè la somma concessa in prestito non si deve restituire) e finanziamenti a tassi di interesse agevolati (cioè parte dell’investimento si restituisce su un piano quinquennale di ammortamento con rate trimestrali) nei limiti dettati dalla localizzazione, dal settore di attività e dalla dimensione di impresa.

La copertura finanziaria varia a seconda della Regione in cui avrà sede l’impresa, ma ovviamente lo Stato non copre tutto. Resta ben inteso che solitamente non si concede oltre il 50% del capitale necessario, il resto deve essere messo di tasca propria. Tuttavia, in base alla regione e alla tipologia di impresa si possono ottenere finanziamenti fino al 90% dell’investimento (di cui 45% a fondo perduto) nelle regioni del Sud Italia.

Per il Centro nord le stime di copertura sono dell’80% (di cui il 35% a fondo perduto) dell’investimento per il settore agricolo e 60-70% dell’investimento (di cui il 15% a fondo perduto) per tutti gli altri settori.

Le leggi da tenere presenti al giorno d'oggi sono il DL del 21 aprile 2000, n. 185 sugli Incentivi all'auto imprenditorialità e all'auto impiego, in attuazione dell'articolo 45, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144" e il Decreto del 28 Maggio 2001, n° 29 sul "Regolamento recante criteri e modalità di concessione degli incentivi a favore dell’auto impiego".

L’auto imprenditorialità è indirizzata a chi vuole avviare imprese nel settore agricolo, artigianale, industriale, servizi alle imprese e servizi turistici, per un massimo di 2,5 milioni di euro; e l’auto-impiego che si distingue, a sua volta, in tre iniziative di impresa:
lavoro autonomo (ditta individuale – investimento massimo di 25.823€ noto come “prestito d’onore”);
micro-impresa (società di persone – investimento massimo di 129.114€);
franchising (ditta individuale e società di persone – questa tipologia è la più frequente e con Invitalia si può scegliere un franchisor accreditato con il quale intraprendere l’esperienza).

Mentre per l’auto impiego non è necessario avere meno di 35 anni e la domanda può essere presentata in tutto il territorio nazionale senza discriminanti territoriali.

I settori finanziabili sono quelli dei servizi, del commercio e della produzione. Alle agevolazioni per gli investimenti si aggiungono nei primi due anni di attività altre agevolazioni per l’acquisto delle materie prime o per le spese di gestione fino ad un massimo del 50% del totale delle spese sostenute.

L’importante è che il progetto che usufruisca delle agevolazioni sia svolto per un periodo minimo di 5 anni a partire dall’effettivo inizio dell’attività e per lo stesso periodo deve mantenere la sede amministrativa, legale e operativa nel territorio in cui nasce l’impresa.

Negli ultimi anni, le richieste di finanziamento sono aumentate ed è molto difficile ottenere un finanziamento, per cui è necessario che il progetto sia molto efficace, innovativo, fattibile e soprattutto abbia un business plan convincente. Il portale Giovane impresa può essere di grande aiuto offrendo un servizio di valutazione del business plan.
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